Gleijeses

Geppy Gleijeses dirige la Gitiesse spettacoli e dirige il Teatro nazionale di Milano. Debutta in teatro nel 1974 in Il figlio di Pulcinella di E. De Filippo, regia di Bogdan Jerkovic in cui interpreta Pulcinella. Nel 1975 cura la regia di Chi è cchiù felice e’ me e Gennariello di E. De Filippo; seguono La famiglia dell’antiquario di Goldoni, regia di F. Bordon, Felicitas di M. Prosperi (1977-78), regia di A. Zucchi; Amore e commedia e La piazza di G. e Marco Mete, regia del collettivo Coop. Napoli Nuova 77; Il voto di Di Giacomo regia di V. Puecher (1980-81) e Quaranta ma non li dimostra di Peppino e Titina De Filippo (1982-83). La prima produzione di Gitiesse Spettacoli è Triatro d’avanquartia di Gleijeses, regia di Ugo Gregoretti (1983-84) a cui segue Vorticose passioni drammaturgia e regia di Gleijeses, Il malinteso di Camus (regia di S. Sequi, 1985-86); La cintura di Moravia, regia di R. Guicciardini; 1986-87 A porte chiuse da Sartre a Mishima, regia di S. Sequi; L’ispettore generale di Gogol’, regia di R. Guicciardini; Liolà di Pirandello, regia di Squarzina; 1991-92. Tra gli ultimi spettacoli Arancia meccanica di Burgess, regia di Cherif; Arsenico e vecchi merletti di Kesserling, regia di M. Monicelli; Cantata per la festa dei bambini morti di mafia di Luciano Violante, del quale è anche regista Geppy Gleijeses; e Una bomba in ambasciata di Woody Allen, diretto sempre da Monicelli. È interprete anche di film per la televisione e per il cinema (Così parlò Bellavista, 1984; Il sole anche di notte, 1990).

Gombrowicz

Witold Gombrowicz studia giurisprudenza all’università di Varsavia, in seguito filosofia ed economia a Parigi. Tornato a Varsavia, collabora a riviste letterarie come critico. Nel 1939 lo scoppio della guerra lo sorprende in Argentina, dove rimane fino al 1963, per risiedere in seguito a Berlino, Parigi e Vence. L’attività drammaturgica di Witold Gombrowicz è strettamente legata a quella di scrittore di romanzi come Ferdydurke (1937) e Bakakaj (1957), incentrati sul tema dello smascheramento dei modelli di comportamento sociale, o come Pornografia (1960), dove il protagonista-narratore si assume esplicitamente una funzione registica. Autore affascinato da ciò che accade tra gli uomini, dai problemi della forma e della immaturità, Witold Gombrowicz sembra essere stato naturalmente predestinato alla scrittura dialogica e teatrale: «tutta la mia opera artistica – è lui stesso a spiegarlo – tanto i romanzi quanto i racconti, è teatro. In ognuna delle mie opere è possibile trovare un regista che organizza l’azione, i miei personaggi indossano maschere, il mio modo grottesco di espressione assume una certa plasticità». D’altra parte, il carattere demistificatorio della sua Weltanschauung, l’attenzione maniacale per i cerimoniali e i rituali formalizzanti l’esistenza umana non potevano che spingerlo verso le forme teatrali più convenzionali: la farsa e l’operetta.

«Se ho voluto affrontare una forma così leggera è stato per controbilanciarla e perfezionarla con la serietà e il dolore», è la spiegazione dello stesso Witold Gombrowicz Ivona, principessa di Borgogna, pubblicata su “Skamander” nel 1938 e rappresentata nel 1958, è un’opera a tesi che sembra anticipare l’esistenzialismo sartriano. La comparsa di Ivona alla corte reale è un apologia sul «desiderio di uccidere il ridicolo che vive in noi» (J. Pomianowski). La pièce è strettamente legata ai postulati filosofici di Witold Gombrowicz, per il quale la vita fluisce tra gli estremi di una forma sclerotizzata e agonizzante da una parte e di un caos informe dall’altra, e dove l’unico fattore progressivo è l’immaturità, una `inferiorità’ carica di energia, qui rappresentata da Ivona, `elemento di contraddizione’ con la sua sgraziata goffaggine. Il matrimonio (1957, rappresentato nel 1974) è stato concepito come una trascrizione di un sogno e insieme una parodia delle tragedie shakespeariane: la pièce ha una struttura onirica dove il piano più alto del linguaggio si contamina con il lessico più volgare, e nell’ambito della trama gli avvenimenti più triviali si intrecciano ad accadimenti mortalmente seri. Eventi e personaggi sono caratterizzati da un’esibita artificialità. Nelle stesse parole dell’autore «tutte queste persone recitano sempre», tutti fingono di essere se stessi e mentono per dire la verità, mossi dall’unico – inconfessato – desiderio di dominare. Ogni cultura, infatti, non è altro che un insieme di rituali che hanno lo scopo di formalizzare in una messa in scena la lotta per la sopravvivenza.

Dopo aver così ferocemente tratteggiato l’obbligo socio-culturale delle convenzioni, in Operetta (1969) Witold Gombrowicz celebra l’apoteosi della nudità, simbolo di verità, sincerità, semplicità. Deciso a trasmettere attraverso la pochezza intellettuale dell’operetta il pathos della storia, Witold Gombrowicz descrive in Operetta nient’altro che l’apocalisse, il crollo del vecchio mondo, la rivoluzione, l’insorgere di un mondo nuovo e terribile. Da un punto di vista della personale filosofia di Witold Gombrowicz («non credo in una filosofia non erotica, in un pensiero che si libera dal sesso»), si tratta della fine di un percorso: alla sostituzione della convenzionalità della forma con la nudità da segni e orpelli corrisponde il trionfo, a lungo negato, del giovane sul vecchio, dell’universale sul nazionale, del sogno sull’ideologia. Anticipatrice dell’esistenzialismo, l’opera teatrale di  Gombrowicz se ne distanzia per l’esibito scetticismo e un certo anarchismo, ma soprattutto per la forma espressiva, per il suo carattere parodistico, per il suo senso del grottesco e dell’umorismo, che ne hanno decretato un successo pressoché ininterrotto sulle scene di tutto il mondo.

García

Artista geniale, trasgressivo e inquieto, di famiglia spagnola originaria di Salamanca, Victor Garcìa studia medicina e belle arti (pittura, scultura, architettura) a Buenos Aires. Qui scopre il teatro: segue corsi di danza e mimo, fonda il Mimo Teatro e realizza il primo spettacolo nel 1957, tratto da García Lorca. Viaggia e lavora in Sudamerica, quindi, nel 1960, approda in Europa, a Barcellona e poi a Parigi, dove nel ’62 si iscrive all’Université International du Théâtre e allestisce Le petit retable de Don Cristobal di García Lorca, premiato come miglior lavoro. Seguono La rosa de papella di Valle-Inclán (compagnia Serrau-Perinetti; Pavillon de Marsan, 1964), Ubu re di Jarry (1965), El gran teatro del mundo di Calderón (Biennale di Parigi, 1966). Immediati i consensi ai suoi spettacoli, che scuotono per violenza iconoclasta e potenza visionaria. In Il cimitero delle automobili di F. Arrabal (1967) è esplicita la sua volontà di dissacrazione del luogo teatrale: carcasse di auto e ferraglie invadono la scena, mentre è sconvolto il senso dello spazio ed esaltata la parola. La ricerca di un’architettura scenica estrema e di una teatralità assoluta, che inducano nel pubblico un senso di svuotamento, culminano in due spettacoli-scandalo di J. Genet: Les bonnes con la compagnia spagnola di Nuria Espert (1969) e Le balcon (1970), dove nel teatro sventrato con la dinamite si erge una colonna («vertebrale») di ventisette metri. La sagesse ou la parabole du festin di P. Claudel riceve il Prix du meilleur spectacle Claudel (Parigi, Théâtre de la Cité Universitaire, 1969); la collaborazione con N. Espert prosegue con Yerma di García Lorca (Madrid 1972, presentato anche alla biennale di Venezia) e Divine parole di Valle-Inclán (1976). Con la compagnia Ruth Escobar di San Paolo allestisce per la Biennale di Venezia gli Autos sacramentales di Calderón (1974): ma la grande varietà di stili, l’idea di teatro come azione pubblica e l’inclinazione autodistruttiva isolano e sradicano G. dalla scena teatrale mondiale. Nell’ultimo spettacolo, Gilgamesh (Théâtre National de Chaillot, 1979), una compagnia di attori di origine araba, in uno spazio che ha inghiottito la platea e squarciato il suolo, recitano, in `panarabo’, appollaiati su piloni: quasi in un atto finale di emarginazione, al quale farà eco una risposta emarginante di critica e pubblico.

Gémier

Tonnerre; Parigi 1869 – ivi 1933), attore e regista francese. Dopo gli esordi in teatri di provincia, si forma al Théâtre Libre di Parigi, fondato e diretto da André Antoine. Nella stagione 1895-96 recita al Théâtre de l’Oeuvre, passando così dal naturalismo di Antoine al simbolismo di Lugné-Poe. Dal 1901 al 1921 lavora in tre dei più importanti teatri della capitale (Renaissance, Antoine e Odéon); in questo stesso periodo, nel 1912, fonda il Théâtre ambulant, uno dei primi esempi di realtà teatrale decentrata, che sfocerà nel 1920 nella creazione del Théâtre national populaire (Tnp), esperienza ripresa nel dopoguerra e portata al successo internazionale da Jean Vilar, il fondatore del festival d’Avignone. La traccia lasciata da G. e raccolta soprattutto da Vilar, è la creazione di un grande teatro popolare, accessibile a tutti ma mai commerciale. La sua spinta ideale era concentrata in un entusiastico avvicinamento dei classici al grande pubblico, cercando sempre nelle sue rappresentazioni di agire `in sottrazione’ nei confronti dell’enfasi recitativa e dell’impianto scenico. Tra le sue regie e interpretazioni più significative ricordiamo: Blanchette di Brieux (1892), Venezia salvata di Otway (1895), Ubu re di Jarry (1896) e L’annuncio a Maria di Claudel (1920).

