critica

Dipende molto dal veicolo di cui si serve (e il critico teatrale per antonomasia è colui che si rivolge al pubblico dalle pagine di un quotidiano), dal tipo di teatro di cui deve riferire, oltre che naturalmente dai gusti, dalla sensibilità, dalla preparazione specifica e dalla capacità di farsi leggere del singolo individuo. Abbiamo così, schematizzando, differenti tipi di critici, talmente dissimili fra loro da poter essere accumulati solo in una definizione generica. C’è infatti, specie dove il teatro è prevalentemente commerciale e frequentato soprattutto dai ceti abbienti, il critico-guida il cui compito è di indicare ai lettori quali dei tanti prodotti che le varie sale mettono a disposizione meritano di essere visti, reagendo con molta cautela alle nuove proposte e influenzando, volente o nolente, gli esiti mercantili di ogni commedia. Esempi significativi in questo senso sono stati, in perfetta sintonia con i loro pubblici, Francisque Sarcey nella Parigi della Terza Repubblica, Alfred Kerr nella Berlino guglielmina, Renato Simoni nella Milano fra le due guerre e i recensori dei maggiori giornali newyorkesi in tutta la storia di Broadway. C’è poi quello che con la sua attività critica propone con insistenza un cambiamento del teatro del suo tempo e del suo Paese, come fecero, fra gli altri, Silvio d’Amico, Kenneth Tynan e Robert Brustein battendosi rispettivamente per lo svecchiamento della scena italiana, inglese e americana. O quello che si schiera apertamente per un tipo di teatro provvisoriamente minoritario, come Bernard Shaw che perorò la causa di Ibsen in attesa di proporre una propria drammaturgia, o Herbert Ihering che impose Jessner e Piscator nella Germania di Weimar, o Roland Barthes, Bernard Dort e gli altri collaboratori della rivista Théâtre Populaire che nella Francia degli anni Cinquanta, come Tynan in Inghilterra e Eric Bentley negli Stati Uniti, diffusero con fervore il nuovo verbo brechtiano, o quelli – per esempio Richard Schechner, Michael Kirby e John Lahr negli Stati Uniti, Franco Quadri e Giuseppe Bartolucci in Italia – che affiancarono con dichiarata parzialità quelle personalità e quei gruppi che nella seconda metà del secolo cercarono di innovare le forme, i linguaggi e l’idea stessa di teatro. O l’intellettuale per il quale l’esercizio della critica teatrale è solo un’attività occasionale e comunque secondaria, anche se ciò non gli impedisce di fornire intuizioni illuminanti (politici come Piero Gobetti e Antonio Gramsci, scrittori come Henry James, Paul Léautaud, Alberto Savinio e Ennio Flaiano). O coloro che seppero affiancare all’attività di critici militanti sintesi saggistiche che esercitarono grande influenza, da Adriano Tilgher che negli anni Venti tentò una prima sistemazione coerente della drammaturgia pirandelliana, all’inglese Martin Esslin che, studiando organicamente gli autori d’avanguardia affermatisi intorno al 1950 nel suo Teatro dell’assurdo , coniò una formula destinata a grande fortuna, a Angelo Maria Ripellino che seppe far rivivere sulla pagina il grande teatro russo dei primi trenta anni del secolo, e al polacco Jan Kott, i cui saggi raccolti nei volumi Shakespeare nostro contemporaneo e Arcadia amara diedero stimoli nuovi e fecondi ai registi chiamati ad allestire i maggiori testi shakespeariani.