Riondino

Dopo aver lavorato dieci anni a Firenze come bibliotecario, David Riondino artisticamente nasce con la generazione dei cantautori degli anni ’70. Nel 1975 debutta allo Zelig di Milano avviando un’attività che lo porterà a esplorare quasi tutte le forme di comunicazione, costruendo il suo personaggio spettinato, fine verseggiatore saggiamente satirico. La sua produzione è molto ricca a partire dalla musica; il primo album è “Boulevard”, seguono “Tango dei miracoli” (uscito solo in edicola con illustrazioni di Milo Manara), “Racconti picareschi” (1989), “Non svegliate l’amore” (1991), “Temporale” (1994) e, infine, “Quando vengono le ballerine” (1995). Sul grande schermo lo vediamo a fianco di Paolo Rossi in Kamikazen (1987), Cavalli si nasce (1989) di Sergio Staino, a fianco di Paolo Hendel, fino a Cuba Libre (1997), di cui è regista. Contemporaneamente prosegue il suo percorso come attore teatrale con Romanzo picaresco (1989) e di nuovo a fianco di Paolo Rossi in Chiamatemi Kowalski e La commedia da due lire (1990), per continuare con Paesaggi dopo la battaglia (1991), O patria mia (1993-94) di Giuseppe Bertolucci e, infine, Solo con un piazzato bianco (1996). Numerose sono anche le sue apparizioni sul piccolo schermo in trasmissioni come Lupo solitario, Fuori orario, Aperto per ferie, L’araba fenice .

Ronconi

Nato in Tunisia, dove la madre a quel tempo si trovava a insegnare, Luca Ronconi deve forse anche a questo spiazzamento d’origine la capacità di distanziazione critica che l’ha distinto dai suoi colleghi, specie dai registi della prima generazione, lui che come capofila della seconda, era più portato a mettersi continuamente in questione, a sfuggire alle etichette, a inventarsi sulla propria pelle una poetica personale, perseguendo un modo di comunicare dettato da diverse modalità espressive e spaziali. È anche rilevante il fatto che approdi alla regia nel 1963, con un Goldoni sfortunato e controcorrente per gli eccessi naturalistici (La buona moglie, frutto di un dittico con La putta onorata – che in un rifacimento televisivo chiamerà Bettina), da una carriera d’attor giovane applaudito ma poco convinto, in cui affronta tra l’altro, con regie di Squarzina, Costa, De Lullo e anche Antonioni, due edizioni di Tre quarti di luna accanto rispettivamente a Gassman e a Carraro, Romagnola dello stesso Squarzina, il doveroso Candida, e due successi d’epoca quali Tè e simpatia con la Villi e Il diario di Anna Frank con la Guarnieri. Ma la messinscena che lo fa conoscere sarà, tre anni più tardi, quella dei Lunatici di Middleton e Rowley, dove trasferisce nel manicomio assieme al protagonista savi e pazzi con effetti di recitazione esasperata che subito lo fanno apparentare al Teatro della Crudeltà artaudiano, rilanciato in quegli anni da Brook.

Nello stesso senso s’indirizzano i due successivi Shakespeare: un Misura per misura estivo e un importante Riccardo III con Vittorio Gassman imprigionato in una protesi, dentro una scena di sculture lignee preesistenti di Mario Ceroli, che con ardue scale delineano il meccanismo del potere e mettono a dura prova gli attori, impediti nei movimenti come sul pendio ripidissimo della Fedra senechiana. Il principio di lettura è strutturalista e fa scattare le contraddizioni anziché risolverle, come accadrà per altri elisabettiani del periodo, da La tragedia del vendicatore di Tourneur con tutti i 24 personaggi interpretati da sole donne alla Partita a scacchi di Middleton con i ragazzi dell’Accademia in funzione di pedine. Ma alla base di questi testi a interessare Ronconi c’è lo stesso delirio barocco che si ritrova nel Candelaio di Giordano Bruno, dove, in pieno Sessantotto, le parti dei marioli contestatori sono affidati ad attori presi dalla vita da contrapporre ai professionisti, e nelle ardite stranezze della Centaura seicentesca di G. B. Andreini, montata ancora con gli allievi in uno studio di Cinecittà.

Sempre determinante per l’interpretazione è il contenitore, esaltato in un altro lavoro il cui tema è ancora la follia, e che per la prima volta sottolinea la spinta del regista a misurarsi con l’irrappresentabile. L’Orlando furioso, ridotto e volto in prima persona da Edoardo Sanguineti nel ’69, con un occhio alla festa rinascimentale piuttosto che al teatro dei pupi, è giocato da una quarantina d’attori (protagonista Massimo Foschi) in un grande quadrilatero dove le loro azioni simultanee si svolgono tra il pubblico itinerante secondo un principio di coinvolgimento teorizzato da Schechner: gli spettatori, a diretto contatto con i personaggi, spingono i palcoscenici mobili e i carrelli su cui sono disposti gli elementi figurativi di Uberto Bertacca semplici come giocattoli, ma che spiazzandoli con i loro improvvisi movimenti li mettono in uno stato d’insicurezza e ne eccitano la partecipazione. Non essendo possibile vedere in una sola volta l’intero spettacolo, ciascuno si sceglie un proprio percorso come se sfogliasse le pagine d’un libro e si costruisce un’immagine personale della rappresentazione. Il successo è enorme, a dispetto della diffidenza italiana di critica e autorità, e dilaga in tutto il mondo, tanto che piovono dall’estero nuove proposte.

All’Odéon di Parigi, il regista monta una casa a due piani dove XX , testo commissionato a Rodolfo Wilcock su un colpo di stato fascista, viene recitato da 10 attori italiani e 10 francesi nella rispettiva lingua, dentro 20 camerette per 20 persone ciascuna, che col progressivo crollo delle pareti divisorie formeranno uno spazio unico. Sul lago di Zurigo viene montata su galleggianti anche per il pubblico la romantica Kaetchen von Heilbronn di Kleist, come una sagra del meraviglioso affidata da Arnaldo Pomodoro a materiali elementari; ma lo spettacolo sarà vietato dalla polizia cantonale alla vigilia della prima per motivi di sicurezza. Va in scena invece nello stesso 1972, al Festival di Belgrado e poi alla Biennale, l’Orestea di Eschilo, otto ore di durata, per cui Enrico Job costruisce un vero teatro con tre gradinate attorno alla scena su due piani in legno e ferro, comprensiva di due ascensori e di un piano bilanciabile, con una grande porta che s’apre su un altro spazio. Ma il grande spettacolo, che ha le sue premesse nella perdita della tradizione che il coro cerca di ricreare balbettando, offre un approccio antropologico alla tragedia che procede da una zona cosmica a un interno borghese, a una città quasi futuribile, dove si compie un compromesso pseudodemocratico, dopo che dalla teocrazia era nato un matriarcato tirannico.

Al termine di un importante giro straniero questo spettacolo verrà però considerato inagibile per l’Italia nella sua integralità e Ronconi, eletto ormai regista delle macchine e dell’impossibile, per reazione si autoesilierà dalla nostra prosa, optando per la lirica (tra l’altro La Walkiria e Sigfrido alla Scala), l’insegnamento, la televisione con una nuova versione di Orlando, o il Burgtheater di Vienna, dove in quattro anni, realizzerà sul palcoscenico Le baccanti di Euripide, Gli uccelli di Aristofane, e una più sintetica Orestea. Il confronto col teatro necessario delle origini corrisponde a un’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro ricominciando dall’inizio, comune nello stesso periodo a una serie di registi della stessa generazione, da Stein a Grüber a Serban al più anziano Brook, e quando Ronconi viene chiamato a un compito istituzionale come direttore del settore prosa della Biennale veneziana torna ai Greci: nel ’75 riunisce un collage di 7 commedie di Aristofane in versione contemporanea, in un nuovo kolossal di molte ore, che avrà un seguito nell’allestimento del Pluto a Epidauro.

Utopia è montato come un fumettone su una piccola borghesia anni ’50, un romanzo-fiume che scorre all’infinito lungo una strada con le gradinate degli spettatori per marciapiedi: un gorgo di camion, aerei, macchine arredate da Luciano Damiani come case, stanze da letto kitsch, pezzi di vita in cui lo spettatore che spia dalla sua immaginaria finestra è invitato a riconoscersi. È la premessa del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, occasione per formare un gruppo a lungo termine e sperimentare un metodo recitativo che già ha conosciuto i suoi prodromi nelle ricerche sulla dizione dell’Orestea. Il piano ha per oggetto la comunicazione e si avvale del contributo di personalità di diversi rami tra cui spicca Gae Aulenti alla guida del `gruppo spazio’ e, anche se non approderà al compimento triennale, rimarrà uno dei risultati più notevoli di questi decenni per le sue finalità analitiche. Da una parte lo smontaggio del concetto di personaggio realizzato mirabilmente da Marisa Fabbri in una esecuzione a una sola voce per 24 spettatori della prima parte delle Baccanti in un andirivieni per diverse stanze. Dall’altra lo smontaggio di un testo, La vita è sogno di Calderón, solo studiato nel suo impianto metaforico, ma visitato sviscerandone due rifacimenti d’altra epoca: Calderón di Pasolini viene creato nella sua natura di manifesto ideologico tra la scena e la platea del Teatro Metastasio che si specchiano l’una nell’altra per gli spettatori nei palchi; La torre di Hofmannsthal viene demistificata nell’ambiguità della sua interpretazione cristologica da una lettura naturalistica nell’ex-hangar del Fabbricone trasformato con un falso ostentato nella sala della reggia tedesca di Würzburg.