Gordon

Nel 1956 David Gordon entra nella compagnia di James Waring, dove coreografa Mama Goes Where Papa Goes (1960). Frequenta intanto le lezioni di Cunningham e studia con Graham, Horst e Robert Dunn. Prende parte attivamente all’esperienza dei postmoderni del Judson Dance Theatre e danza in Trio A , opera seminale della Rainer. Firma il solo Walks and Digressions (1966), cui seguono Sleepwalking (1971), basato sull’accelerazione progressiva, Chair (1974), duo con la moglie Valda Setterfield. Forma poi la sua compagnia (1974), per la quale crea lavori come Not Necessarily Recognizable Objects (1978) e Tv Reel (1982), esemplari del suo stile di coreografo-costruttore, solo in apparenza casuale. Crea anche Field, Chair and Mountain per l’American Ballet Theatre (1985).

Graziosi

Iniziata la carriera a sedici anni, Franco Graziosi debutta con Strehler nel 1953 in Un caso clinico di Buzzati. È poi Foletto, lacché del Conte di Bosco Nero (Carraro), nella Vedova scaltra di Goldoni e Trebonio nel Giulio Cesare di Shakespeare. Da questo momento partecipa a quasi tutti gli spettacoli del Piccolo, fino al ’58: da La sei giorni di D’Errico a La mascherata di Moravia, da Arlecchino e La trilogia della villeggiatura goldoniani al Giardino dei ciliegi , dove è Iaša. Seguono il primo Nost Milan (Pasqualino), L’opera da tre soldi (Smith), Coriolano (Tullio Aufidio), e finalmente interpreta l’aviatore Iang Sun nell’ Anima buona di Sezuan accanto a Paola Borboni, Valentina Fortunato e Marcello Moretti. È il 1958 e lascia il Piccolo, sposa Esperia Pieralisi, sorella di Virna Lisi, ed entra nel complesso diretto da L. Squarzina, dove insieme a un folto gruppo di attori, dalla Adani a Tofano, da Maria Fabbri a Parenti, a Zora Piazza, a Sanipoli, recita nel Benessere di Brusati e Mauri e in Romagnola di Squarzina. Scioltasi la compagnia per i disordini politici intervenuti alle recite di Romagnola , recita al Teatro Olimpico di Vicenza, poi alla Cometa di Roma diretta da D. Fabbri in Un uomo per tutte le stagioni di Bolt e in La ragione degli altri di Pirandello. Gassman gli offre il ruolo di Verri (applauditissimo) nel suo Questa sera si recita a soggetto (1962) . Da Gassman alla Proclemer-Albertazzi, in Agamennone di Alfieri e Come tu mi vuoi ancora di Pirandello, per due stagioni in Italia e in Russia (1967-68); poi ancora con Strehler nel gruppo Teatro e Azione, in Cantata di un mostro lusitano di Weiss, Nel fondo di Gor’kij, Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (Walter Reder) di R. Pallavicini e G.F. Venè; dal ’73 torna al Piccolo, dove lega il suo nome ai personaggi di Gilles de Rais ( Barbablù di Dursi, regia di L. Puggelli), Florindo ( Arlecchino, 1973) , Lopachin ( Il giardino dei ciliegi , 1974 e 1977), Togasso ( El nost Milan , 1979) e finalmente Mefistofele ( Faust I e II ) e Cotrone ( I giganti della montagna, 1993 ), dove la sua recitazione innervata e controllatissima, ma ricca di sottolineature ironiche e dissacranti, ha modo di risplendere e di far lievitare i bagliori del testo. Fra le ultime prove, la lunghissima maratona del ronconiano Pasticciaccio de via Merulana di Gadda (il commissario Ingravallo), Spettri di Ibsen, al Piccolo Eliseo, regista G. De Monticelli con R. Falk e Nostre ombre quotidiane di Noren, regia S. Sequi.

Galli

Figlia d’arte, Dina Galli in palcoscenico fin da bambina con i genitori scritturati in una compagnia itinerante, suo maestro fu il milanesissimo Ferravilla. Ebbe l’occasione di compiere il decisivo salto di qualità allorché Talli, direttore della Gramatica-Calabresi, avendone intuito le spiccate doti comiche, le affidò ruoli sempre più rilevanti nelle pochade di Feydeau, Labiche, Hennequin, Veber. La magra signorinella dal viso appuntito e dagli occhi sporgenti, inaugurò con la Crevette di La dame de Chez Maxim una lunga serie di ritratti maliziosi e accattivanti, ribaditi nelle successive esperienze a fianco di Gandusio, Besozzi, Viarisio, Calò, Giorda, Stival. Non appagata dal meritato titolo di reginetta del teatro boulevardier, tenne a battesimo una nutrita serie di novità italiane firmate da Forzano, Fraccaroli, Chiarelli, Cantini, De Stefani. Con Felicita Colombo e con Nonna Felicita del prediletto Adami ritornò, nella pienezza della maturità, alle ascendenze meneghine, perfezionate alla scuola di Tecoppa-Ferravilla, ritrovando gli stessi entusiastici consensi che all’indomani della grande guerra aveva colto con Scampolo e con La maestrina di Niccodemi. Tanti anni dopo, nel secondo dopoguerra, fu la deliziosa protagonista di Viva l’imperatore di Guitry, di Arsenico e vecchi merletti di Kesselring e dell’ormai inscindibile Felicita Colombo che aveva interpretato anche nella versione cinematografica. Conosciuta universalmente come `la Dina’, fu l’ultima autentica esponente di una milanesità ben presto emarginata dalla omologazione linguistica e costumistica.

Giachetti

Gianfranco Giachetti si formò a Venezia dove dal 1914 recitò nella compagnia di F. Benini. Nel 1920 fondò una propria compagnia che contribuì a formare importanti attori quali C. Baseggio e i fratelli Cavalieri. Interpretò con successo opere di C. Goldoni, G. Gallina e G. Rocca. Dotato di raffinata intelligenza e cultura, G. seppe mostrare i lati più oscuri e meno sentimentali che si celano dietro personaggi patetici e apparentemente innocui (Buganza, il compositore fallito che aspira alla gloria in Nina, no far la stupida di Rossato e Gian Capo ne è un esempio). Lavorò anche per il cinema; tra i suoi film: Figaro e la sua gran giornata di Camerini nel 1931 e 1860 di A. Blasetti nel 1933.

Gor’kij

Maksim Gor’kij il maggior rappresentante del realismo di inizio secolo e, dopo la rivoluzione d’Ottobre, teorico del ‘realismo socialista’, indirizzo letterario (proclamato nel primo Congresso degli scrittori del 1934) che deve riflettere i conflitti ma soprattutto i successi della società nata dalla rivoluzione. Orfano, dopo aver fatto i mestieri più disparati, debutta in letteratura con il racconto Makar Cudra, primo del ciclo dei `vagabondi’, dove Maksim Gor’kij ripercorre la sua avventurosa esistenza tra banditi e disperati. Inizia la sua attività di drammaturgo, sollecitato da Cechov, che apprezza molto le sue prove narrative, e da Nemirovic-Dancenko, uno dei direttori del Teatro d’Arte di Mosca, sempre pronto ad aiutare i giovani talenti. I due primi drammi, Piccoli borghesi (1902) e Bassifondi (1902, conosciuto anche come L’albergo dei poveri), dedicati agli aspri conflitti nelle classi più povere della società russa, vengono messi in scena con grande successo e molte polemiche al Teatro d’Arte, con la regia di Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko. La violenza eversiva delle situazioni, la forza incisiva del linguaggio suscitano enorme scalpore e fanno di G. l’autore più coraggioso di questi anni inquieti per la società russa. A partire dal 1904 scrive una serie di drammi dedicati all’ascesa politica e finanziaria della borghesia mercantile, sempre più avida, rozza, ottusa, di fronte a cui si fa sempre più grave la crisi dell’ intelligencija , una classe che sta perdendo il suo ruolo di guida, divisa tra integrazione passiva e rivolta contro l’autocrazia zarista, soprattutto dopo i moti rivoluzionari del 1905: I villeggianti (1904), I figli del sole (1905), I barbari (1906), Nemici (1906), Gli ultimi (1908), Vassa Železnova (1910), La moneta falsa (1913). Dopo un lungo periodo dedicato alla stesura di opere narrative e autobiografiche, Maksim Gor’kij torna al teatro all’inizio degli anni ’30, con una serie di lavori dedicati alla decadenza e alla corruzione della società borghese pre-rivoluzionaria, dominata dalla cupidigia e dalla violenza: Egor Bulycov e altri (1931), Dostigaev e altri (1932), la seconda versione di Vassa Železnova (1936). Il teatro di Maksim Gor’kij ha avuto molto successo in Italia a partire dai primi anni del secolo fino alla fine degli anni ’30, grazie soprattutto ad alcuni grandi attori (Eleonora Duse, Alfredo De Sanctis, Tatjana Pavlova) che hanno portato al successo i suoi lavori.

