DV8

Fondata da Lloyd Newson a Londra (1986), la compagnia DV8 opera come collettivo artistico, associando di volta in volta ai propri progetti singole personalità creative, come Nigel Charnock e Wendy Houston. Dopo il debutto con My Sex, Our Dance , un duetto maschile di chiara ispirazione omosessuale, seguito da My Body, Your Body (1987), il nucleo iniziale si allarga per allestire Dead Dreams of Monochrome Men (1988), che trae spunto dalle pulsioni criminose di un maniaco sessuale, spettacolo scandaloso da cui viene realizzato anche un film (1989). Seguono If Only (1990), Strange Fish (1992), apologo sulla solitudine e l’amicizia con la presenza in scena di una danzatrice ultrasessantenne, visto anche a Genova nell’anno delle Colombiadi, Enter Achilles (1995) sul mondo di un gruppo tutto maschile, con le sue aggressività, provocazioni e fragilità, intorno a una bambola gonfiabile-feticcio, e Bound to Please (1997) sulla ossessiva coazione degli uomini a sedurre altri uomini. Parallelamente vengono realizzati il film Never Again (1989) e le trasposizioni per lo schermo di Strange Fish e Enter Achilles , premiate in tutti i più importanti concorsi internazionali di videodanza e supportate dalla Bbc, televisione pubblica inglese, tra accese polemiche. Per i suoi lavori, crudi ed espliciti, ma anche poetici e sinceri, il gruppo DV8, che si pronuncia in inglese come la parola deviati, preferisce parlare di teatro fisico, alludendo al rischio corporale e psicologico, che ne contraddistingue le scelte. Al di fuori dei periodi di attività in comune, ogni componente coreografa in proprio, in particolare Charnock e la Houston, autori di assoli danzati e parlati, presentati anche in Italia, rispettivamente ai Teatri di Vita di Bologna (1997) e al festival di Castiglioncello (1998).

Dorella

Frequenta la scuola di ballo del Teatro alla Scala dove si diploma nel 1969. Entrata in compagnia ne passa tutta la gerarchia, diventando solista nel 1972, prima ballerina nel 1977 ed étoile nel 1986. Qui danza alcuni ruoli del repertorio ottocentesco ( Giselle , Coppélia , Lo schiaccianoci ) e titoli del balletto narrativo contemporaneo ( Miss Julie di B. Cullberg, La bisbetica domata di J. Cranko, La strada di M. Pistoni, L’histoire de Manon di K. Mac Millan). Partecipa inoltre a produzioni di altri teatri italiani, tra le quali si ricordano Il diario di Anna Frank (coreografia di R. Fascilla, Verona 1983), e Tre sorelle (coreografie di G. Jancu, Bologna 1987). Contemporaneamente compare in numerosi varietà televisivi ( Sotto le Stelle , 1981; Fantastico , 1986), acquistando notevole popolarità grazie alla sua luminosa bellezza e vivacità. Lasciato il Teatro alla Scala nel 1994, torna in scena nel 1996 con La Marchesa Von O. di V. Biagi, cui fa seguito Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepùlveda, proposto al Piccolo Teatro di Milano con la regia di W. Pagliaro e le coreografie di G. Iancu (1997).

De Filippo

Titina De Filippo ha iniziato la sua attività con la compagnia di Eduardo Scarpetta, a fianco dei fratelli Eduardo e Peppino. I suoi interessi, nel tempo, si sono estesi ad altre attività, come quella della pittura e della scrittura teatrale, soprattutto in compagnia di Peppino, con il quale scrisse Quaranta, ma non li dimostra (1932), a cui seguirono: Amicizia ‘e frate (1929); Mariantonia e l’educazione (1929); Carlino si diverte (1930); Vih che m’ha combinato sorema (1930); La voce del sangue (1932); Una creatura senza difesa (1937, libero rifacimento dell’ Anniversario di Cechov). Nel 1929 sposò l’attore Pietro Carloni, dal cui matrimonio nacque il figlio Augusto, al quale, oltre che una monografia sulla madre, dobbiamo il recupero di tanto materiale raccolto nel Fondo Carloni e donato all’Università di Napoli. L’arte di Titina è nota per la sua immediatezza, oltre che per la naturalezza, qualità che l’accomunavano a Eduardo e Peppino. Anche Titina, come loro, non recitava, ma era tutt’uno col personaggio che interpretava. L’interpretazione di Filumena Marturano , anche grazie alla versione cinematografica, la rese famosa in tutto il mondo. A pochi, però, è nota la sua attività di scenografa, che mise a disposizione di Eduardo in spettacoli come Amicizia , I morti non fanno paura , Il successo del giorno . Debuttò nel cinema nel 1937, dove mostrò il medesimo talento che l’aveva fatta grande a teatro, e che la impegnò per un ventennio. Tra i film più noti a cui partecipò, si ricordano San Giovanni decollato (1942), Assunta Spina (1950), Napoli milionaria (1952), Marito e moglie (1952), Il tallone di Achille (1953), Non è vero… ma ci credo! (1953). Le sue ultime interpretazioni furono La fortuna di essere donna e I pappagalli (1956). Anche nel cinema, come in teatro, non nascose mai quel calore e quella partecipazione diretta che la resero inimitabile. In compagnia con Eduardo e Peppino, dovette spesso intervenire per riportare l’equilibrio indispensabile in una compagnia, dove è difficile controllare i grandi talenti.