A questo punto si può dire che Ronconi abbia definito i canoni della sua opera creativa: lettura dei testi secondo le loro vere motivazioni, scelta spaziale ad hoc tesa a ristabilire il rapporto originario tra l’autore e il suo pubblico, recitazione volta a demistificare i possibili piani di lettura. Il suo lavoro futuro spesso riuscirà a realizzare queste premesse, anche nella lirica dove contiene al massimo gl’interventi recitativi, ma gioca sui rovesciamenti prospettici sempre badando al rapporto con la tradizione: coglie quindi risultati particolari quando la mancanza di precedenti o l’uscita dall’ambiente canonico gli permette una libertà interpretativa. Da citare in questo senso i rossiniani Il viaggio a Reims e Il barbiere di Siviglia dell’Odéon, l’Orfeo di Luigi Rossi alla Scala e quello di Monteverdi al Goldoni di Firenze, l’autobiografismo dei Capricci di Strauss con Raina Kabaivanska, protagonista anche di un vertiginoso Caso Makropulos di Janacek contemporaneo all’originale in prosa di Capek con Mariangela Melato. Durante il Laboratorio, Ronconi aveva cominciato lo studio su Ibsen con L’anitra selvatica, giocata per il Teatro di Genova sulla moltiplicazione delle immagini sceniche, mentre John Gabriel Borkman dilata il suo naturalismo nell’edizione televisiva e Spettri isola i tormenti dei personaggi in un cinematografico alternarsi di campi e controcampi sotto una serra liberty che incamera su un lato dell’enorme pedana anche gli spettatori. Vi si sente un sadomasochismo alla Strindberg, autore avvicinato solo per un saggio dell’ Accademia in un Sogno avvincente, ma che influirà anche sul ritorno del regista a Goldoni con una crudissima Serva amorosa tutta livori tra i mobili affastellati, protagonista Annamaria Guarnieri, come nella Fedra di Racine formato Ottocento.

Correlativamente avanza il filone austriaco che, dopo La torre, presenta Schnitzler: ed ecco Al pappagallo verde svolto come un esercizio teatrale dove a ogni posa corrisponde un cambio di luce e La commedia della seduzione galleggiare trepida sull’acqua. Ma al centro di questo travaglio, interrotto dall’esplosione emozionante del teatro nel teatro del prediletto Andreini nelle Due commedie in commedia per la Biennale, l’avvenimento degli anni ’80 è, ancora al Fabbricone, Ignorabimus di Arno Holz: un manifesto sconosciuto del `naturalismo conseguente’ scritto all’inizio del secolo per resuscitare l’antica tragedia in una cronaca di famiglia che rasenta il dibattito scientifico e non ignora effetti parapsicologici, rappresentato in tempi reali (12 ore), in una scena in cemento di Margherita Palli, da cinque attrici-mostri (Fabbri, Nuti, Aldini, Gherardi, Boccardo) di cui solo l’ultima interpreta un personaggio femminile per smitizzare con l’aspetto la caricata verità dei loro comportamenti.

Il ritorno a Shakespeare per Il mercante di Venezia alla Comédie-Française e la collaborazione con tre teatri stabili per l’affollata messinscena dei Dialoghi delle Carmelitane (in occasione del bicentenario della rivoluzione francese!), il primo Cechov (Le tre sorelle in flashback) e l’unico Alfieri (Mirra con la debuttante Galatea Ranzi), precedono la chiamata del regista a dirigere il Teatro Stabile di Torino, dove la sua attenzione si sposta con più insistenza sul repertorio del secolo: di nuovo Hofmannsthal con una bellissima edizione di Un uomo difficile con Umberto Orsini; di nuovo Pasolini, ma con un trittico che prevede accanto a un’impegnativa Affabulazione le riuscite di Pilade e Calderón grazie alla freschezza della nuova scuola del Teatro; e l’atteso incontro con O’Neill con le sei ore di Strano interludio , un risultato assai più impressionante del Lutto si addice ad Elettra che seguirà poi a Roma, in una ironica atmosfera da film anni ’50.

Ma entrano in campo anche novità autentiche: Botho Strauss con Besucher, la sperimentazione di Simone Veil su Venezia salva , addirittura un testo italiano un po’ hard uscito dal Premio Riccione, L’aquila bambina di Antonio Syxty, come contrappeso al remake di Misura per misura (1992) tradotto da Garboli e puntato sulla ricerca d’identità con la scena che però continua i palchi del Carignano, come se il pubblico dovesse ritrovarsi nella teatralizzazione di quella Vienna corrotta. Un’altra Vienna parimenti emblematica era già apparsa l’anno prima nell’ennesimo spettacolo impossibile e in assoluto forse il più grandioso di Ronconi, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, già da vent’anni da lui messo allo studio sia in Italia che in Francia e finalmente allestito nell’ambiente ideale del Lingotto alla vigilia della chiusura, in una vera sala presse con macchine d’epoca, ma anche vagoni ferroviari e personaggi in volo sul filo: una ripetizione dei fasti dell’ Orlando per le masse mobilitate, la scelta itinerante, la simultaneità di almeno sei azioni e anche l’ironia dell’autore alle prese stavolta con la manipolazione dell’opinione pubblica di fronte a una catastrofe come la prima guerra mondiale.

Ma a riscontro di quella precedente esperienza tutto figura più perfettamente tecnicizzzato e perfino lo spettatore potrebbe sentirsi soggetto alla manipolazione generale, quasi il percorso da scegliere gli venisse subliminalmente suggerito. Al Teatro di Roma, dove arriva sulla scia di un allestimento di Aminta, Ronconi sembra lasciarsi prendere, come già del resto nell’ Affare Makropulos , dal piacere di raccontare spesso sacrificato a preoccupazioni concettuali. È già evidente nel Re Lear, dove la trama con le sue insensatezze prende il sopravvento alla Kurosawa sulle problematiche. E lo conferma la felicità del suo ultimo Ibsen, Verso Peer Gynt , che coi suoi tagli era nato come un primo approccio al capolavoro e che, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Massimo Popolizio nelle due età della balorda spensieratezza e della resa dei conti, s’è imposto come risultato a se stante di superba immediatezza espressiva.

Lo si rivede nei suoi due primi Pirandello, firmati entrambi all’estero: I giganti della montagna a Salisburgo in tedesco, letti come un travestimento del rapporto tra l’autore e Marta Abba; Questa sera si recita a soggetto , a Lisbona per l’Expo ma in italiano, con il sacrificio dei pirandellismi alla vicenda. E mentre si moltiplicano i minispettacoli tratti da racconti o novelle a cura specialmente di Enzo Siciliano, e viene commissionato e rappresentato un testo di Alessandro Baricco, il romanzo vero e proprio fa capolino nei programmi del maestro: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, tale e quale, com’è scritto, con tagli ma senza adattamento del racconto che resta in terza persona, detto dal personaggio che viene descritto con qualche gesto d’appoggio… Insieme al plurilinguismo così costruito di Gadda che in piedi trova un’insperata verifica della propria funzionale verosimiglianza, nel giallo ocra della scena semplice e allungata verso la platea di Margherita Palli è la Rometta fascista a rivivere in questo evento degli anni ’90. E I fratelli Karamazov – fermi per ora alla seconda puntata, escludendo il processo, sono un bis più dialogato data la natura del testo, con qualche ombra data dall’enormità dell’assunto, ma in grado di condurre il lungo tragitto ronconiano tra le imprese impossibili al traguardo, dall’ostilità un po’ sospettosa che ne ha bollato per anni l’imprevedibilità, a riconoscere in lui un grande narratore del nostro tempo.

Rea

Stephen Rea è fondatore insieme a B. Friel della Field Day Theatre Company (1980), gruppo teso a stabilire una realtà teatrale nella regione di Derry, in grado di equiparare il Lyric Players Theatre di Belfast o l’Abbey Theatre di Dublino. All’interno della compagnia Rea non solo prende parte a quasi tutte le messe in scena in qualità di attore ma spesso si occupa anche della regia di alcuni testi rivestendo un ruolo fondamentale nel mantenimento del livello artistico delle produzioni. Tra le sue interpretazioni si ricordano Ecstasy di M. Leigh nel 1979; Traduzioni (Translations, 1980) testo di Friel con cui viene inaugurata la formazione della compagnia Field Day; Il filo della comunicazione (The Communication Cord, 1982) di Friel, una farsa ambientata nel Donegal dove R. ricopre il ruolo del linguista Tim Gallacher, personaggio costruito sulla figura del professore universitario Seamus Deane anch’egli parte della compagnia; Doppio gioco (Double Cross, 1986) dramma storico di Thomas Kilroy incentrato sul tema del doppio e di lealtà e tradimento dove Rea per l’appunto è nei panni di due personaggi; e più recentemente Ceneri alle ceneri (Ashes to Ashes, 1996) di H. Pinter insieme a Lindsay Duncan. Spesso nel ruolo dell’uomo medio irlandese, negli anni ’90, Rea mette da parte il teatro per dedicarsi soprattutto alla carriera cinematografica.

Rigillo

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica di Roma, lodato dalla critica per il suo Masaniello, ha lavorato con importanti registi e compagnie, dalla De Lullo-Valli all’Eliseo di Roma e allo Stabile Del Friuli, in testi di Genet ( Il balcone , regia di Calenda), Viviani ( Napoli notte e giorno , regia di Patroni Griffi; Pescatori e zingari , di cui R. ha curato anche la regia), Shakespeare ( Troilo e Cressida , regia di Guicciardini), Goldoni ( Le femmine puntigliose , regia di Valli; Il campiello , regia di Sequi), Pirandello ( Sei personaggi in cerca d’autore , Questa sera si recita a soggetto , Ciascuno a suo modo , tutti con la regia di Patroni Griffi). Ha recitato anche in numerosi sceneggiati televisivi, tra cui “Saturnino Farandola” e una versione della Trilogia della villeggiatura di Goldoni diretta nel 1974 da Missiroli.