Giordana

Filgio d’arte la madre è Marina Berti, il padre Claudio Gora, Andrea Giordana diventa famoso molto giovane grazie all’interpretazione di Edmond Dantès, protagonista de Il conte di Montecristo , nella versione televisiva del romanzo di Dumas (1966). Ha proseguito la sua attività televisiva sia come attore nell’ Eneide (1971), in Sandokan (1972) e nello sceneggiato Quaranta giorni di libertà (1974), sia come conduttore: ha presentato tra gli altri programmi, l’edizione 1983 del festival di Sanremo. Torna a recitare in importanti sceneggiati: è Guido Speier in La coscienza di Zeno (1988) di S. Bolchi; recentemente ha preso parte alla serie di successo Piazza di Spagna . Anche il teatro lo ha visto impegnato in opere di classici e contemporanei, con registi come De Lullo, A Trionfo, M. Parodi, M. Bernardi. Ha formato una compagnia con G. Zanetti (Gli amori inquieti, La commedia degli errori, Come vi piace). È protagonista de Il seduttore di D. Fabbri diretto da G. Sepe.

Grossman

Si esibisce nella compagnia di P. Taylor (1963-1973); fonda poi il suo gruppo, Danny Grossman Dance Theater, nel 1974 a Toronto. Crea brani energici e impegnati come Bella (1977), Endangered Species (1981), Ces Plaisirs , Divine Air (1985). Predilige temi che toccano aspetti sociali e morali, ma ama farlo servendosi dello humour insito nelle dinamiche stesse del movimento.

Gabel

Gabellini; Rimini 1938), attrice. Dopo un esordio teatrale Zerbina, in Capitan Fracassa (sceneggiato per la tv) l’ha fatta conoscere al grande pubblico nel 1958. La sua attività prosegue con, tra le altre, l’interpretazione di Elena nell’ Odissea (1968) e una partecipazione nel ruolo di Laura Millington nel celebre sceneggiato di A.G. Majano E le stelle stanno a guardare . Nel 1973 è diretta dal marito Piero Schivazappa nella versione televisiva di Vino e pane di I. Silone, nella parte della protagonista Annina; ma la possibilità di mostrarsi come valida interprete drammatica l’otterrà nel 1976 nei panni di Zobeide, nel Garofano rosso , e in seguito nel ruolo di Virginia in Un eroe del nostro tempo . Lo sceneggiato tv Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1983) le fa conquistare il riconoscimento come miglior attrice al Festival del giallo di Cattolica.

Gades

Di famiglia operaia e antifranchista, Antonio Gades abbandona gli studi a undici anni per dedicarsi a umili mansioni. Da persecuzione politica e miseria nasce quell’impegno sociale destinato a diventare il filo conduttore della sua vita pubblica e privata. Altra predestinazione è l’incontro con una edizione clandestina del Romancero gitano di Federico García Lorca, che fa scattare nel giovane Antonio un processo di identificazione poetica e civile. Spinto a frequentare l’Accademia della maestra Palitos, Antonio Gades viene notato da Pilar Lopéz: che lo prende in compagnia e gli affida il nome Gades, da Cadice, la città già lodata da Marziale per la leggiadria delle danzatrici destinate alla Roma dei Cesari. Antonio Gades impara la danza e il modo di costruirla direttamente dalla pratica del palcoscenico. La severa e intelligente scuola di Pilar spazia dal folclore regionale a quello andaluso e segnatamente flamenco, alla `escuela bolera’ che è frutto della contaminazione culturale ispanica e franco-italiana. Nel 1960 Antonio Gades sceglie la libertà. Lo troviamo a Roma, dove monta con Anton Dolin il Bolero di Ravel e dove, soprattutto, si sottopone a un rigoroso studio del classico. Conosce Beppe Menegatti, cui deve l’affermazione nel nostro Paese. Suo tramite entra nel gruppo che già riunisce Carla Fracci, Ferruccio Soleri, Oscar Ghiglia e altri. Il teatrino di Don Cristóbal (tanto per cominciare un García Lorca) montato da Menegatti per Fiesole trionfa, e fa trionfare G., a Spoleto (1962). Qui Menotti non esita ad affidargli la regia della Carmen che lancerà Shirley Verrett. Subito dopo Antonio Gades è alla Scala come ballerino e maître. Nel 1963 torna in Spagna, dove mette assieme un piccolo gruppo. In un night di Barcellona frequentato da intellettuali Antonio Gades colpisce Miró, che lo segnala alla New York World’s Fair del ’64. È l’affermazione internazionale. Durante la stagione teatrale 1968-69 Parigi assegna a Antonio Gades il Premio della critica. Nel 1970 avviene il debutto a Londra. Poi il mondo è suo e la cronologia si confonde. Antonio Gades, che nasce Antonio Gades baciato da quello che noi chiamiamo carisma, possiede anche il carattere che gli spagnoli definiscono `duende’. Uno, il `duende’, lo `tiene’ o non lo `tiene’. `Duende’ è estro, passione, anarchia, imprevedibilità. Così Antonio Gades fa e disfa le sue compagnie. Arriva e riparte. Balla e si ferma. Crea e gli si inaridisce la vena. Scompare, anche per anni, senza lasciare traccia, fagocitato da un qualche suo affanno ideologico o sentimentale. O più semplicemente perché gli va di andare in barca. Se infatti Antonio Gades va fiero per un buon numero (pare che le sposi tutte) di mogli e figli, è anche vero che nel 1975 interrompe dall’oggi al domani una tournée perché in Spagna hanno fucilato degli innocenti. C’è la questione dei separatisti baschi, c’è di mezzo un suo fratello. Si rifugia a Cuba dove Alicia Alonso, regina di tutte le rivoluzioni, lo convince che il teatro è il suo `mezzo’ e che anche con il `baile’ è possibile protestare. Nel 1978 la Spagna del dopo-Franco gli offre la direzione del Balletto nazionale. Lui tentenna ma accetta. Solo per poco. Preferisce i suoi, con i quali gira l’orbe in torpedone, con jeans e scarpe da tennis per tutto bagaglio.

Antonio Gades è uomo di intensa sensibilità culturale. Come conciliarla con quella formazione tanto frettolosa? Perché Antonio ha imparato gli uomini e le cose vivendo, così come ha imparato il ballo ballando. Perché `tiene duende’, è intelligente e umile. Sa scaldarsi al sole dei grandi che illumina con le sue intuizioni. Rafael Alberti gli dedica versi indimenticabili: “Antonio Gades, te digo:/ lo que yo,/ te lo diria mejor/ Federico./ Que tienes pena en tu baile/ que los fuegos que levantan/ tus brazos son amarillos”. Lui impara da Matisse e Miró la spazialità, la luce, la geometria, il modernismo surreale che ne segna il teatro. Un teatro spagnolo assolutamente rivoluzionario. La sua è una Spagna di sangue ma non di elezione. Nulla egli sembra amare di quella terra tronfia e barocca, retorica e sgargiante se non le leve dell’avanguardia che cercano l’affrancamento dall’hispanidad e l’adorato García Lorca, onnipresente con i simboli scarnificati dell’infanzia trascorsa nella campagna granadina. Sole e luna, morte e figlio, giglio e cristallo, chitarra e Guadalquivir delle stelle. Molto teatro di G. è sussurrato, suggerito, disseccato. Tra i vari stili appresi da Pilar c’è anche il flamenco, cui sono affidati i momenti di maggiore tensione drammatica. Allora i `cantaores’ dalla voce roca levano i desolati `gipidi’, e i bastoni gitani percuotono inesorabili la terra, come campane a morto. Intanto gli uomini consumano `en ralenti’ il loro duello fatale (Bodas de sangre, 1974), le sigaraie si affrontano come eserciti nemici nella `bodega’ arredata di povertà (Carmen, 1983), Frondoso contagia con il `taconeo’ la necessità di rivolta (Fuente Ovejuna, 1994). Le danze regionali servono invece per le distensioni liriche. E il silenzio, grande protagonista delle cose vere, magari commentato dal flash che coglie il volo di due amanti a cavallo verso la luna (Chagall) per i sentimenti estremi. Antonio da Elda che ha conosciuto il sudore dei poveri ne sa anche le feste. Che esplodono sgangherate e improvvise con la parodia della corrida (Carmen e Fuente Ovejuna ). La produzione di G. non è copiosa, perché dopo l’atto creativo lui «si sente vuoto come un animale e non ha più niente da dire». La trilogia costituita da Bodas de sangre, Carmen e Fuego, tutti titoli mutuati dalla cinematografia di Carlos Saura, è seguita da Fuente Ovejuna sull’omonima commedia di Lope de Vega. Il tiranno che oltraggia la sposa di Frondoso è sinonimo di tutti i tiranni, dunque l’antagonista esistenziale di Antonio. Quando infatti, alla fine, qualcuno domanda chi abbia ammazzato il governatore, la coralità, meritevole di perdono, del celebre “todos a una, Fuente Ovejuna” è sostituita dal fiero “yo” ripetuto dai singoli campesiños. E Fuente diventa tragedia. Da tempo la partner storica di Antonio, Cristina Hoyos, è stata sostituita da Stella Arauzo. E adesso anche lui, Antonio che accenna la straziante `farruca’, che leva le braccia come ali di gabbiano, che dardeggia lo sguardo fiero dal legno antico del volto scavato, che t’affronta con la camicia bianca, le anche guizzanti e il fremito delle gambe nervose, ha annunciato il ritiro dalle scene. Il coreografo promette un trittico lorchiano per il 1999. Ci saranno altre Bodas e altre Bernarda Alba . Forse anche il Lamento per Ignazio. Ma chi, al suo posto, potrà parlare di “tori celesti, mandriani di pallida nebbia”? Chi troverà quel `duende’ che, diceva Federico, «non arriva se non vedi una possibilità di morte, se non sai che dovrai corteggiarla, se non hai la sicurezza che dovrai cullare quei rami che tutti portiamo con noi, e che non hanno, non avranno mai, consolazione»?

