crudeltà, teatro della

Artaud fu molto attento a evitare che il termine crudeltà venisse inteso in un’accezione ingenua, («è un errore attribuirle il senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressato del male fisico») e ne rivendicò tanto il valore metafisico («è il rigore, è la vita che supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose, è questo sentimento puro e implacabile che io chiamo crudeltà») quanto il valore tecnico («propongo un teatro in cui le immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori», «un teatro che riproponga tutti gli antichi e sperimentati mezzi magici», «che abbandonando la psicologia racconti lo straordinario e metta in scena conflitti naturali», «che provochi trance come le danze dei Dervisci e degli Aissaua, e si rivolga all’organismo con strumenti precisi»). Un teatro, infine, `integrale’, che nasca dalla compartecipazione senza gerarchie dei linguaggi (gesto, immagine, movimento, suono, parola) espressi attraverso i `geroglifici’ di una scrittura sacra. Alla base di questa concezione stanno da una parte l’influenza delle culture spettacolari dell’Oriente (Artaud fu profondamente impressionato, nel 1931, dall’esibizione del gruppo dei danzatori balinesi all’esposizione Coloniale di Parigi) e dall’altra l’insofferenza per le forme di un teatro convenzionale, naturalistico e subordinato al testo scritto come quello che veniva proposto sui palcoscenici francesi ed europei dei primi decenni del secolo. In altri uomini di teatro, queste due componenti aprirono la strada alle riforme della scena (era accaduto ad esempio ad Appia e a Gordon Craig) o alle pratiche della nuova regia (Piscator e Mejerchol’d), in Artaud esse agirono invece come un potente stimolatore di visioni , mentre ebbero scarso rilievo le occasioni in cui egli tentò di dar loro una concreta forma di spettacolo. La critica che Artaud rivolgeva alla scena occidentale puntava, oltre che all’abbattimento della `superstizione’ del testo, anche al ribaltamento delle fondamenta stesse del teatro, inteso come arte della mimesi, imitazione e rappresentazione della vita. La radicalità e l’efficacia di questa posizione hanno cominciato ad operare sulle scene vent’anni più tardi, quando è apparsa la traduzione inglese di Il teatro e il suo doppio (1958). Adottato come `mentore’ da Julian Beck e Judith Malina, Artaud ha visto trasformata la sua crudeltà in aggressione `totale’ dello spettatore, una caratteristica delle produzioni del Living Theatre nei primi anni ’60 ( The Brig , 1964). Ugualmente alla crudeltà si sono rivolti Peter Brook e Charles Marowitz dando vita, nel 1963, al Lambda Theatre di Londra – su finanziamento della Royal Shakespeare Company – a una stagione di rappresentazioni `crudeli’ (tra le altre anche Le jet de sang di Artaud e The Guillotine dello stesso Brook), il cui esito, un anno più tardi, è stata la messinscena del Marat/Sade di Peter Weiss, divenuto poi anche un celebre film. Ma l’influenza crudele delle visioni di Artaud va ben oltre i suoi diretti esecutori e si estende, attraverso un’interpretazione a volte molto libera delle sue idee, a tutti coloro che dopo gli anni ’60 e ancora negli anni ’90 (in Italia, ad esempio, la Socìetas Raffaello Sanzio) hanno cercato con i più diversi mezzi di lavorare sulla rottura della rappresentazione scenica, chi mettendo in atto un diverso e rigoroso regime di teatralità (come Jerzy Grotowski), chi dissolvendo le sue formulazioni in altre esperienze (teatro panico, teatro totale, happening, performance), chi ispirandosi ad Artaud nell’elaborazione di una poetica di regia (Roger Blin).