Royal Court Theatre

Costruito nel 1871, distrutto nel 1887, Royal Court Theatre viene riedificato nel 1888 ed è tuttora il teatro inglese che vanta la più lunga tradizione di incoraggiamento verso la produzione di nuove opere drammaturgiche. Dopo essere stato trasformato in cinematografo nel 1932, riapre nel 1952 e nel 1956 diviene la dimora stabile della English Stage Company ideata e diretta da George Devine. La compagnia, ancora oggi in piena attività, nasce e si consolida con il fine di riportare sulla scena la scrittura impegnata e di qualità, di incoraggiare la scrittura di nuovi testi e di creare un teatro vitale e popolare. Il Royal Court Theatre diviene il simbolo della nuova drammaturgia inglese nel 1956, in seguito alla messa in scena di Ricorda con rabbia , e ha mantenuto il suo ruolo di trampolino di lancio per autori come Wesker, Pinter, Bond, Hare, la Churchill e il più recente Mark Ravenhill, sfruttando la flessibilità di due spazi (Theatre Upstairs per laboratori e debutti, Theatre Downstairs). Nel 1995 attraverso l’Arts Council ha ottenuto un finanziamento per la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’edificio; per questo la sede è stata temporaneamente trasferita nel WestEnd presso i teatri The Duke of York’s e Ambassadors.

Rame

Figlia d’arte, con suo padre Domenico, la madre Emilia, il fratello, gli zii e i cugini, fin da bambina Franca Rame gira per le piazze e i teatri della Lombardia e del Piemonte. Nel 1950 lascia la compagnia di famiglia per diventare attrice di prosa e di rivista. Nel 1951 è tra le protagoniste con Tino Scotti e la sorella Pia di Ghe pensi mi di Marcello Marchesi, del quale interpreta nelle due stagioni successive anche I fanatici e Papaveri e papere. Brava e bellissima, è una delle soubrette più ammirate. Conosce Dario Fo nel 1953 e da allora non si separeranno più nella vita come sul palcoscenico. Insieme in scena fin dalla prima edizione di Il dito nell’occhio, diventeranno una delle coppie artistiche più solide, caratterizzando oltre quarantacinque anni di storia del teatro italiano e internazionale. È stata l’ammirata protagonista femminile di tutti gli spettacoli di Fo, con cui da sempre collabora anche per la stesura dei testi e per le messe in scena, e con cui condivide, spesso come vera e propria artefice, l’impegno politico del loro teatro.

Senza Fo, è in scena nel 1969 con L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone e Legami pure, tanto spacco tutto lo stesso e con Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa quello non è il padrone? (1971). Nel 1973 viene sequestrata e aggredita per la sua attività politica nelle carceri, con l’iniziativa `Soccorso rosso’ e solo vent’anni dopo si scopriranno i nomi degli aggressori. Nel 1978 interpreta da sola – firmando per la prima volta il testo con Fo – Tutta casa, letto e chiesa sulla condizione della donna, che rappresenterà per anni con successo in tutta Europa. Mentre prosegue l’attività con il marito, nel 1986 recita ancora senza Fo in Parti femminili 2 (che comprende i due atti unici Una giornata qualunque e Coppia aperta) e nel 1992 in Parliamo di donne (L’eroina, Grassa è bello), di cui è coautrice. Nel 1993 è interprete di Settimo ruba un po’ meno n. 2 . Nel 1994 scrive con Dario e il figlio Jacopo e interpreta da sola Sesso?, grazie tanto per gradire , che porterà in giro per altre tre stagioni, integrandolo nel 1996 con Mistero buffo in coppia con Fo. Nel 1997 debutta in Il diavolo con le zinne accanto a Giorgio Albertazzi per la regia di Fo. Nel 1998, ancora con Fo, porta in tournée la conferenza-spettacolo Marino libero, Marino innocente! , ricostruzione in chiave satirica delle vicende del processo Sofri.

Royal Winnipeg Ballet

Erede del Winnipeg Ballet Club fondato da Gweneth Lloyd e Betty Farrally (1938) la Royal Winnipeg Ballet inizia la sua attività nel 1939, ma viene riconosciuta come compagnia professionista nel 1949. Sotto la direzione di Arnold Spohr (1958) la compagnia arricchisce il suo repertorio facendosi conoscere anche all’estero grazie all’organizzazione di numerose tournée. Il suo repertorio comprende creazioni di Balanchine, de Mille, Neumeier, Vesek oltre ai balletti classici. Dal 1990 il direttore artistico è J. Meehan.

Rojo

Formatasi al balletto classico con Victor Ullate, Marika Besobrasova, Attilio Labis e Aurora Bosch, nel 1991 entra nel Ballet Victor Ullate, dove si segnala in titoli neoclassici ( Tema e variazioni di George Balanchine) e in creazioni dello stesso Ullate ( L’amore stregone ). Dopo il Grand prix al concorso di danza di Parigi (1994), si esibisce come ospite in molte compagnie in balletti del repertorio ( Il lago dei cigni ) e dal 1997 collabora con l’English National Ballet, dove si impone per l’eleganza e la purezza dello stile classico in Schiaccianoci (Derek Deane) e La bella addormentata (Ronald Hynd) e crea il ruolo di Giulietta in Romeo e Giulietta di Derek Deane (1998).

Ruanne

Patricia Ruanne studia alla Royal Ballet School e segue gli insegnamenti di Jean Pearce e Louise Brown. Nel 1962 viene scritturata nella compagnia del Royal Ballet Touring dove diviene prima ballerina nel 1969. Successivamente danza con il London Festival Ballet. Si impone come grande interprete in Prodigal Son di Moreland (1974), The Sanguine Fan di Hynd (1976), Verdi variations di Prokovsky (1981). Tra il 1983 e il 1985 è maître del London Festival Ballet e nel 1986 inizia a insegnare all’Opéra di Parigi. Nel 1992 è assistente di Nureyev per il balletto La bayadère .

Rabe

David Rabe combatté nel Vietnam e da questa esperienza trasse ispirazione per i suoi testi più significativi, tutti rappresentati dal Public Theatre di J. Papp: L’addestramento di base di Pavlo Hummel (The Basic Training of Pavlo Hummel, 1971), che raccontava in un linguaggio fortemente realistico la storia di un soldato destinato a morire in guerra; Bastoni e ossa (Sticks and Bones, 1971, portata con successo anche a Broadway), che mostrava le conseguenze su una famiglia della classe media del ritorno di un figlio che nel Vietnam aveva perso la vista; e Stelle filanti (Streamers, 1976) che riprendeva, con particolare brutalità, il tema della vita militare e della guerra.

Rózewicz

Interrotti gli studi a causa della seconda guerra mondiale e della sua attiva partecipazione alla lotta partigiana, R. debutta nella letteratura teatrale nel 1948 con Beda sie bali , una piéce che non verrà messa in scena. Il suo primo dramma pubblicato è Cartoteca (Kartoteka, 1960) ritratto scenico della generazione del poeta, scritto a quasi quarant’anni. R. ha diviso la propria attività di scrittore tra la poesia e il teatro, cui si è rivolto nel momento in cui trovava l’espressione lirica «troppo angusta». Nel teatro di R. – che lui stesso definisce «realistico-poetico» – sono avvertibili influenze di Hoelderlin, Mickiewicz, Rimbaud, Cechov, Wittgenstein, Kafka, nonché notevoli affinità con l’opera di Beckett. In Cartoteca R. ha espresso nella maniera più coerente e pregnante la sensazione di devastazione e di minaccia per i più elementari valori umani scaturita dalla guerra. Dopo Grupa Lakoona, una piéce di condanna di ogni anacronistica concessione all’estetismo (rappresentata nel 1962), R. ha ritratto il ristagno sociale e politico degli ultimi anni del governo di Gomulka in I testimoni, ovvero la nostra piccola stabilizzazione (Swiadkowie, czyli nasza mala stabilizacja, 1962, rappresentata nel 1964): in tre riprese di intensità crescente, legate a un procedimento drammaturgico definibile come `poetica a blocchi’, nel dramma si osserva un processo progressivo di reificazione e petrificazione dei rapporti umani. Al centro dell’universo filosofico della drammaturgia rozewiczana troviamo la questione dei condizionamenti dell’esistenza umana: storici e sociali da una parte, biologici dall’altra. In È uscito di casa (Wyszedl z domu, 1964) R. ricorre a una complessa strumentazione teatrale incentrata su poema-fuga introduttivo, due partiture pantomimiche e un intermezzo quasi shakespeariano, per esprimere le proprie riflessioni sul `determinismo’ corporeo e biologico. In Incremento demografico (Przyrost naturalny, 1968) l’autore opera con una massa umana vivente e in crescita, che squarcia le pareti della scena, riversandosi sul palcoscenico come in uno spazio vuoto. Tutta l’azione scenica si riduce allo spaccarsi delle pareti: gesti e parole non hanno tra loro alcun collegamento. Autotematico è Coitus interruptus (Akt przerywany, 1962), dove l’agire scenico-drammaturgico è posto in diretto rapporto con l’atto sessuale: didascalie e annotazioni occupano gran parte del testo con divagazioni metodologiche, l’azione scenica è ridotta a una trama semplificata, continuamente interrotta da dettagli tecnici e considerazioni teoriche. L’autoreferenzialità come principio drammaturgico ritorna in Servizio d’ordine (Straz porzadkowa , 1966): sulla scena opera un corpo di sorveglianza incaricato di vigilare sui confini tra realtà e rappresentazione teatrale. In La vecchia sta covando (Stara kobieta wysiaduje, pubblicato nel 1968, rappresentato nel 1969), R. rappresenta i valori apparenti che si sedimentano o si persono in un universo di valori devastati: la scena si presenta come «Un enorme immondezzaio. Un poligono. Una necropoli. Insomma una spiaggia». La materia scenica è trattata in una visione concretizzata, integrata dall’immagine, ed equivale per il suo peso semantico allo strato del dialogo. La dimensione della storia e la critica della mitologia nazionale incentrata sul `martirio’ della Polonia contraddistinguono tanto Gli spaghetti e la spada (Spagnetti i miecz, 1964), una caustica parodia del culto romantico dell’eroismo, quanto in Nella polvere (Na czworakach, 1972), ricostruzione di un grigio, tedioso `giorno qualunque’ tra i partigiani della resistenza nazionalista dove al centro della `durata dell’azione’ troviamo la condanna e l’esecuzione per rapina di Walus lo scemo, un povero contadino analfabeta. Dell’estrema complessità della prospettiva teatrale di R. testimonia comunque la molteplicità delle possibili chiavi di lettura: Nella polvere , dal punto di vista dell’elaborazione teoretica, è un tentativo di resa dei conti con la drammaturgia contemporanea, con la rinuncia degli autori dal teatro, con la sclerotizzazione degli schemi, una risposta polemica a Incremento demografico , dove l’autore si era dichiarato in favore di un teatro che rinunciasse a ogni referenzialità extra-scenica. In Marriage blanc (Biale malzenstwo, 1974) R. ha operato una diversione in direzione del teatro filosofico ed esistenziale alla Gombrowicz, ritornando al motivo dell’ossessione erotica e del `condizionamento corporeo’: dietro un sorprendente sfondo Belle Epoque in cu si accumulano gingilli decorativi, procedimenti linguistici, citazioni letterarie e altri `oggetti trovati’, un essere umano cerc di tornare in sé, liberarsi dalla ridicola attrezzeria scenica. Tornato alla scrittura teatrale nel 1992, con Kartoteka rozrzucona R. riprende in un testo non destinato alla rappresentazione la poetica della lettura della realtà extra-teatrale attraverso la sua riduzione in brandelli di azione scenica. R. ha introdotto nella costruzione delle proprie opere drammatiche la `logica lirica’ delle sue composizioni poetiche: sostituisce alla successione degli avvenimenti una scansione di stati d’animo apparentemente caotica ma rispondente alla logica delle emozioni. Da un punto di vista della definizione di genere possiamo parlare di un nuovo, suo proprio modello di dramma, contrapposto alla drammaturgia `chiusa’, caratterizzata dal progressivo sviluppo degli eventi, dall’evoluzione dell’intreccio, attraverso peripezie, punto culminante e finale. Le pièce di R. sono contrassegnate da discontinuità, complementarità tra elementi eterogenei, accostamenti, situazioni che non trovano soluzione inserite in costruzione `a blocchi’. La materia scaturisce dalla quotidianità ordinaria e dall’osservazione diretta, effettuata da una prospettiva `bassa’, con il non saltuario ricorso a materiale letterario grezzo. Il principio fondante dell’organizzazione dell’elemento narrativo è quello di una `cartoteca’ contenente brandelli di una biografia incompiuta, istantanee di un rappresentante generazionale, disiecta membra di una totalità problematica, briciole, frammenti di schedario e, soprattutto, poetica del sogno. Si può affermare che R. ha portato la sua attività teatrale a una coerenza estrema, rinnovando in ogni pièce uno schema drammaturgico di cui unico protagonista è l’essere umano, unica azione l’esistenza.