Greppi

Avvocato, dopo la Liberazione diviene sindaco di Milano, ed è uno tra i padrini e numi tutelari del Piccolo Teatro, nonché attivo promotore della vita teatrale milanese (fa subito ricostruire la Scala bombardata). Scrive una serie di testi per la scena, commedie in lingua italiana che poi traduce spesso in dialetto milanese: si tratta soprattutto di commedie di bonario realismo come La donna di tutti , L’ombra fedele , Il mare , On scherz de pret , Un galantuomo in tribunale . Le sue opere vengono rappresentate a Milano al Teatro Gerolamo e al Nuovo, ma soprattutto in provincia. Il suo maggior successo è stato Il piccolo piange interpretato nel ’27 dalla Pavlova.

Gropius

A Weimar Walter Gropius è il fondatore e il direttore (dal 1919 al 1928) del Bauhaus, movimento attraverso il quale si tenta, praticamente e non solo teoricamente, di trovare un punto d’unione fra nuova tecnologia e arte, progettando stoffe, mobili, locomotive, case. Grande architetto razionalista, dopo l’esperienza di Weimar si trasferisce a Berlino e, alla presa del potere di Hitler, abbandona la Germania prima per l’Inghilterra e poi per Boston. G., in prima linea nel progettare un’edilizia abitativa popolare che ponga in primo piano la qualità della vita, ha lasciato una sua impronta importante nell’architettura teatrale anche se i suoi progetti di un Totaltheater non sono mai stati realizzati. In sintonia con la ricerca teatrale di Erwin Piscator, infatti, G. studia un teatro (di cui ci resta il modellino) dotato dei più sofisticati ritrovati tecnici ipotizzando un edificio ricco di praticabili, con diversi palcoscenici, in grado di rappresentare simultaneamente scene diverse. Lo spazio teatrale può trasformarsi in un gigantesco schermo dove proiettare diapositive, spezzoni di film nel quale lo spettatore si sente completamente immerso. Per questo pubblico del futuro G. studia anche speciali poltrone mobili che, grazie a un bottone inserito nei braccioli, possono essere orientate a piacimento. Cade così definitivamente in questo progetto, che situa lo spettatore al centro dell’evento scenico, la separazione fra platea e palcoscenico oltre che la convenzione della cosiddetta quarta parete su cui si regge il teatro naturalista.

Gsovsky

Formatosi a San Pietroburgo con Eugenia Sokolova, nel 1924 si trasferisce a Berlino, dove diventa maître de ballet della Staatsoper nel 1925 e fonda con la moglie Tatiana una importante scuola nel 1928; prosegue poi la sua attività di maître con la compagnia Markova-Dolin (1937) e altre quali il Ballet de l’Opéra di Parigi (1945), il Ballet des Champs-Elysées (1946-48), la Staatsoper di Monaco (1950-52), il balletto di Düsseldorf (1964-67), il balletto di Amburgo (1967-73). Insigne didatta, ha perfezionato lo stile e il linguaggio accademico più puro di numerose stelle internazionali, e ne ha sintetizzato i fondamenti nel suo celebre testo Grand pas classique (1949).

Grassilli

Raoul Grassilli frequenta dapprima l’ambiente universitario bolognese, in seguito, iscrittosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica `Silvio D’Amico’ di Roma, si diploma nel 1948 e un anno dopo viene scritturato presso il il Piccolo Teatro di Firenze. La sua formazione si amplia grazie all’attività svolta con la compagnia Pavlova e quindi al Piccolo Teatro di Milano e di Genova. Verso la fine degli anni ’50 recita al fianco di Alida Valli, Memo Benassi e Gino Cervi. Attore dotato di forte senso scenico, nel 1962 riceve il Premio Saint-Vincent per l’interpretazione di Ritratto d’ignoto di Diego Fabbri, per la regia di O. Costa. Sebbene abbia interpretato con grande autorità personaggi di un certo rilievo all’interno di opere di autori come Goldoni, Gor’kij, Shakespeare, Büchner, Pirandello, Molière, Mauriac, tuttavia sarà l’attività televisiva – costituita soprattutto da partecipazioni a drammi e a teleromanzi in costume – a decretargli maggiore notorietà. Dal punto di vista cinematografico è da ricordare il ruolo sostenuto nel film Pelle viva (1962). Agli inizi degli anni ’70 cura la regia di numerose opere liriche, sia per alcuni teatri esteri sia per quelli di Roma, Bologna, Torino, Parma. Dal 1984 al 1994 è docente di arte scenica al Conservatorio Musicale di Bologna. Nell’arco della carriera svolge un’intensa attività radiofonica. Un nuovo riconoscimento giunge nel 1985 con il Premio Idi per lo spettacolo di D. Fabbri Incontro al parco delle terme.

Golejzovskij

Cresciuto alle scuole di Mosca e Pietroburgo, Kas’jan Jaroslavic Golejzovskij è entrato nel 1909 al Teatro Marijinskij di Pietroburgo per passare, nello stesso anno, al Teatro Bol’šoj di Mosca, dove ha interpretato ruoli da solista ( La bella addormentata , Il cavallino gobbo , La fille mal gardée ). Spirito innovatore e irrequieto, presto ha abbandonato la scena accademica per intraprendere dal 1915 la carriera di coreografo presso l’Intimnyj Teatr, il Teatro di Mamontov e il cabaret Il pipistrello. Influenzato dalle innovazioni di I. Duncan, M. Fokine, A. Gorskij è diventato, a cavallo fra gli anni ’10 e ’20, uno dei più significativi coreografi sperimentatori. Nel 1916, seguendo l’esempio del regista A. Tairov, ha fondato un suo Balletto da Camera di Mosca, per il quale ha realizzato La sonata della morte (1918, musica di Skrjabin), Salomé (Strauss), La tragedia delle maschere , Il fauno (Debussy) tutti del 1922, Danze eccentriche (1923). La sua ricerca si è indirizzata soprattutto verso una espressività del movimento libera dai dettami accademici, affrancando il corpo dagli impedimenti del costume classico a favore della quasi totale nudità. Per primo ha introdotto nella danza il costruttivismo adottando scenografie complesse nei balletti realizzati per la scena sperimentale del Bol’šoj, come Giuseppe il bello (1925). Ha collaborato con i più importanti registi d’avanguardia del periodo; a partire dal 1927 ha subìto una lenta ma progressiva emarginazione adattandosi a lavorare per il music-hall, i divertissement per le opere (per esempio le Danze Polovesiane del Principe Igor) o per i teatri delle repubbliche dell’Asia Centrale. Nel periodo del `disgelo’ krusceviano è stato chiamato ad allestire al teatro Bol’šoj la leggenda orientale Lejli e Medznun (1964).

Gaslini

Giorgio Gaslini fonde la musica popolare con la musica colta contemporanea e con la prassi improvvisativa jazzistica, approdando ad una ‘musica totale’, intesa come coesistenza di vari linguaggi musicali e di mezzi espressivi diversi (musica, teatro, danza). Collabora agli inizi degli anni ’50 con F. Carpi per l’allestimento del Giulio Cesare di Shakespeare, regia di Strehler. Ha composto numerose musiche di scena, per Pantalone mercante fallito , di Goldoni (G. De Bosio, 1955), Macbeth di Shakespeare (T. Buazzelli, 1974), Il padre di Strindberg (G. Lavia, 1979), La Gioconda di D’Annunzio (regia di G. Albertazzi) e per il regista Chérif, con le scenografie di A. Pomodoro per le opere I paraventi di J. Genet (1993), I drammi marini di Ibsen (1995), Nella solitudine dei campi di cotone , di J. M. Koltés (1996), La tempesta di Shakespeare (1998). Ha inoltre scritto le opere Un quarto di vita (1968) e Mister O (1996), il primo `melodramma jazz’ nella storia della musica. Ha scritto musiche per balletti, tra cui Drakon, coreografie di U. Dallara (1971), Contagio di M. Pistoni, per sei anni in cartellone alla Scala, Carmen Graffiti (1996), coreografie di F. Sedeno, con I. Seabra, e Sprint (1998), di L. Spinatelli. Ha composto anche musiche per film, tra i quali Un amore, (1965) di D. Buzzati, Kleinhof Hotel , di C. Lizzani (1977), La notte di M. Antonioni (Nastro d’argento1961) e Profondo Rosso di D. Argento (1975).

Grock

Considerato fra i maggiori clown del secolo. Grock non proviene da famiglia circense e inizia la sua vita nomade esibendosi in piccoli circhi o feste di piazza e specializzandosi in discipline quali funambolismo e contorsionismo. Dimostra una spiccata predisposizione per gli strumenti musicali, che riesce a suonare in gran varietà: pianoforte, violino, chitarra, clarinetto, sassofono, fisarmonica, trombone e concertina. Prende il nome di G. quando, in un duo di comici chiamato Brick e Brock, deve subentrare al secondo. Per la prima parte della propria carriera è un augusto in coppia con validi clown bianchi, del calibro di Antonet, ma la sua fama deriva dalla successiva carriera di solista, tutt’al più appoggiato dalla classica figura del direttore di pista o di scena (fra i quali Max van Emden e Alfred Schatz). La sua maschera è fra le più note e fra le meno imitate del secolo a riprova della propria grande personalità: cranio ovale, liscio e pelato, naso con una punta di rosso, largo sorriso disegnato sul viso bianco. Il costume una palandrana larghissima sopra un paio di pantaloni anche questi abbondanti e a una camicia bianca disordinata con un piccolo papillon, scarpe enormi e piatte.