D’Amico

Silvio D’Amico rappresenta uno dei cardini attorno al quale è nato il nuovo teatro italiano del Novecento. Critico attivissimo, inizia come ‘vice’ di D. Oliva nell’ottobre del 1914 alla redazione di “Idea Nazionale”; scrive, poi, su “La Tribuna”, il “Giornale d’Italia” e, dal 1945 al 1955, su “Il Tempo”. Tiene anche rubriche teatrali su diversi periodici: “La festa” (1923-28), “La fiera letteraria” (1925-26), “L’illustrazione italiana” (1947-48 e 1952-55), “L’approdo” (1952-54). Dal 1945 è titolare delle cronache drammatiche alla Rai, per la rubrica “Chi è di scena”, poi raccolte nel volume Palcoscenico del dopoguerra (1953). Figura completa di critico, Silvio D’Amico oltre che cronista è storico di raro acume, firmando un’imponente Storia del teatro drammatico (1939-40), e grande organizzatore culturale: a lui si deve, infatti, la fondazione della Accademia d’arte drammatica di Roma, prima scuola di recitazione e regia in Italia, che porta ora il suo nome (1935-38), e l’ideazione e direzione dell’ Enciclopedia dello Spettacolo , pubblicata in nove volumi tra il 1954 e il 1962 (con un decimo volume di aggiornamento, impresa ancora unica in ambito europeo. Particolarmente attento a quanto avveniva all’estero, in particolare Germania e Francia, Silvio D’Amico sin dagli inizi della carriera prende posizione per un rinnovamento radicale della scena italiana, che doveva porsi al livello delle altre arti e del resto d’Europa, introducendo, per la prima volta, l’idea di un ‘teatro di regia’. Dopo Il teatro dei fantocci (1920) in cui esamina i maggiori contemporanei, Shaw e Benavente, chiarisce la sua idea di teatro in Tramonto del grande attore (1929), dove si schiera apertamente contro la figura del mattatore, contro il nomadismo e il dilettantismo del teatro. Una riforma che concerne, quindi, soprattutto la scena, gli attori e i capocomici: già nel 1914 indica in Ermete Novelli la figura paradigmatica dei pregi e dei difetti degli attori italiani, mentre inneggia alla compagnia di Benini quale modello artistico e organizzativo, o a Ruggeri come attore di stile moderno. Con Silvio D’Amico si profilano, dunque, l’idea di regista e di teatro d’arte (come già in Pirandello e nel suo lavoro di capocomico dal 1925 al 1928), in scritti come La crisi del teatro (1931), Invito a teatro (1935, sui rapporti tra Stato e teatro), Il teatro non deve morire (1945) e Mettere in scena (1954). Capostipite di una famiglia di studiosi e critici, D’A., di profonda fede cattolica, è stato caloroso polemista: celebri le dispute con M. Praga sul teatro borghese e con A.G. Bragaglia, giudicato eccessivamente avanguardista.

Da Venezia

Ha esordito nel 1943 nella compagnia del Teatro Quirino di Roma ne Il Piccolo Eyolf di Ibsen. Lo stesso anno, con la compagnia del Teatro Eliseo di Roma, recitò in Hedda Gabler di Ibsen con la regia di Orazio Costa. Dopo una lunga parentesi di assenza dal palcoscenico è tornata al teatro nel 1949 in Oreste di Alfieri con il Piccolo Teatro di Roma e in Lotta fino all’alba di Ugo Betti. Si è imposta come l’interprete ideale di Betti, del quale ha interpretato anche Spiritismo nell’antica casa , La regina e gli insorti e Delitto all’isola delle capre . In seguito ha lavorato al Piccolo Teatro di Roma con il regista Orazio Costa in Edipo re di Sofocle, Invito al castello di Anouilh, Il poverello di Copeau (tutti nel 1950). Nel 1952, infine, è stata chiamata da Visconti per Tre sorelle di Cechov. Ha lavorato spesso per la radio e, negli ultimi anni, come doppiatrice.