Reggiani

Aldo Reggiani si è imposto all’attenzione del grande pubblico con lo sceneggiato televisivo La freccia nera (1969), per la regia di Maiano; a questa seguiranno molte altre realizzazioni per la televisione, e alcune anche in ambito cinematografico. Numerose le interpretazioni teatrali, tra cui Clizia (1967), I parenti terribili (1969, regia di Maiano), La figlia di Jorio (1971, regia di Cobelli). Nel 1976 è in scena con Caligola , per la regia di Trionfo, con il quale lavora in seguito negli allestimenti de La dodicesima notte (1981) e La città morta (1988). Dall’inizio degli anni ’90 si sussegue una serie di spettacoli con la regia di Sequi: Anfissa di Andreev (1990), Berenice di Racine (1991), Alcesti (1992), Macbeth (1996). Nell’ultimo anno ha interpretato Casanova. Eterno ritorno e Salomé di Oscar Wilde, entrambi con la regia di Alberto Casari. Conosciuto anche come regista teatrale e lirico, ha messo in scena La ciociara , da Moravia (1985), e Norma di Bellini (Trieste, Teatro Verdi 1995).

Romains

Nelle poesie di Jules Romains (Odi e preghiere; 1913) e nei suoi romanzi (Morte di qualcuno, 1911; I compagni, 1913), come più tardi, nell’ambiziosa epica narrativa in ventisette volumi (Gli uomini di buona volontà) cercò di raccontare vite e esistenze comuni, con gli occhi di un umanesimo e di un socialismo utopistico, spesso schematico e intellettualistico. Esordisce in teatro con L’armée dans la ville (1911). Negli anni ’20 collabora con Copeau, che gli affida la direzione della scuola di teatro del Vieux-Colombier. Si afferma come autore brillante con Monsieur Le Trouhadec saisi par la débauche e Knock ou le triomphe de la médecine (1923, regia di Jouvet), che hanno grande successo. Knock è un ciarlatano che, fingendosi un medico, convince gli abitanti di un villaggio di essere malati per imbrogliarli, ma alla fine cade vittima del suo stesso inganno. Non hanno fortuna alcune pièces successive, Le mariage de Monsieur Le Trouhadec (1925); Le déjeuner marocain (1926); Jean le Maufranc (1926); Le dictateur (1926); Boën ou la possession des biens (1930); Grâce encore pour la terre (1939), – forse appesantite da quell’ideologismo aprioristico che inficia spesso anche la sua narrativa. Il miglior Romains torna a esprimersi invece nell’adattamento francese del Volpone di Ben Jonson (1928) e in Donogoo (1930): la falsa scoperta di una città, comunicata all’Accademia geografica diventa l’occasione della fondazione di una nuova città, perfettamente rispondente a quella inventata per ottenere i fondi di ricerca. Nel 1946 è eletto all’Académie française.

Reiter

Virginia Reiter si formò nella compagnia di C. Emanuel, dove militò dal 1882 al 1894, ricoprendo dal 1887 il ruolo di primattrice. In quegli anni raggiunse la notorietà recitando parti shakespeariane e romantiche. Passò quindi alla Talli-Reinach, con la quale nelle stagioni 1894-95 affrontò ruoli brillanti. Alle prove drammatiche tornò con Leigheb e Andò (1895-99) e nel 1896 fu la prima interprete de La lupa di Verga. Tra il 1900 e il 1902 fu socia di F. Pasta; con questa compagnia affrontò la Messalina di Cossa e ottenne il suo più grande successo con Madame Sans-Gêne di Sardou. Fu poi in società con L. Carini fino al 1915, anno in cui si ritirò dalle scene. Dotata di affascinante femminilità e di una splendida voce, la R. è stata una delle migliori attrici italiane a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Rétoré

Nel 1954 fonda la compagnia teatrale La Guilde, nel quartiere parigino di Ménilmontant. Nel 1957 la compagnia ottiene il primo premio per giovani interpreti e nel 1960 il ministero degli affari culturali le offre come sede una sala di circa mille posti. Per la stagione inaugurale in cartellone ci sono: Les caprices de Marianne di Musset; La vie et la mort du roi Jean di Shakespeare; La locandiera di Goldoni; Le manteau di Cosmos. Nel 1963 il teatro adotta il nome che conserva tuttora: Théâtre de l’Est Parisièn (Tep). Per volontà di R., il Tep non è solo un luogo di produzione teatrale, ma un centro culturale aperto alle iniziative dei cittadini del quarto arrondissement. Tra gli spettacoli allestiti da R.: La battaglia di Lobositz di P. Hacks (1965); Macbeth di Shakespeare (1965, con le scenografie di A. Acquard); Le treize soleil de la rue Saint-Blaise di A. Gatti (1968), nato dalla collaborazione alla stesura del testo di un gruppo di spettatori; L’opera da tre soldi (1969) Santa Giovanna dei macelli (1972) Il signor Puntila e il suo servo Matti di Brecht (1978); Finale di partita di Beckett (1980), con P. Dux; Le chantier di C. Tordjman (1982); Prometeo di H. Müller; Clair d’usine di D. Besnehard (1985); Entre passions et prairies di D. Bonal (1987); La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (1988); Chacun pleure son Garabed di Varoujean (1991); Les Poupées di Provost (1992).

Rubini

Sergio Rubini si diploma all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’. Nel 1983 è con la Compagnia Ultimo Atelier in American Buffalo di D. Mamet con la regia di Franco Però, spettacolo in cui si trasponeva l’azione, originalmente ambientata nel Bronx, in una città del nord Italia. In seguito, recita in La stazione (1987) di U. Marino a fianco di M. Buy e E. Fantastichini, stesso cast che lo stesso Rubini utilizzerà per portare lo spettacolo al cinema, nell’omonimo film del 1990. La pellicola consentirà a Rubini, che comunque aveva già fatto un’importante apparizione ne L’intervista (1987) di F. Fellini, di cominciare una brillante carriera cinematografica che comprende quattro regie (la più recente è Il viaggio della sposa , 1997) e più di venti interpretazioni tra le quali: Una pura formalità (1994) di G. Tornatore, Nirvana di G. Salvatores (1996) e il recente L’albero delle pere (1998) di F. Archibugi.