La sua grandezza deriva probabilmente proprio dall’aver deviato dalle tipologie tradizionali della clownerie dell’epoca affermando uno stile proprio, con grande rilevanza della parte musicale. Il suo numero, che nell’ossatura rimane uguale per oltre quarant’anni, può durare sino a 50 minuti ed è composto da piccole variazioni su temi che egli stesso avvia, quasi una partitura jazz piuttosto che una vera e propria drammaturgia. Il proprio repertorio di gesti è vastissimo, la voce estremamente flessibile e modulabile. Una volta affermato il proprio successo vive lontano dal mondo del circo itinerante, esibendosi esclusivamente nei grandi circhi stabili come il Medrano di Parigi o nei più importanti teatri di varietà dell’epoca, in tutta Europa, Sud America e Australia. Minor successo ottiene in Italia, Spagna e Usa. È comunque conosciuto e apprezzato da reali e governanti di tutta Europa, oltre che da noti uomini di cultura e dello spettacolo del proprio tempo, fra i quali Chaplin. Uno dei pochi clown ad aver vissuto nello sfarzo, nel 1930 si stabilisce, con la moglie italiana Ines Ospiri, in una stupenda e costosissima villa a Imperia. Nel 1951 crea un proprio circo itinerante che si esibisce in alcune città europee con alterna fortuna. Termina la propria carriera il 31 ottobre 1954 ad Amburgo con grande attenzione dei mass media. Da allora fa solo alcune apparizioni in programmi televisivi italiani.

grottesco,

La stagione del teatro del grottesco va dal 1916 al ’19 e comprende opere di maggiore e minore esito artistico, quali Così è (se vi pare) e Il gioco delle parti (1917) di Pirandello, La scala di seta di Chiarelli (1917), Marionette, che passione! (1918) di Rosso di San Secondo, L’uomo che incontrò se stesso (1918) di Luigi Antonelli, L’uccello del paradiso (1919) di Enrico Cavacchioli. Sulla suggestione della teoria pirandelliana espressa nel saggio sull’ Umorismo , la drammaturgia del g. costruisce situazioni tipiche della pièce bien faite del teatro borghese, ma ne rappresenta le relazioni sociali e i conflitti morali come un gioco di forme insieme patetico e comico, in cui si dibattono personaggi-maschera. Tra questi centrale è il raisonneur , vero portavoce del riso amaro dell’autore e del disincanto con cui questi sottopone a una critica corrosiva sia le convenzioni sociali sia quelle teatrali – del dramma naturalista – della sua epoca. Al successo di questi autori contribuì in modo significativo una generazione di attori (Talli) sensibile a un rinnovamento espressivo delle convenzioni rappresentative del teatro italiano coevo.

Golovin

Sia nelle tele sia negli immensi pannelli scenici mostrò la sua tendenza al decorativismo e all’intensa espressività del colore. Allievo di Levitan, assorbì la lezione dell’impressionismo, riscontrabile già nelle prime scenografie ( La casa di ghiaccio di Korešcenko, 1900). Dal 1901 fu lo scenografo dei Teatri imperiali di Pietroburgo. Dal 1908 al ’17 realizzò scenografie per Mejerchol’d, nelle quali sperimentò la possibilità di annullare il più possibile lo spazio fra la scena e la platea, giovandosi di fondali che uscivano dallo spazio della ribalta. Dopo la rivoluzione allestì scenografie per opere di Gluck e Stravinskij. Passò in seguito al MCHAT, dove recuperò i principi del realismo per adeguarsi alle esigenze di Stanislavskij.

Galante

Ginnasta, inizia gli studi di danza classica all’Accademia nazionale di danza a Roma nel 1977 per passare, due anni dopo, al centro Mudra di Bruxelles. Nel 1980 entra nel Béjart Ballet Lausanne e qui danza in breve tempo le parti principali di tutti i titoli del repertorio ( Bolero , Le sacre , Ce que l’amour me dit ), diventando una delle interpreti favorite di Béjart, che per la sua enigmatica personalità crea i ruoli di Cosima Wagner in Dyonisos (1984), Leah in Dibbuk (1988), Sieglinde in Der Ring (1990). Rientrata in Italia nel 1992, danza come ospite di varie formazioni e si dedica anche alla coreografia ( Gaitè inconsolable , Masticando suenos, Omaggio a Béjart ).

Guerrieri

A vent’anni, studente a Roma, entra in contatto con i Guf, organizzazioni teatrali universitarie volute dal fascismo; collabora con riviste come “Roma fascista” e “Scenario” e allestisce i primi spettacoli da regista: Felice viaggio di Wilder (1940), Leonce e Lena di Büchner (1941) e Tempesta e assalto (1941). In un momento di fermento culturale, affiancato da R. Jacobbi e V. Pandolfi, G. diventa vicedirettore del Teatro delle Arti di Bragaglia, dove allestisce La donna di nessuno di C.V. Lodovici e Frana allo Scalo nord di Betti. Negli anni seguenti, attivo collaboratore dell’ Enciclopedia dello Spettacolo , diretta da S. D’Amico, scrive su “L’Unità” come critico teatrale e collabora con importanti riviste: “Dramma”, “Letteratura contemporanea”, “Lo spettatore italiano” e poi, negli anni ’60 e ’70, con “Il Giorno”. Collabora alla regia e alla sceneggiatura di Ladri di biciclette e Sciuscià , di De Sica, frequentando assiduamente Zavattini. Entra, quindi, a far parte della compagnia di Visconti, in veste di traduttore, drammaturgo e consulente, continuando la sua attività di regista. Nel 1957 fonda, con Anne D’Arbeloff, il Teatro Club che porterà per la prima volta in Italia il Living Theatre, E. Barba, A. Vitez, P. Brook. Costante la sua attività di traduttore di teatro americano e russo, e di studioso del teatro italiano dell’Ottocento, con particolare dedizione, poi, per la figura di E. Duse. Di carattere estremamente sensibile, afflitto da depressione, G. si toglie la vita nel 1986.

Guarnieri

Anna Maria Guarnieri studia alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha un debutto acclamatissimo con Quando la luna è blu di F. H. Herbert diretta da Luigi Cimara (1954). Entra in quello stesso anno a far parte della Compagnia dei Giovani, con la quale lavorerà fino al 1962, segnando i suoi primi grandi successi, sia interpretando la graziosa civetteria della Gigi di Colette sia incarnando la drammatica esperienza della protagonista del Diario di Anna Frank (1956), spettacolo replicato centinaia di volte nelle tre stagioni successive. Uscita dalla storica formazione, lavora con i grandi nomi della regia italiana divenendo una delle più importanti presenze della nostra scena con un preciso stile recitativo, acuto e nitido, capace di rendere i vari registri umani e drammaturgici dei tanti e diversi personaggi femminili interpretati. Nella stagione 1963-64 affronta le figure shakespeariane di Ofelia e di Giulietta diretta da Zeffirelli, con il quale allestirà anche La lupa di Verga con Anna Magnani protagonista.

Dal 1972 lavora con Mario Missiroli passando da La locandiera e La trilogia della villeggiatura di Goldoni a La signorina Giulia o a Verso Damasco di Strindberg, allo Zio Vanja di Cechov, a Pirandello con I giganti della montagna e Vestire gli ignudi. Nel 1983 inizia la sua collaborazione con Luca Ronconi, passando da Fedra di Racine a Le false confidenze di Marivaux a La serva amorosa di Goldoni e partecipando al grandioso allestimento mobile di Gli ultimi giorni dell’umanità di K. Kraus e all’intenso monologo La gabbia , tratto da un racconto di H. James. Nel 1992 costruisce un sottile ritratto femminile in Mademoiselle Molière , trascrizione scenica curata da Enzo Siciliano delle pagine dedicate da Giovanni Macchia alla figlia del drammaturgo francese. Di grande rilievo i lavori realizzati con Massimo Castri a metà degli anni ’90: è Clitennestra in Elettra di Euripide e interpreta Ifigenia in Tauride di Euripide e La ragione degli altri di Pirandello. In televisione guadagna una grande popolarità con gli sceneggiati degli anni ’60: La cittadella , E le stelle stanno a guardare di Cronin, David Copperfield di C. Dickens, tutti con la regia di A. G. Maiano. Al cinema lavora con Bolognini in Giovani mariti , con E. Muzii in Come l’amore e con Pasquale Festa Campanile in Una vertigine per il principe.

Garrone

Riccardo Garrone frequenta l’Accademia d’arte drammatica ‘S. D’Amico’ nel 1949 e inizia a lavorare in Teatro l’anno dopo con la compagnia Gassman-Torrieri-Zareschi. Dopo un girovagare per diverse compagnie approda alla compagnia del Teatro Parioli di D. Verde dove inizia la sua carriera in ruoli brillanti, che prosegue al teatro Sistina dal 1984 fino al 1987. Seguirà, dal 1987 al 1991, la collaborazione con la compagnia di Antonella Steni; per tornare al Sistina in Aggiungi un posto a tavola . È molto intensa e significativa la sua attività cinematografica, soprattutto in ruoli di caratterista di primo piano; recita in 150 film con i più importanti registi italiani: Il bidone e La dolce vita (il proprietario delle casa dove si tiene l’orgia) di Fellini, Venezia la luna e tu di D. Risi, L’audace colpo dei soliti ignoti di N. Loy, Il successo di Risi.

Gigi

Roncato; Bologna 1947), attori. Dopo un apprendistato di marca cabarettistica a Bologna, il duo ha frequentato prevalentemente il palcoscenico televisivo, raggiungendo una non rapidissima ma interessante notorietà. Tradizionali nei tempi comici, nel `telefonare’ le battute e nella struttura dei caratteri – A. come maschera del vitellone da spiaggia romagnolo e irresponsabile, costantemente accecato dal sesso; G. come spalla temperata, adulta e sicuramente più ipocrita – i due sono stati dapprima adottati da Mediaset (conduzione di Premiatissima , 1983; Festival , 1986; la fiction Don Tonino , 1990), passando poi alla Rai con Luna di miele (1992). Poco tempo dopo il duo si è sciolto. Tra i loro film, di qualità non certo eccelsa, Se tutto va bene siamo rovinati (1986).

Gatti

Trasferisce nella sua attività teatrale l’intenso impegno politico e sociale che ha caratterizzato la sua prima giovinezza. Egli è infatti parte attiva nella difesa di molte cause civili, combattute anche sulla scena con opere come La vita immaginaria del netturbino Augusto G. (La vie imaginaire de l’éboueur Auguste Geai, 1962), Le Quetzal (1960) o La passion du général Franco (1968). Nell’opinione di G. chiunque sia morto per difendere un ideale di giustizia sociale ha il diritto di essere ricordato: funzione prima del teatro è dunque quella di perpetuare azioni e pensieri di lotta. Attivo durante la Resistenza, G. è stato deportato in un campo di concentramento: l’esperienza si esprime pienamente ne L’enfant-rat (1960) e in Deuxième existence du champ de Tatenberg (1962), soprattutto attraverso la rottura della temporalità tradizionale e nel tentativo di fondere – nella successione delle diverse sequenze e nell’uso stesso del linguaggio – passato, presente e futuro.

Grillo

Beppe Grillo scopre il proprio talento nella sua città, debuttando all’Instabile cabaret aperto da Luigi De Lucchima alla fine degli anni ’60, ma è a Milano che trova il successo, grazie a un provino di fronte a una commissione Rai. Le sue armi sono, oltre a una notevole dose di intelligenza e grinta, un’ottima mimica e soprattutto la grande arte dell’improvvisazione. In grado di sconvolgere ogni canone televisivo e ogni schema professionale, l’attore raggiunge ben presto il top della popolarità. Con una comicità graffiante, sempre lucida e puntuale, Grillo è un ironico fustigatore di usi, costumi e consumi. La satira dell’attore, sempre più pungente e corrosiva, affronta temi scottanti di carattere politico e sociale che ben presto trasformano i monologhi dell’attore in veri e propri atti di pubblica denuncia. Con superbe doti di grande comunicatore, Grillo è anche autore e sceneggiatore al fianco di S. Benni (nello sfortunato Topo Galileo diretto da Laudadio rappresenta l’Italia al festival di Rio de Janeiro). Nel 1990, anno del divorzio con la tv, l’attore si dedica di nuovo al teatro con Buone Notizie, un notevole successo di critica e pubblico. Inventore della satira ecologica, l’attore torna dopo due anni sul palcoscenico con il suo nuovo recital che ha come bersagli della sua irrefrenabile e sempre divertente ironia non solo i politici, ma la gente comune con il suo irresponsabile atteggiamento soprattutto nei confronti dell’ambiente. I suoi spettacoli rigorosamente dal vivo, vedono raccogliere sempre più consenso da parte del pubblico (nel 1995 in quaranta città italiane gli spettatori sono più di 400.000). Mentre il suo nuovo recital spettacolo viene addirittura trasmesso da alcune reti televisive svizzere e tedesche, la Rai ne annulla, invece, la già prevista messa in onda.

Graham

Figlia di un medico specializzato in malattie mentali, Martha Graham trascorse l’infanzia nella cupa Allegheny per poi trasferirsi con la famiglia nella solare California, terra ancora ricca di folclore messicano e di cerimonie multirazziali autoctone che ebbe modo di vedere e che influenzarono profondamente la sua danza, specie nel periodo creativo cosiddetto ‘pionieristico’. La sua formazione coreutica avvenne alla Denishawn School di Los Angeles, diretta da Ruth St. Denis, la sua prima musa ispiratrice che vide danzare nel 1911, e Ted Shawn che per lei creò, l’assolo Xochtil (1919), una danza ispirata alla cultura azteca, ufficiale debutto della sua carriera di danzatrice durata cinquantatre anni (il ritiro dalle scene avvenne il 20 aprile 1969). Entrata nelle file dei Denishawn Dancers, vi rimase sino al 1923, apprendendo vari stili di danza influenzati dai generi orientali e le teorie di François Delsarte. Dopo essersi esibita per un breve periodo con il Greenwich Village Follies, preferì approfondire una sua personale ricerca sulle possibilità cinetiche del movimento in relazione alle motivazioni psicologiche (leitmotiv di tutta la sua coreografia), creando, a partire dal 1926, una serie di assolo di cui fu interprete, culminanti in Lamentation (1930), su musica di Zoltán Kodály. Vi emergevano sia i residui della sua prima formazione che le suggestioni dei danzatori tedeschi Harald Kreutzberg e Mary Wigman, ammirati durante le loro prime esibizioni americane.

Tenace oppositrice della ‘danse d’école’, accettò di interpretare, nel 1930, il ruolo dell’Eletta nella stravinskiana Sagra della primavera di un coreografo di formazione accademica, Léonide Massine. Ma fu uno dei pochi episodi contraddittori in una carriera tutta volta a rimarcare la necessità di una danza nuova: grazie alle sue coreografie edificò un vocabolario proprio – la cosiddetta `tecnica Graham’ – ricco di movimenti altamente drammatici e spiraliformi, da eseguire a piedi nudi, in parte complementari, nella loro tensione verso il suolo, alla verticalità del balletto, in parte ad esso affini. Contrariamente a quanto si pensa, però, l’artista non ebbe come scopo l’affermazione di un nuovo codice coreutico ma soprattutto della sua personale poetica ed estetica di cui quella tecnica – messa a punto soprattutto dai futuri insegnanti della Martha Graham School of Contemporary Dance, fondata nel 1927 – fu strumento cangiante e operativo. In Heretic (1929), la sua prima coreografia di gruppo, intessuta sulla melodia ripetitiva di un canto bretone, si esibì con il Dance Group (la compagnia tutta femminile con la quale avrebbe lavorato sino al 1938), espressione del suo ribellismo nei confronti della società puritana discriminatrice della donna e ideale strumento del suo primo periodo creativo, cosiddetto dei `long woolens’, i lunghi abiti tubolari di maglia indossati dalle sue ballerine. Un altro assolo, Frontier (1935), che formalizzò la sua intensa collaborazione con il musicista Louis Horst e avviò la duratura partnership artistica con lo scultore giapponese Isamu Noguchi, diede inizio al suo periodo `americano’ o `nazionalistico’, culminante in Appalachian Spring (1944), su musica di Aaron Copland.

Negli anni ’40 la Martha Graham Dance Company era ormai una realtà molto lontana dal Dance Group. Oltre ad aver accolto interpreti maschili, tra cui Erik Hawkins che G. sposò nel 1948 – l’anno di nascita del solare capolavoro Diversion of Angels – ma dal quale si separò, dolorosamente, due anni dopo o Merce Cunningham, travolgente interprete di Every Soul is a Circus (1939), fu anche una delle prime compagnie americane ad accogliere danzatori di colore. Donna dal temperamento indomito e risoluto, G. continuò a esprimere il suo femminismo in Letter to the World (1940), ispirato alla vita della poetessa Emily Dickinson, e in Deaths and Entrances (1943), opere successive a quelle d’impegno politico, antimilitarista e pacifista come Chronicle (1936). Con Dark Meadow, Cave of the Heart, Errand into the Maze e Night Journey , creati tra il 1946 e il ’47, ha ufficialmente inizio il suo terzo periodo creativo, quello psicoanalitico. Ma già nel duetto Herodiade (1944), su musica di Paul Hindemith, l’artista si era inoltrata in un tormentato viaggio nei meandri della psiche e dell’inconscio. Sulle orme dell’esperienza paterna, ma ormai soprattutto influenzata da Freud e Jung e convinta, secondo gli insegnamenti platonici, che la mitologia esprimesse la dimensione psicologica dell’antichità, estese la sua ricerca agli archetipi tragici e biblici in Clytemnestra (1958), Alcestis (1960), Phaedra (1961), Circe (1963), Judith (1980), sino a Phaedra’s Dream (1983), su musica di George Crumb. Negli anni ’50 fu definitivamente riconosciuta come protagonista di spicco della cultura americana (nel 1959 firmò con il massimo esponente del neoclassicismo, George Balanchine, il balletto Episodes ) e la sua compagnia cominciò a farsi conoscere anche in Europa (debuttò in Italia nel 1954). La sua operatività non conobbe che rare pause e il suo repertorio si arricchì tra gli anni ’60 e ’80 di nuove opere, ispirate al mito e alla poesia, come Mendicants of Evening (1973), Myth of Voyage (1973), Lucifer (1975), i cui ruoli principali furono interpretati da Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev, e soprattutto Acts of Light (1981), The Rite of Spring (1984) e l’ironico testamento, su musica di Scott Joplin, Maple Leaf Rag (1990). Nell’autobiografia Blood Memory (New York 1991)

La Graham rivela di aver riversato nella danza le passioni e i tormenti della sua lunga esistenza, e di aver vissuto nella consapevolezza di essere stata prescelta a svolgere la sua missione di danzatrice e coreografa: una parabola creativa che infatti l’apparenta alle grandi e longeve figure dei maggiori artisti del secolo come Stravinskij e Picasso, e avvolge e riflette quasi un secolo di `positivismo’ americano. Dalla democratica scoperta delle varie e ricche realtà etniche del Paese all’orgoglioso pionierismo, dall’acquisizione e rielaborazione delle scienze psicoanalitiche di derivazione europea all’affermazione di una cultura specificamente americana, basata sul sogno di un nuovo umanesimo, la sua arte è a un tempo espressionista e simbolista e in essa la tensione formale ha un peso altrettanto importante della spinta drammatica e interiore. Anche per questo il suo lascito (circa duecento coreografie) ha una statura ormai classica e riproducibile da compagnie di danza che non siano quella che porta ancora oggi il suo nome.