Rossi

Dal 1959 Sergio Rossi inizia a lavorare come elettricista teatrale per piccole compagnie e nel 1962 avvia una collaborazione con la compagnia dei Giovani destinata a durare sette anni. Affermatosi come direttore delle luci dal 1967, lavora con i più importanti registi italiani: Visconti, Rossellini, De Lullo, De Filippo, Pizzi, Zeffirelli, Castri, Squarzina, Ronconi. Ampliando i suoi interessi dalla prosa al melodramma e al balletto, partecipa alle produzioni del Teatro di Genova, del Rossini Opera Festival, dello Stabile di Trieste e dal 1963 al 1996 collabora agli allestimenti del festival dei Due mondi. Come libero professionista lavora anche con numerosi registi stranieri come Chéreau, Cacoyannis, Ken Russel, Bob Wilson, Ciulei, Gades. Tra gli ultimi allestimenti di cui si è occupato ricordiamo: Italiana in Algeri di Rossini per la regia di D. Fo, Guglielmo Tell – e Tancredi – di Rossini per la regia di Pizzi; Don Giovanni di Mozart regia di Squarzina; Gli ultimi giorni dell’umanità, Peer Gynt, Aminta e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, per le regie di Ronconi.

Raboni

Poeta raffinato, di forte tensione morale e di personalissime tensioni stilistiche (Le case della Vetra ; 1966; Cadenza d’inganno, 1975; Nel grave sogno, 1982; Canzonette mortali, 1986; Ogni terzo pensiero, 1993; Quare tristis, 1988), Giovanni Raboni è una delle personalità più autorevoli dell’odierno panorama letterario italiano. Ha lavorato nell’editoria, è stato critico cinematografico e direttore della rivista “L’Illustrazione italiana”, negli anni ’70. È traduttore abilissimo dal francese: Flaubert ( L’educazione sentimentale ), Baudelaire (I Fiori del male), Apollinaire (Bestiario) e la versione intera di Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Per quanto concerne il teatro, ha tenuto la critica teatrale del “Corriere della Sera” dal 1987 al 1998 e ha tradotto finora tre testi, tutti rappresentati: Fedra di Racine (regia di L. Ronconi, 1985, con Anna Maria Guarnieri; Torino 1984); Partage de midi di Claudel (regia di A. R. Shammah, Milano 1987-88), Ruy Blas di Victor Hugo (regia di L. Ronconi; Torino 1996) e Le false confidenze di Marivaux (regia di M. Sciaccaluga; Genova 1997).

Redgrave

Figlia di Michael R. e R. Kempson, Vanessa Redgrave debutta nel West-End londinese nel 1958 recitando col padre in Un colpo di sole (A Touch of the Sun) di N.C. Hunter. A ventiquattro anni ottiene uno dei suoi primi successi a Stratford nelle vesti shakespeariane di Rosalinda in Come vi piace per la regia di M. Elliot. Nel 1964 interpreta Nina ne Il Gabbiano di Cechov, diretta dal marito T. Richardson che la segue anche nel dramma di Ibsen La donna del mare . Sotto la guida di P. Hall, suo grande ammiratore, recita per la Royal Shakespeare Company in Sogno di una notte di mezza estate, Coriolano, La bisbetica domata di Shakespeare. Attrice dotata di grande immaginazione e inventiva, ebbe un grandissimo successo nel ruolo della signorina Brodie nella versione per il teatro del romanzo di Muriel Spark Gli anni in fiore della signorina Jean Brodie (The Prime of Miss Jean Brodie). Ammirata a livello internazionale, negli ultimi anni si è specializzata in drammi americani moderni, tra cui si ricordano Il tocco del poeta (A Touch of the Poet, 1988) di O’Neill, Battaglia di angeli (riscritto nel 1957 come Orpheus Descending) di T. Williams, e due lavori di M. Sherman: Un manicomio a Goa (A Madhouse in Goa, 1989) e Quando lei ballava (When She Danced, 1991). Notevole è anche la sua attività cinematografica: da Blow up di Antonioni a I diavoli di Russel, da Casa Howard di Ivory a Miss Dalloway di Gorriss.

Reiter-Soffer

Studia con Mia Arbatova, Rena Gluck, Anna Sokolow e inizia la sua carriera al Balletto dell’Opera di Israele (1959), per poi danzare in varie compagnie, tra cui l’Irish National Ballet (1963-64), il London Dance Theatre (1964-65), lo Scottish Ballet (1966-70). Si esibisce anche come attrice e diviene coreografa, firmando numerosi titoli ispirati alla cultura ebraica: I shall Sing to Thee (1971), Song of Deborah (Bat-Dor Dance Company, 1972).

Rosso

Autore e attore del teatro-ragazzi, con la compagnia Granbadò, poi confluita in Teatro Settimo, ha partecipato alla creazione di una serie di spettacoli molto interessanti nell’ambito del teatro di narrazione, Esigenze tecniche (1983), Recita (1985) e Dei liquori fatti in casa (1994), facendo anche parte dell’allestimento di Gabriele Vacis di Le smanie della villeggiatura di Goldoni. Per il Teatro Invito di Lecco ha creato con la narrazione una versione suggestiva e accattivante de I promessi sposi.

regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

Rosen

Dopo gli studi con Kurt Jooss, Rudolf von Laban e Viktor Gsovskij e il debutto nella compagnia di Jooss, dal 1945 al 1951 ha diretto il Balletto di Basilea e dal 1959 al 1969 il balletto dell’Opera di stato bavarese. Eclettico e versatile, si è cimentato nella coreografia di La dama e l’unicorno (1953), Josephslegende (1958) e Les noces (1962), ma anche nella regia di operette e commedie.

Renz

Considerata con Franconi la dinastia su cui si fonda il circo moderno, la famiglia R. ha costituito in Germania le basi dell’arte equestre e dell’impresariato circense. Iniziata da Ernst Jakob R. (1815-1892) a cui si deve l’aver per primo elevato il circo ad arte nobile (riesce a divenire consigliere del re Guglielmo di Prussia), tale dinastia costruisce importanti circhi soprattutto a Berlino ed è tra le prime a usare il nome `circo equestre’. È nel circo R. inoltre che emerge il termine `august’ (termine dialettale berlinese) che designa nel mondo la figura del clown. Importante soprattutto nell’800, il circo R. sparisce nel 1897, ma ha eredi nel secolo successivo. Questi tentano di aprire nuovi circhi, fino ad oggi, ma con scarso successo. La più celebre di questo secolo è la cavallerizza Therese R. (1859-1938).

Roncalli

Fondato nel 1974 dal grafico Bernhard Paul e dal poeta Andrè Heller, il circo Roncalli rappresenta il massimo riferimento del rinnovamento circense degli anni ’80. La filosofia di Roncalli si basa su una rivisitazione poetica degli archetipi circensi, con diretti riferimenti a simboli del passato e un interesse fondamentale per l’impatto dell’ambiente sullo spettatore. Roncalli lavora su un concetto di `festa’ basato sul recupero dell’intimità tra artista e pubblico già all’arrivo dello spettatore. Il circo Roncalli è interamente costruito restaurando strutture e veicoli appartenuti a circhi del passato, ricreando così una sorta di oasi diversa da qualunque altra atmosfera circense. Roncalli è il primo a intuire la fine di una fase storica del circo europeo, quella della tendenza al freddo kolossal, recuperando in un tendone più piccolo elementi di teatralizzazione dell’exploit circense: la concezione dei costumi, il disegno delle luci, la funzione teatrale dell’orchestra dal vivo e soprattutto una logica costruzione drammaturgica nella successione dei numeri del programma. Roncalli introduce, anche con successo, elementi prima estranei alla produzione e alla promozione circense: il marketing, lo sponsoring e il legame dell’arrivo del circo con importanti eventi sociali e culturali. Diretto da Bernhard Paul, R. riavvicina al circo un pubblico più raffinato e, in un ventennio, costituisce un’esperienza di portata incalcolabile sull’industria circense mondiale.

R.A.D.A.

Collocata in un primo momento presso lo Her Majesty’s Theatre e successivamente in Gower Street, raggiunge l’apice della sua reputazione sotto la direzione di Kenneth Barnes come scuola di perfezionamento per l’arte dell’attore all’inizio del secondo dopoguerra. Negli anni ’50 mostra segni di cedimento di fronte all’emergere di una nuova generazione di attori (tra cui Albert Finney e Peter O’Toole) appartenenti alla classe dei lavoratori, che modifica per sempre il concetto di attore in Inghilterra e in parte l’istituzione stessa che resta tuttavia una delle principali scuole inglesi.

Ronconi

Formatosi alla scuola di Kantor e Grotowski, Cesare Ronconi, artista eclettico e versatile, nel 1978 collabora con Peter Schumann e il Bread and Puppet Theatre per la realizzazione dello spettacolo Masianello. Nel 1979 fonda con Mariangela Gualtieri il Valdoca Teatro, del quale assume la direzione artistica. Nel 1982 in collaborazione con Achille Bonito Oliva, Franco Quadri, Giuseppe Bertolucci e altri, realizza il progetto Segni in atto. Movimenti nelle arti e nello spettacolo , firmando la sua prima regia. Per il Valdoca oltre a curare numerose regie ( Lo spazio della quiete , 1983; Le radici dell’amore , 1984; Ghetzemane , 1985; Otello e le nuvole , 1987; Cantos , 1988; Riassunto del Paradiso , 1990; la trilogia Antenata , 1991/92/93; Fuoco centrale , 1995) è anche autore e si occupa della formazione degli attori che via via lavorano con lui. È anche autore di video tra i quali: Eva nascente e Il desiderio di Eva (primo premio Festival cinematografico di Salsomaggiore); Folgorazioni (1986), Fine fine è il respiro (1987) e MCMXC (primo premio della seconda edizione di Videoland). Nel 1997 firma la regia teatrale di Nei leoni e nei lupi , spettacolo intenso nel quale le vicende degli attori, attraverso i differenti registri del tragico e del comico, trovano – sulle note della musica di cabaret di Kurt Weill e su quelle sacre dello Stabat Mater di Pergolesi – nell’animalità archetipa le radici della parola e della cultura.