Ganz

Dedicatosi presto agli studi di recitazione, nel 1964 Bruno Ganz si trasferisce a Brema dove entra a far parte di un gruppo di giovani promettenti (tra cui P. Stein) seguito da Kurt Hubner e Peter Zadek. Nel 1965 interpreta Amleto sotto la guida di Hubner. Durante il periodo della contestazione, insieme al gruppo di Brema, rifugge la vita del teatro stabile spostandosi così in diverse città. Si stabilisce a Berlino dove, nel 1970, fonda con P. Stein la compagnia della Schaubühne che adotta un sistema anti-gerarchico nella produzione degli spettacoli. Insieme alla compagnia è interprete di diversi allestimenti: La madre di Gor’kij (1970), Peer Gynt di Ibsen (1971), Il principe di Homburg di Kleist (1972). Nel 1974, all’interno del Progetto sugli antichi. Esercizi per attori ideato da P. Stein e M. Grüber, recita ne Le baccanti di Euripide e, l’anno seguente, in Empedocle di Hölderlin entrambi per la regia di Grüber. Successivamente sospende l’attività teatrale per dedicarsi interamente al cinema. Riappare sulle scene nel 1982, quando Grüber lo invita a tornare nella Schaubühne per interpretare una storica edizione di Amleto. Si dedica quindi, nuovamente, agli impegni teatrali recitando in Parco di Botho Strauss (1984) per la regia di P. Stein e in Prometeo incatenato di Eschilo (1986) sotto la guida di Grüber. Nel 1996 gli viene conferito l’Iffland-Ring. Della sua intensa attività cinematografica ricordiamo i lavori con Rohmer (La marchesa von O. , 1976); con Herzog (Nosferatu, 1979); con G. Bertolucci (Oggetti smarriti, 1980); con Wenders (L’amico americano, 1977; Il cielo sopra Berlino, 1987).

Guida

Si impone nel filone sexy del cinema italiano degli anni ’70 con il ruolo della giovane ninfetta disinibita, che provoca intenzionalmente l’uomo maturo. Dopo una serie di pellicole di serie B di cui è protagonista, Garinei la chiama a lavorare per la prima volta in teatro e le affida il personaggio della bellissima Leila nella commedia musicale Accendiamo la lampada (1979), accanto a J. Dorelli, dove le spettano anche canzoni da solista come “Non sono Sherazade”, “Come è bella la vita”, e “Filo, filo”, tutte composte da A. Trovaioli.

Ghiglia

Lorenzo Ghiglia esordisce al Teatro delle Novità con Il Prof. King di B. Rigacci (regia E. Rugoni, Bergamo, 1956), dimostrando una spiccata predilezione per soluzioni sintetiche a impianto fisso. Dedicandosi al balletto e all’opera, lavora a Napoli, a Venezia, a Catania e a Milano, dove conosce alla Piccola Scala F. Enriquez, con il quale realizza una nutrita serie di spettacoli (tra cui La Bohème di Puccini, 1960-61e Il Trovatore di Verdi, 1962-63). Le sue scenografie inventano dimensioni fantastiche, preferendo realizzazioni senza precisi riferimenti storico – ambientali, come il fortunato Candido di R. Guicciardini da Voltaire (1972), che conferma la collaborazione con il regista, proseguita per Suor Angelica (Milano, Teatro alla Scala 1972-73); Antonio e Cleopatra di W. Shakespeare (Vicenza, Teatro Olimpico, 1977); Le Troiane di Euripide (Catania, Teatro Verga, 1981); Porcile di P.P. Pasolini (Roma, Teatro dell’Orologio, 1989)e il più recente Empedocle di F. Holderlin (Segesta, Teatro Antico, 1993). Altre figure importanti sono A. Piccardi ( Ifigenia in Aulide di Euripide, Borgio Verezzi, 1992; La strana coppia di N. Simon, Torino, Teatro Erba, 1993; Il caso Notarbartolo di F. Arriva, Catania, Teatro Verga, 1994) e A. Martini, con la quale realizza anche i suoi ultimi lavori, come i felici Soldati a Ingolstad e Purgatorio a Ingolstad di M. Fleisser (Roma, Teatro dell’Orologio, 1992; Borgio Verezzi, 1994), e Letteratura di A. Schnitzler (Roma, Giardini della Filarmonica, 1995).

Guthrie

Nel 1926-27 Tyrone Guthrie è stato regista degli Scottish Nation Players; ha partecipato attivamente al festival di Cambridge con alcuni allestimenti (1929) e nel 1931 ha presentato L’anatomista di Bridie. È stato a più riprese regista dell’Old Vic (1933-34; 1936-37; 1951-52). Eccentrico e geniale, è uno dei pochi registi che ha saputo imporre la propria personalità agli spettacoli, comunicando un forte magnetismo agli attori. Durante la guerra è stato direttore del Sadler’s Wells Opera, oggi English National Opera. Nel 1947 ha inaugurato il festival di Edimburgo con King John di Bale. Fondatore del festival shakespeariano di Stratford nell’Ontario, G. ha dedicato la sua carriera alla messa in scena delle opere di Shakespeare e degli elisabettiani, seguendo tecniche sperimentali e innovative.

Gelber

Nel 1959 Jack Gelber fece rappresentare dal Living Theatre, che ne trasse uno dei suoi migliori spettacoli (e il primo con il quale si fece ammirare in Europa), un testo dal titolo Il contatto (The Connection), su un gruppo di tossicodipendenti in attesa dell’uomo che dovrà portar loro la `roba’. Fu un evento di grande importanza, anche perché introduceva tutta una serie di tecniche tipiche del teatro d’avanguardia dell’epoca, dall’uso sistematico delle improvvisazioni al coinvolgimento provocatorio del pubblico. G. scrisse poi altri drammi (fra i quali The Apple , 1961, ancora per il Living) e fece anche il regista.

Giacosa

Giuseppe Giacosa iniziò la sua attività di drammaturgo a ventisei anni, quando presentò al pubblico La partita a scacchi , che fu poi recitata, con grande successo, da Adelaide Tessero. Nel 1887 assunse la direzione della scuola di recitazione dell’Accademia dei Filodrammatici. Nel 1888 ebbe il suo primo grande successo con Tristi amori , che può considerarsi il risultato ultimo di una serie di testi che avevano caratterizzato la sua avventura teatrale: Affari di banca (1873); Figli del marchese Arturo (1874); Sorprese notturne (1875); Trionfo d’amore (1875); Teresa (1875); Acquazzoni in montagna (1876); Il marito amante della moglie (1877); Il fratello d’armi (1878); Gli annoiati (1879); Luisa (1880); Il conte rosso (1881); La scuola del matrimonio (1883); La zampa del gatto (1884); L’onorevole Ercole Melladri (1886); Resa a discrezione (1887); La tardi ravveduta (1887); La signora Challant (1894); Diritti dell’anima (1894); Come le foglie (1900); Il più forte (1904). Come librettista ricordiamo: La bohéme , Tosca, Madama Butterfly, scritti per Puccini. Nel panorama teatrale italiano, l’opera di Giacosa segna il passaggio dalla drammaturgia tardoromantica a quella del realismo borghese, che guardava soprattutto a Ibsen, ma con risultati alquanto inferiori. Forse Tristi amori e Come le foglie (certamente i suoi capolavori) ebbero più presente le istanze naturaliste francesi, soprattutto per il triangolo denaro-amore-onore che G. sviluppa ora con l’occhio al teatro intimista, ora con una certa attenzione al `teatro da camera’. Come le foglie è, ancora oggi, una commedia di sicuro successo, specie se affidata a una compagnia di complesso. Il teatro di Giacosa, in tempi recenti, ha interessato studiosi come Roberto Alonge e Anna Barsotti, quest’ultima gli ha dedicato una monografia (1973). L’analisi specifica sulle opere ha certamente aperto delle nuove prospettive evidenziando, sempre più, il rapporto tra natura e società, ovvero tra ‘ideale’ e ‘reale’; tra piccola e grande drammaturgia. L’attenzione, pertanto, si è spostata verso il significato di ‘crisi’ di fine ‘800, e sui modi in cui il drammaturgo è riuscito a portarla sulla scena, non solo assecondando e, nello stesso tempo, stravolgendo certi dogmi morali, ma intervenendo sulla stessa struttura del dramma, limitandone l’azione reale (la vicenda) e rivalutando l’azione scenica. Certamente Tristi amori e, successivamente, Come le foglie, costituiscono un momento di rottura nella storia della drammaturgia italiana.