rivista

La rivista è una sorta di spettacolo d’arte varia, in cui una trama spesso pretestuosa lega il susseguirsi di numeri musicali o di prosa o d’altro genere. È uno dei due spettacoli in cui sostanzialmente si articola il varietà italiano: l’avanspettacolo, come esito povero, la rivista invece come variante ricca. Il primo era il figlio povero, la seconda quella ricca. Ciò accadde, intorno al 1930, quando il fascismo decise di affidare al cinematografo la diffusione di massa delle proprie verità e della propria ideologia. La via dell’avanspettacolo fu presa, allora, dagli attori meno fortunati o meno organizzati, i quali furono costretti a scendere a patti con il cinema. La via della rivista fu scelta invece dagli artisti più ricchi e comunque in grado di sopportare in prima persona costi di produzione elevati (prima di allora erano a carico diretto dei gestori dei teatri) per mettere in scena spettacoli in grado di fare concorrenza al cinema. Bisognava essere, come il cinema, esotici ed eroici, altisonanti e falsi. Tutto il contrario dell’avanspettacolo, dunque, che fu povero e provinciale, basso e vero. In buona sostanza la rivista offriva attrazioni di arte varia proprio come il varietà (comici, ballerine, cantanti, maghi) ognuna della quali basata su tematiche e tecniche autonome; tuttavia, parte degli sketch e i balletti si richiamavano a un tema specifico enunciano dal titolo. In altre parole, non c’era sviluppo narrativo interno alle rappresentazioni: gli elementi unificanti erano quindi esteriori (le scenografie, le musiche).

La rivista conobbe grande fortuna negli anni ’30 e fino alla fine della guerra. Via via, le rappresentazioni si arricchirono di macchinerie scenografiche e paradossi esotici: il tutto a favore di una crescita verticale dei costi di produzione. Ciò rese centrale il ruolo dell’impresario, colui che investiva denaro, curava tutti gli aspetti organizzativi, produttivi e distributivi dello spettacolo. Spesso, poi gli impresari finivano per essere anche autori o talvolta coreografi delle rivista È il caso, per esempio, degli austriaci Fratelli Schwartz, autori e produttori delle riviste più famose e di maggior successo degli anni ’30. Forti della loro esperienza nell’ambito dell’operetta, i due allestirono rappresentazioni ricche fantasiose, talvolta complesse anche dal punto di vita drammaturgico. Ma sempre privilegiando la matrice originaria del varietà: non si preoccuparono, all’occasione, di scritturare artisti celebri e popolarissimi del vecchio varietà o dell’avanspettacolo, consentendo loro di esibirsi nel proprio repertorio, del tutto svincolati dal tema centrale della rivista Un altro impresario celebre dell’epoca fu Remigio Paone che con il marchio “Errepi” produsse alcuni degli spettacoli che più fecero sognare una generazione intera di italiani ricchi, vogliosi e provinciali.

Il nome di Remigio Paone è legato fondamentalmente all’invenzione di Wanda Osiris, delle sue scalinate, dei suoi strascichi e dei suoi boys (tra essi, come è noto, debuttò Alberto Sordi). Ma la vera genialità di Paone fu quella di antevedere la trasformazione radicale della società italiana da prima a dopo la guerra, intuendo la necessità della creazione di un immaginario meno autarchico, guerresco e conflittuale di quello propugnato dal cinema fascista: l’esotismo si trasformò in vaga esterofilia, la beatificazione dell’eroe lasciò il posto alla mancata dannazione dell’antieroe. Spostamenti lievi, come si vede, che però trovarono campo fertilissimo nell’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gaiamente democristiana. In questa commistione di meraviglie spettacolari e accomodamenti sociali sta il successo vastissimo della rivista, prima grande creazione artistica della borghesia italiana del secolo XX, portata a livelli di assoluta perfezione dal genio teatrale e imprenditoriale di Sandro Garinei e Pietro Giovannini che, all’indomani della Liberazione di Roma inventarono la commedia musicale.

Roversi

Patrizio Roversi fonda insieme alla moglie Syusy Blady il Gruppo del Pavese con cui negli anni Ottanta produrrà una serie di spettacoli comici che saranno i prodromi della sua successiva carriera televisiva. Infatti, sarà la televisione, grazie a varietà come Lupo solitario (1987), a rendere celebre la coppia comica che raggiungerà il proprio culmine nel fortunato e intelligente Turisti per caso . Nato come una serie di reportage per Mixer (stagione 1994-95) il programma alterna a interessanti informazioni turistico-culturali, delle ironiche e sentite analisi social-politiche, curate da Roversi, sulle abitudini e sulle manie del turismo di massa.

Rostand

Dopo una raccolta poetica e due pièce in versi per Sarah Bernhardt, La princesse lointaine (1895) e La samaritaine (1897), Edmond Rostand arrivò inatteso il grande successo con Cyrano de Bergerac (1898), commedia eroica in cinque atti, composta in versi alessandrini, ancora oggi è rappresentata nei teatri di tutto il mondo. Cyrano, poeta e capitano di ventura, è innamorato di sua cugina Roxane ma, convinto di non poter essere ricambiato a causa del suo grande naso, si limita a dichiararsi a lei per voce del giovane e bel Christian. Quando questi muore in battaglia, Cyrano decide di restare accanto a Roxane, a cui rivela il suo amore solo in punto di morte. Rostand cercò di replicare il successo con L’Aiglon (1900) e con Chantecler (1910) ma, se la prima fu accolta bene dal pubblico, la seconda si rivelò un clamoroso fiasco. Rostand, acclamato universalmente a ventinove anni, eletto accademico di Francia a trentatre, visse il resto della sua vita ricchissimo, ma incapace di ritrovare quell’abile mistura di romanticismo storico, fantasia e sentimentalismo patetico, che decretarono il successo del suo capolavoro.

Rodrigues

Dopo gli studi di danza classica in Sud Africa e a Londra, danza con il Sadler’s Wells Ballet, diventandone solista nel 1947 e maître de ballet nel 1953-54; contemporaneamente si dedica alla coreografia realizzando per la compagnia inglese Blood Wedding (1953) e Il mandarino meraviglioso (musica di Bartók, 1956), seguiti da numerose creazioni di genere narrativo per molti corpi di ballo internazionali, tra cui ricordiamo Cenerentola (Scala 1955), Vivaldi concerto (Royal Danish Ballet 1960), Orfeo (Opera di Varsavia 1964), Mirandolina (compagnia Carla Fracci, 1981).

Romagna

Diplomatasi nel 1993 alla scuola della Scala, nello stesso anno entra nel suo Corpo di ballo, segnalandosi subito per la classica armonia e bellezza delle linee in balletti di George Balanchine e Roland Petit. Nominata solista nel 1996, viene sempre più spesso chiamata a interpretare ruoli da protagonista in classici dell’Ottocento ( Il lago dei cigni ) e del Novecento ( Romeo e Giulietta di Kenneth MacMillan, Notre- Dame de Paris – di Roland Petit) e a rappresentare la Scala in festival internazionali del balletto (World Ballet Festival di Tokyo; Stars of the 21st Century di Toronto).

Ricci

Prima di consacrarsi al piccolo schermo Antonio Ricci insegnava lettere al liceo `Pascoli’ di Albenga e contemporaneamente frequentava e animava i cabaret liguri. Autore di molti testi dell’esordio di Beppe Grillo, sia nei recital cabarettistici sia negli ‘one man show’ teatrali, esordisce in televisione nel 1980 col comico genovese (Te la do io l’America e Te lo do io il Brasile), affermandosi in seguito sempre in televisione con programmi che costituiscono di fatto il volto dissacrante, demenziale e autoironico, necessario all’interno del palinsesto delle reti Mediaset: da Drive in a Odiens, da L’araba fenice a Striscia la notizia. Ha firmato molti spettacoli e recital di comici di formazione televisiva.

Rubertelli

La carriera di Nicola Rubertelli si lega sin dagli esordi con il regista A. Calenda (Enrico IV di Pirandello, 1981; Amanda Amaranda di P. Shaffer, 1989; Il medico dei pazzi di E. Scarpetta, 1990), curando allestimenti di grande risonanza, come Le rose del lago di F. Brusati (1991), in cui un geometrico gioco di ombre visualizza un vuoto che è essenza profonda della commedia; il funzionale Madre Coraggio di Brecht (1991), dalle scene a pannelli come marchiate di nero, che rivelano sul fondo uno spazio lastricato di pietra; e il recente L’onorevole, il poeta e la signora di A. De Benedetti (1994). Con L’ammalato per apprensione di R. De Simone da Molière (1990) stringe un proficuo legame con l’artista napoletano, per il quale cura Il drago (fine di un ammazzadraghi) di E. Švarc (1991), il singolare spettacolo-concerto Lo cunto de li cunti di R. De Simone (1993) ed il fortunato Agamennone di Eschilo (1994), a cui lavora con la costumista O. Nicoletti. Occasionale, e tuttavia indovinata, è la sua collaborazione con G. De Monticelli: Tutto per bene di Pirandello (1991), con una geometrica e simbolica intelaiatura-prigione, esalta la convergenza dell’insieme intorno al protagonista, focalizzando il nucleo specifico della commedia.

Reggiani

Serge Reggiani si afferma sul palcoscenico interpretando nel 1947 Terrasse du midi – di Clavel. Nel 1949 recita ne I giusti di Camus, ma la sua migliore interpretazione è quella ne I sequestrati di Altona di Sartre (1959, ripreso nel 1966). Tra i numerosi spettacoli cui ha preso parte: La macchina da scrivere di Cocteau (1941); Un uomo come gli altri di Salacrou; I tre moschettieri da Dumas; Silence! L’arbre remue encore di Billedoux (presentato al Festival d’Avignone nel 1967). Dagli anni ’60 è anche cantante (nel suo repertorio canzoni di Brel e di Vian).

Rochon

Appartiene alla seconda generazione della `nouvelle danse’ francese. Alla base della sua formazione sta la tecnica Cunningham e la scuola del giapponese Hideyuchi Yano con il cui gruppo Ma danza e compie a Parigi le sue prime esperienze coreografiche. Nel 1982 fonda la compagnia Anonyme Sindonie Rochon, subito apprezzata per un marcato segno originale. Personalità assai singolare, la R. sviluppa nei suoi lavori (si veda ad esempio Les traits tirés su musica di Mozart) immagini forti e mentali, scaturenti da un universo e da una sensibilità marcatamente femminile.

Ridoni

Nata alla prima scuola del Piccolo Teatro, continua a lavorare con Strehler nei suoi capolavori: l’ Arlecchino servo di due padroni di Goldoni, El nost Milan di Bertolazzi e Vita di Galilei di Brecht. Lavora in seguito in molti Stabili e con i più noti attori italiani, da Santuccio a Buazzelli. Torna spesso al Piccolo, sino all’ultima edizione di Il giardino dei ciliegi di Cechov. Nel 1997 riprende a collaborare con l’associazione culturale e teatrale La Nuova compagnia, costituita già anni prima con Battistini, Carutti, Menegatti, Quasimodo e altri e dà vita, anche come protagonista, a molti spettacoli alla milanese Rotonda dei pellegrini, sede dell’Ambrosianeum.

Ratto

L’esordio di Gianni Ratto con Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1945) gli consente di stringere un intenso rapporto con Strehler, che lo introduce al nascente Piccolo Teatro di Milano; fino al 1953, la sua attività si identifica con la vicenda artistica del teatro milanese, e la partecipazione costante ed attenta gli permette di sviluppare una notevole sensibilità interpretativa: tra i molti, si ricordano gli allestimenti per L’albergo dei poveri di Gor’kij (1947), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (1947), Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (1953). Dal 1954 vive e lavora in Brasile come scenografo (Cesare e Cleopatra di Shakespeare, regia di Z. Ziembinski, San Paolo, 1963; Riccardo III di Shakespeare, regia di A. Filho, San Paolo, 1975; La vita di Galileo di Brecht, regia di C. Nunes, 1989) e come regista citiamo gli ultimi lavori Don Giovanni di Mozart (Rio de Janeiro, 1980), Incontri clandestini di T. Williams (San Paolo, 1982) e Rigoletto di Verdi (1991).

Roger-Ferdinand

Roger-Ferdinand debuttò nel 1924 al Théâtre des Mathurins, con La machine à souvenirs . I suoi lavori successivi furono allestiti da Charles Dullin (Irma , 1926) e Lugné-Poe (Un homme en or , 1927); decise allora di abbandonare il mestiere d’insegnante d’inglese per dedicarsi completamente al teatro. Roger-Ferdinand continuò la tradizione del vaudeville, scrivendo pièce in cui lo humour si univa all’attualità: La foire aux sentiments (1928); Président Haudecour (1938); Le Mari ne compte pas (1948). Il suo maggiore successo fu Le J3 ou la nouvelle école (1943) – un’acuta satira del mondo degli adolescenti (J3 era, nel linguaggio amministrativo, la sigla che designava i giovani dai 16 ai 20 anni) -, del quale scrisse anche un seguito, Les croulants se portent bien (1959), che non eguagliò il successo del primo. Ha firmato anche alcune sceneggiature cinematografiche e ha tradotto e adattato per le scene francesi Tess dei d’Ubervilles da Hardy e Tè e simpatia di R. Anderson.

Radice

Formatasi alla Scuola di ballo della Scala e perfezionatasi con Enrico Cecchetti e Cia Fornaroli, Attilia Radice entra nel Corpo di ballo del teatro milanese diventandone prima ballerina nel 1932, anno in cui interpreta la protagonista nel ballo grande di Léonide Massine Belkis, regina di Saba (musica di Respighi). Passata nel 1935 all’Opera di Roma con la carica di prima ballerina assoluta, interpreta con stile impeccabile i grandi classici, ma si mette in particolare evidenza nei ruoli per lei creati da Aurel Milloss: Il cappello a tre punte (1938), La giara (1939), Le creature di Prometeo (1940), Il mandarino meraviglioso (Scala 1942). Lasciate le scene nel 1957 assume la direzione della scuola del Teatro dell’Opera dove, fino al suo ritiro nel 1973, si è prodigata a trasmettere la linea didattica e artistica appresa da Cecchetti a numerose allieve, tra le quali si ricorda Elisabetta Terabust.

Rampone

Si forma alla danza contemporanea con Merce Cunningham, Alvin Nikolais, Trisha Brown, Steve Paxton. Dal 1985 al 1990 si esibisce a New York con autori della nuova danza come Tere O’ Connor e Sarah Skaggs e a Roma con Enzo Cosimi. Dal 1992 con la sua compagnia Entr’Acte avvia una ricerca coreografica basata sul rapporto interattivo tra danza e oggetti d’arte, collaborando con i pittori Tano Festa e Sandro Chia per Tap Stairs Live (1992), con gli architetti Maurizio di Puolo e Francesco Donato per Nostra dea (1995) e con gli scultori Luigi Mainolfi ( L’ombra dentro la pietra , 1996) e Gianandrea Gazzola ( Frammenti per corpi e tracce , 1997).

Romaeuropa,

Fondazione Romaeuropa è un’istituzione diretta da Monique Veaute, che dal 1985 cura e organizza a Roma il festival omonimo, dedicato al confronto tra le varie correnti culturali europee, con particolare attenzione a musica e danza contemporanea internazionale. Nel 1995, ha organizzato a Roma la prima piattaforma della danza italiana per promuovere sulla scena internazionale le compagnie contemporanee attive in Italia e, nel 1996, è stata riconosciuta come Ente nazionale di promozione della danza. Ha intensificato il suo lavoro in questa direzione, organizzando, nel 1997, gli `stati generali’ della danza e a Firenze la seconda piattaforma, seguita l’anno successivo da quella di Palermo.

Reinach

Il successo di Enrico Reinach arriva nel biennio 1875-76, nella compagnia di L. Pezzana, dove recitava come `primo amoroso’, ruolo che per le sue caratteristiche fisiche e di voce gli riusciva congeniale, tanto che si arrivò a definirlo `l’eterno primattor giovane’. Come primattore dal 1877 lavorò nelle compagnie Belotti-Bon, Pasta, Nazionale, Marini e Giagnoni, fino a che nella stagione 1895-96, mentre era in ditta con Talli, venne scritturato da E. Duse per interpretare Armando nella Signora dalle camelie , durante una lunga tournée all’estero. Nel frattempo, nel 1890, aveva sposato Edvige Guglielmetti (Torino 1873 – ivi 1918) con cui ebbe un duraturo sodalizio artistico e umano. Infatti, dopo essere tornato in Italia e aver lavorato per un breve periodo (18981900) con E. Gramatica, nel 1901 fonda una compagnia con V. Pieri, promuovendo sua moglie come primattrice. Questo fu il periodo migliore per i R. che si distinsero nell’interpretazione del teatro romantico-borghese di fine Ottocento. Nel 1909 i R. furono scritturati dalla Stabile Romana, diretta da E. Paladini e dopo poco Enrico si ritirò dalle scene, intraprendendo la professione di insegnante all’Accademia dei Filodrammatici di Milano. Una delle rare partecipazioni di Edvige R. lontana dal marito fu nel 1904 in Salomé di O. Wilde, con la regia di M. Fumagalli.

Rostagno

Esponente di punta dell’animazione teatrale, non solo con rappresentazioni come Un paese… fotospettacolo a staffetta (Venezia 1968), ma con interventi e progetti, è diventato un punto di riferimento come autore per molte compagnie di teatro-ragazzi (Granbadò, La Ribalta), collaborando agli spettacoli e scrivendo testi. Insieme a M. Baliani ha realizzato Kolhaas , uno degli spettacoli di narrazione più intensi in questi anni.

Rolland

Filosofo, umanista e musicologo, Romain Rolland è noto soprattutto per il romanzo-fiume Jean-Christophe (1904-1912), biografia simbolica di un musicista renano, e per una minuziosa e copiosa monografia su Beethoven. Pacifista convinto, è stato un polemico e vivace assertore della necessità della fratellanza e amore tra gli uomini, espressa in varie forme e in varie opere, spesso in modi ingenui. Nel 1915 gli fu conferito il premio Nobel. In un `credo’ artistico (pubblicato postumo nel 1956, ma anteriore agli inizi del secolo) si trova la sua prima formalizzazione teorica e organica di un teatro progressista, dove Rolland rinnega l’idea dell’`arte per l’arte’ e auspica un teatro per le masse. Ma è solo nei primi del Novecento, grazie alla collaborazione con la rivista “Revue d’Art Dramatique” e alla pubblicazione del saggio Le théâtre du peuple, essai d’esthétique d’un théâtre nouveau (1903), che le sue teorie iniziano a essere conosciute in Francia. Il ‘teatro per il popolo’ dovrebbe, nell’opinione dell’autore, ispirarsi alle epopee nazionali e trasmettere ideali eroici e egalitari. Seguendo queste convinzioni, R. realizza dal 1898 (in seguito a Les loups, ispirato al caso Dreyfuss) una sorta di `Iliade del popolo francese’ – così la definì l’autore – in otto drammi: un `preludio’, ispirato a J.J Rousseau, dal titolo Pâques fleuries, seguito dalla rievocazione di fatti storici centrali nella storia francese, come Le 14 juillet, Le triomphe de la raison sul periodo del Terrore (sarà messo in scena da Lugné-Poe), Le jeu de l’amour et de la mort, Danton e Robespierre, vasti affreschi dominati dall’ideologia dell’eroismo e del sacrificio.