Green

Di fede attolica profondamente influenzato dal senso di mistero trasmesso da tanta parte della cultura simbolista sulla quale si è formato, Julien Green trasfonde nella sua produzione teatrale la convinzione che gli uomini siano «i personaggi di un romanzo di cui non sempre riescono a capire il senso». Attraverso la scrittura, sia di romanzi che di opere per il teatro, Green si propone a sua volta di «trovare un senso»: segnale di questo percorso di ricerca sono le tre pièces Sud (1953), L’ennemi (1954), e L’ombre (1956). Di origine americana, Green appare ossessionato dal tema dello `straniero’, un individuo venuto dall’esterno a rompere un precario equilibrio, cui si accosta il tema-problema della ‘rivelazione’, ovvero l’impossibilità di `dire’, di rivelare un segreto. Due temi, questi, che trovano nel suo teatro una realizzazione evocativa e ricca di suggestione.

Gallacher

Debutta nel 1969 al Citizens’ Theatre di Glasgow con La nostra cortesia per cinque persone (Our Kindness to Five Persons). Si afferma negli anni ’70 con drammi esplicitamente legati alla filosofia: Kierkegaard compare in diversi suoi lavori e in particolare come influenza critica sul protagonista di Revival! (1972), e successivamente nelle vesti di personaggio in La parola d’onore di Don Juan (The Parole of Don Juan, 1981). Influenzato dalla metafisica di Hegel e dal pensiero di Koestler, G. costruisce personaggi dal forte egoismo: in Il signor Joyce lascia Parigi (Mr Joyce is Leaving Paris, 1970) propone un individuo tagliato fuori dal mondo, che si rifiuta di assumersi la responsabilità degli effetti delle sue azioni sugli altri. Dopo la sua rivisitazione de La tempesta di Shakespeare, dal titolo La metamorfosi del mare (The Sea Change, 1976), G. si è dedicato alla traduzione (in lingua inglese) di autori moderni, arricchendo il repertorio dei teatri scozzesi: Cyrano de Bergerac (1977), Il padre di Strindberg (1980); e di Ibsen Un nemico del popolo (1979), Casa di bambola (1980), L’anitra selvatica (1987).

Globe Theatre

Il Globe Theatre è il teatro più famoso dei tempi di Shakespeare ha riaperto i battenti a Londra negli anni ’90. L’idea di ricostruire il teatro è dell’attore americano S. Wanamaker (morto nel 1993, prima della conclusione dei lavori) e nasce in occasione di un viaggio a Londra nel 1949. A partire dalle scarse memorie che ne restavano (nelle descrizioni e in qualche veduta panoramica) nel 1997 il teatro shakespeariano del quartiere di Southwark viene ricostruito esattamente uguale al celebre Globe Theatre: pianta rotonda, struttura portante in legno di quercia, sabbia e calce, tetto di canne e paglia; l’unica differenza è che il nuovo teatro londinese può ospitare fino a 1500 spettatori, la metà di quelli che accoglieva un tempo il Globe Theatre. Il vero debutto teatrale è previsto nel ’98, a quattrocento anni esatti dalla sua costruzione, anche se l’inaugurazione è avvenuta nel 1996 con I due gentiluomini di Verona , e altri spettacoli sono andati in scena durante il 1997. Secondo il progetto del direttore Mark Rylance il nuovo teatro dovrebbe ricreare il clima festoso originario in cui venivano allestite le opere di Shakespeare e vorrebbe rappresentare una fonte di ispirazione per i nuovi autori.

Guérin

Dopo aver compiuto i suoi studi all’Opéra di Parigi, è entrata nella compagnia del teatro compiendovi una luminosa carriera. Prima ballerina nel 1984, l’anno successivo è nominata étoile dopo una interpretazione di grande smalto di Il lago dei cigni nella versione di Bourmeister. Interprete di bella sensibilità e dotata di grandi qualità tecniche è sovente partner di Laurent Hilaire. Il suo repertorio spazia dal classico al contemporaneo. Rilevante la sua prestazione in Casanova di Preljocaj (Opéra, marzo 1998).

Grechi

Lorenzo Grechi frequenta nel 1952 l’Accademia dei filodrammatici di Milano. Dopo un periodo trascorso presso il Piccolo Teatro di Milano, nel 1971 fonda, con Riccardo Pradella, Davide Calonghi e Miriam Crotti, la Compagnia stabile del Teatro Filodrammatici, che propone un repertorio basato sulla drammaturgia italiana contemporanea. La sua ecletticità lo porta a esprimersi con successo anche nella regia. Tra le prove d’attore ricordiamo Corruzione al Palazzo di Giustizia di Betti (1975), Tre quarti di luna di Squarzina (1976), Matrimonio per concorso di Goldoni (1977), La mazurca blu di Fontana (1978). Come regista, e a volte anche interprete: Ma non è una cosa seria di Pirandello (1975), Giuditta di Terron (1977), Una strana quiete di Mainardi (1979), Il senatore Fox di Lunari. Attore di buon spessore drammatico, è purtroppo prematuramente scomparso.

Godani

Nel 1984 inizia gli studi con Loredana Rovagna, per poi entrare al Centro Mudra nel 1986. Dopo aver danzato nelle compagnie di Hervé Robbe e Jean François Duroure, dal 1991 è al Ballet Frankfurt dove collabora con W. Forsythe alla realizzazione di alcuni balletti ( Alien/action parti 1 e 3; Quintet; Eidos Telos parte 3), firmando come unico autore Sleepers Guts parte 3 (1996) e Skinks (1997). Come coreografo è invitato da altre formazioni tra cui il Rotterdamse Dans Groep (1998).

Georgiadis

Ha realizzato le sue migliori scenografie per il coreografo Kenneth MacMillan ( Dances concertantes , 1955; Romeo e Giulietta , 1965), per John Cranko ( Daphnis et Chloé , 1962) e Rudolf Nureyev ( La bella addormentata , 1966; Raymonda , 1972), prediligendo colori sfarzosi e forme complesse, fortemente influenzate dalla tradizione architettonica greco-ortodossa. Vari sono anche i suoi contributi al teatro d’opera (fin dal debutto con Aida ) e di prosa, sempre con la vitalità di una pittura decorativa che crea mosaici superbi, evitando la bidimensionalità della tela di fondo: i colori vivaci e le forme donano grande libertà di movimento agli attori e ai danzatori. Con il suo insegnamento alla Slade School di Londra ha influenzato un’intera generazione di scenografi, da Yolanda Sonnabend a Stefanos Lazaridis.

Giachetti

Si diploma all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ nel 1956, insieme a U. Orsini, G. Lojodice, F. Soleri, G.M. Volonté e M. Missiroli. È Maša in Tre sorelle al Teatro Eliseo di Roma (regia di G. De Lullo, 1964), la Signora Perella in L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello allo Stabile di Palermo a fianco di F. Parenti e L. Troisi; poi, dopo l’incendio doloso del teatro, passa allo Stabile di Bolzano. Nel 1985 recita in Terra sconosciuta di Schnitzler (regia di O. Krejca) e l’anno dopo è nel Faust di Goethe, nella versione curata da Dario Del Corno e diretta e interpretata da Glauco Mauri. Nel 1988 lavora con M. Scaparro nella messa in scena di Vita di Galilei di Brecht a fianco di P. Micol, e ancora con Mauri nell’allestimento del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Nel 1991 è Giocasta in Edipo di Renzo Rosso, versione psicoanalitica della tragedia classica diretta e interpretata da Micol, e l’anno dopo riscuote grande successo recitando ne I rusteghi di Goldoni con la regia di M. Castri. Durante l’edizione 1993 del festival di Borgio Verezzi recita ancora Goldoni ne Il ventaglio diretto da L. Squarzina. Più di recente ha lavorato al cinema in Albergo Roma (1996) di U. Chiti, Ritorno a casa Gori (1996) di A. Benvenuti e in televisione, nella fiction Trenta righe per un delitto (1997) che vedeva come protagonista L. Barbareschi.

Gulbenkian Ballet

Fondata a Lisbona nel 1965 dall’unione del Gruppo di balletto sperimentale e dal Centro di danza portoghese e sostenuta economicamente dalla Fondazione Calouste Gulbenkian, fino al 1969 Gulbenkian Ballet è diretta dal coreografo Walter Gore, cui seguono Milko Sparemblek (1969-75), un comitato artistico guidato da Jorge Garcia (1975-77), Jorge Salavisa (1978-1996) e dal 1996 Iracity Cardoso. Caratterizzata fin dalla sua creazione da un repertorio eclettico, basato sulla tecnica classica ma aperto alle varie tendenze della danza moderna, dalla iniziale programmazione di titoli dell’Ottocento ( Giselle , Coppélia ) e Novecento storico ( Le Carnaval di Fokine, Le Beau Danube di Massine) è passata alla proposta dei massimi autori del balletto contemporaneo quali H. Van Manen, J. Kylián, W. Forsythe, N. Christe, M. Ek, Ohad Naharin, favorendo anche la crescita artistica di coreografi portoghesi (Wasco Wellenkamp e Olga Roriz) e imponendosi come una delle più interessanti e versatili compagnie della scena europea.

Green

Nato nel North Carolina, scrisse soprattutto sui problemi del Sud, combattendo per tutta la vita i pregiudizi razziali della sua gente. I suoi testi più importanti furono Nel seno di Abramo (In Abraham’s Bosom, 1926), la tragedia di un insegnante mulatto il cui idealismo suscitava insieme la diffidenza dei neri e l’ostilità dei bianchi, e La casa dei Connelly (The House of Connelly, 1931), sull’incapacità di una famiglia di proprietari agricoli del Sud di adattarsi alle nuove condizioni sociali. Scrisse inoltre il libretto di un musical di K. Weill ( Johnny Johnson , 1936), una riduzione del romanzo Paura (Native Son, 1941) di R. Wright e una serie di `drammi sinfonici’ che ricostruivano su commissione, con dialoghi, musiche e danze, personaggi e vicende della storia degli Usa.