Radok

Uscito dalla scuola di Burian, Alfréd Radok debuttò nella regia con L’isola del grande amore di F. Sramek (1942). Dopo il silenzio degli anni dell’occupazione nazista, curò diverse regie per alcuni dei principali teatri di Praga e dal 1958 al 1960 è direttore del Teatro comunale. Il suo nome è associato soprattutto a La lanterna magica (1958), grandiosa rappresentazione che ebbe un successo internazionale. Presentato all’Expo di Bruxelles, lo spettacolo era una complessa messa in scena ispirata alla Cecoslovacchia contemporanea, che affiancava la recitazione dal vivo con l’uso di effetti speciali cinematografici, come lo schermo panoramico e la duplicazione dell’immagine dell’attore. Dopo il 1968 si esiliò volontariamente in Svezia e in Austria, dove però la sua vena creativa mal si adattava alle tendenze locali. Radok fu regista teatrale versatile, ricco di inventiva scenica. Orientato verso l’eclettismo del `teatro sintetico’, approfondì col tempo l’interesse e la capacità d’indagine psicologica del personaggio, senza mai cadere nello psicologismo. Al centro della sua pratica registica c’era sempre un intenso lavoro con l’attore. Alla sua attività si ispirò la successiva generazione di registi cechi fra cui Milos Forman (suo collaboratore in Lanterna magica).

Ranieri

Ex posteggiatore e strillone, Massimo Ranieri viene scoperto e lanciato fra i big della canzone italiana a soli quindici anni. Dal 1966 ha inciso oltre venti lp e ha partecipato alle più importanti manifestazioni canore e televisive, da Canzonissima a Scala Reale, dal festival della canzone italiana di Sanremo al Cantagiro. Nel 1975, debutta come attore teatrale a Spoleto in Napoli, chi resta e chi parte , due atti unici di Raffaele Viviani, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Entra nella Nuova Compagnia dei Giovani diretta da Giorgio De Lullo e Romolo Valli. Nel 1978 interpreta Il malato immaginario di Molière e, nel 1979, La dodicesima notte di Shakespeare con la regia De Lullo; nel 1980, L’anima buona di Sezuan di Brecht, regia di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro; dal 1983, con Maurizio Scaparro: Barnum, Varietà, Pulcinella, Liolà, Teatro Excelsior; nel 1987, Rinaldo in campo, revival di Garinei e Giovannini, nel ruolo che nel 1961 fu di Domenico Modugno; nel 1994, di nuovo al Piccolo Teatro con L’isola degli schiavi di Marivaux, regia di Strehler (interpretazione interrotta a causa di una frattura procuratosi all prima a Torino); nel 1998, Hollywood, ritratto di un divo, musical `drammatico’ sulla vita del divo cinematografico John Gilbert, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi

In un repertorio così vasto e articolato, si è sempre ritagliato dei ruoli allegramente scanzonati, da adulto `scugnizzo’ di spericolata generosità interpretativa, non disdegnando, oggi, prove più impegnative e di maggiore consistenza drammaturgica, come in Hollywood, ritratto di un divo , dove si addentra con credibilità fra le pieghe della nostalgia. Parallelamente alla sua prestigiosa carriera musicale e teatrale, ha affrontato anche non molte ma significative prove cinematografiche e televisive, distinguendosi fin dal debutto, nel 1969, con Metello di Mauro Bolognini, al fianco di Ottavia Piccolo, che gli meritò un David di Donatello come migliore attore giovane; e poi, nel 1970, con il film tv La sciantosa, intensa storia d’amore materno sul fronte di Caporetto, uno dei più bei film dedicati alla prima guerra mondiale, con Anna Magnani; nel ’72, Bubù, ancora con Ottavia Piccolo, regia di Bolognini; nel ’74, La cugina di Aldo Lado, con Stefania Casini; e film televisivi, come la serie Nell’ombra del Vesuvio con Carlo Giuffrè; Lo scialo con Eleonora Giorgi, fino alla recente fiction tv Il ricatto nei panni del comissario Fedeli.

Rambert

Abbandonati gli studi di medicina per dedicarsi alla danza, Dame Marie Rambert studiò in primo luogo con E. Jaques-Dalcroze. La sua vita è cambiata quando Diaghilev l’ha scelta tra le allieve per assistere i danzatori dei Ballets russes, impegnati nei ritmi della Sagra della primavera di Stravinskij, che Nijinskij stava preparando con difficoltà. Dopo aver studiato con Cecchetti è entrata nei Ballets russes e si è trasferita in seguito a Londra con la Astafieva. Ha aperto la sua scuola nel 1920. Pur non avendo raggiunto un alto livello tecnico e non possedendo la stoffa della coreografa, si è dimostrata un’insegnante eccezionale e ha creato un ambiente divenuto uno straordinario vivaio artistico, offrendo la possibilità ad Ashton, Tudor, Gore, Howard, Cranko, Frank Staff e N. Morrice di produrre balletti per il suo piccolo complesso. Insieme al marito, il drammaturgo Ashley Dukes, ha comprato nel 1927 il piccolo Mercury Theatre, dove sono nati balletti importanti, interpretati da artisti diventati in seguito famosi; sempre artisti e non solo ballerini, perché Rambert teneva a trasmettere agli allievi e ai collaboratori parte della sua vasta cultura e a far crescere in essi una curiosità intellettuale. Sempre aperta a idee nuove, R. – che ha conservato anche in età avanzata un carattere focoso e pieno di entusiasmo – ha aperto la via a giovani coreografi quali N. Morris e C. Bruce e ha accolto con favore la trasformazione del Ballet R. in compagnia di danza moderna.

Riva

Mario Riva debuttò sulle scene nel luglio del ’43 al Teatro Nuovo di Milano come sostituto di un presentatore, ma già l’anno successivo entrò a far parte della compagnia Totò-Magnani nella rivista di Galdieri Che ti sei messo in testa? . Conosciuto l’attore comico Riccardo Billi, con cui costituirà per dieci anni un’affiatata coppia d’intrattenimento brillante, si cimentò nell’avanspettacolo, nel 1945 a Monza con Natale di fame, nel 1948 a Roma nella rivista I sette colli di Polacci e nel ’49 per lo stesso autore in Cento città, con D. Dei, Mara Landi e L. Poselli.Nel 1948 ci fu per Riva l’ultima piccola parentesi senza Billi in Col Naso lungo e le gambe corte di Garinei e Giovannini, prima di una serie di grandi successi della coppia nell’avanspettacolo che culminarono con l’affermazione prima radiofonica e poi teatrale della rivista La Bisarca , ancora di Garinei e Giovannini.

Nel 1951 il binomio Billi-Riva si era ormai imposto alla platea nazionale e consolidava la propria fama e il mestiere interpretando una lunga serie di film commerciali e riscuotendo consensi sui palcoscenici con Alta Tensione di Marchesi e Metz (musiche di Kramer), e l’anno successivo con I fanatici , degli stessi autori. Seguirono nel 1953 Caccia al tesoro di Garinei, Giovannini, Frattini e Calcagno; Siamo tutti dottori di Age, Scarpelli e Verde con musiche di Trovajoli (1954); La granduchessa e i camerieri di Garinei e Giovannini, con Wanda Osiris (1955). È questo l’anno in cui le strade di Riva e Billi si dividono alla biforcazione televisiva, e mentre Billi decide, dopo la loro prima breve esperienza sul piccolo schermo con “Un, due, tre”, di tornare ad essere attore solo per il teatro e il cinema, Riva abbraccia in pieno la carriera di presentatore e il 7 dicembre 1957 conduce la prima puntata del gioco a premi Il musichiere , trasmissione storica della televisone italiana, che lo rende immediatamente familiare e famigliare di milioni di telespettatori.

Quegli stessi spettatori che solo tre anni più tardi lo piansero quando morì in seguito ad una banale caduta nella buca di un palcoscenico. Riva fu artista popolare nelle due accezioni positive del termine: era schietto, semplice e simpatico tanto da accattivarsi con facilità il favore dell’italiano medio degli anni ’50, e tanto ironico, cordiale e divertente da diventare in poco tempo il beniamino di un’intera nazione che cominciava a sentirsi accomunata nello svago di quei programmi che alleggeriranno anni detti di boom , ma fatti ancora di tangibile povertà.

Rizzoli

Laura Rizzoli si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano sotto la guida di Esperia Sperani nel 1953. Interprete di temperamento drammatico, debutta con la compagnia del Teatro Manzoni di Milano (Benassi, Santuccio, Brignone) ne I fratelli Karamazov di Copeau-Dostoevski; seguono L’allodola di Anouilh, Tartufo di Molière (Dorina), La Dodicesima notte (Maria). Con il Teatro Stabile Duse di Genova prende parte a Ivanov di Cechov, I mariti di Torelli, La coscienza di Zeno di Svevo (regia L. Squarzina). Nel 1957 riceve la Noce d’oro per La ragazza della giostra di Bassani. Del 1958 è l’esordio televisivo come protagonista di La donna di nessuno; lavora con la compagnia teatrale di E. Calindri, a fianco del quale interpreta in tv diverse commedie. Nel 1968 a Roma dà vita con Mino Bellei alla Cooperativa del Malinteso (Il malinteso di A. Camus, Senilità di I. Svevo, La donna di casa di V. Brancati, regie N. Rossati). Negli anni ’70 partecipa alla stagione femminista del Teatro della Maddalena (Roma) con spettacoli di B. Alberti, D. Maraini, A. Ceriani (Eguaglianza e libertà). Dopo Maschere nude da Pirandello, regia L. Puggelli, nel 1978 lascia il teatro e da allora si dedica al doppiaggio, a Milano con la cooperativa ADC (serial e soap-opera tv; sue le voci di V. Redgrave, J. Moreau, I. Bergman).