Dunham

Laureata in antropologia, studia le danze di vari gruppi etnici in Brasile, ai Caraibi e ad Haiti. La sua attività di coreografa, a partire da queste ricerche, si rivolge alla danza come rito e alla danza nera come materia d’arte. Di qui creazioni come L’Ag’ya (1938), conflitto d’amore che sfocia in un duello ritmico scandito da percussioni, Rite of Passage (1941), sul passaggio dall’adolescenza alla vita adulta e Caribbean Rhapsody (1948), sulle radici africane della cultura haitiana nell’incontro con la cultura francese. Lavora a Broadway ( Cabin in the Sky , 1940) e a Hollywood per il cinema ( Carnival of Rhythm , 1942). Fonda e dirige una propria scuola a New York (1945-1955), focalizzando l’attenzione sulla isolation , cioè il movimento separato delle varie parti del corpo, tipico della danza afro. Ricopre incarichi prestigiosi, come consulente del Governo del Senegal e come direttrice del Performing Arts Training Center dell’Università dell’Illinois. È autrice del libro Las Danzas de Haiti (prefazione di Claude Lévi-Strauss, 1990).

D’Angelo

Iniziò la sua carriera lavorando come attore radiofonico e come doppiatore. Nel 1948-49 venne scritturato dal Piccolo Teatro di Milano; viene ricordato in particolar modo per le sue svariate interpretazioni del repertorio shakespeariano ( La dodicesima notte , 1954, con la regia di Renato Castellani; e Romeo e Giulietta per la regia di Guido Salvini) e dei classici greci ( Edipo re , Edipo a Colono , le Trachinie di Sofocle e Agamennone di Eschilo). Interpretò anche opere del teatro moderno (Ibsen, Miller, Eliot). Prese parte a numerosi sceneggiati televisivi come Jane Eyre (1957) e Canne al vento (1958).

Dalí

Salvador Dalì è legato per la sua attività artistica alle avanguardie degli anni ’20 e ’30 e in particolare al surrealismo. Dal 1929 sviluppa, nella sua pittura, un metodo paranoico-critico che associa le ossessioni dell’inconscio alle forme del reale, creando cosmologie fantastiche dalle molteplici letture, fondate sulla conoscenza delle associazioni simboliche freudiane. È ricordato nella storia del cinema per aver collaborato con Buñuel alla sceneggiatura di due film, Un Chien andalou (1929) e L’Age d’or (1930) e per aver composto la scenografia della sequenza del sogno in Io ti salverò (1945) di Hitchcock. Attivo anche nell’ambito del balletto, ha creato scene e costumi per la compagnia di Léonide Massine (Labyrinth , 1939) e per Béjart ( Le Chevalier romain et la dame espagnole , 1961). In campo teatrale ha collaborato con L. Visconti per scenografia e costumi di Come vi piace di Shakespeare (1948), con P. Brook per Salome di R. Strauss (1949) e con Escobar e Perez de la Ossa per Don Juan Tenório di J. Zorrilla y Moral.

Della Mea

Milanese d’adozione dal 1950, arriva alla musica fondamentalmente da autodidatta. Partecipa a spettacoli sulla canzone popolare, quali Bella ciao di R. Leydi e F. Crivelli (1964) e Ci ragiono e canto di D. Fo. Entra a far parte degli artisti dell’etichetta `I dischi del sole’, per la quale incide molti lp, tra cui Ringhera (1974), collezione di ballate milanesi, e Fiaba Grande (1975). Scrive la canzone “Cara moglie”, diventata uno degli inni del movimento di sinistra. È autore di spettacoli musical-teatrali: Sudadio Giudabestia (1980), Karlett (1982), dedicato a Karl Marx. È stato collaboratore del Nuovo canzoniere italiano. Le sue canzoni, molte delle quali in dialetto milanese (due per tutte: “El Navili”; e “El me gatt”;), si ispirano al mondo del proletariato e del sottoproletariato. Vanta anche un’esperienza nel cinema come aiuto-regista di Monicelli e come soggettista per uno spaghetti-western, nonché come attore. Ha al suo attivo anche due libri.

Duse

La sua produzione conta opere sia in italiano sia in dialetto veneto, dalle quali emerge un tentativo di sintesi tra la commedia realistica e quella caricaturale, dagli accenti moralistici. Compose nel 1926 Quelle oneste signore , ma il successo arrivò nel 1937 con Ladri . Fra le opere in lingua: Jou-Jou (1945), Il sei di gennaio (1947), Le zitelle di via Hydar (1949), Poker d’amore (1955), Sangue blu (1958). In vernacolo scrisse Quel sì famoso (o Temporale d’inverno , 1945), Carte in tavola (1951), Mato par le done (1954).

Del Frate

Dotata di voce calda e di talento interpretativo, diventa interprete assai apprezzata di motivi soprattutto napoletani. Tra i suoi successi, “Malinconico autunno”, con cui vinse il Festival di Napoli del 1958. Dotata anche di bella presenza, venne scelta da Macario come seconda soubrette della rivista Chiamate Arturo 777 di Grimaldi e Corbucci (stagione 1958-59; il titolo era, come al solito, parodia di un film di successo: in questo caso Chiamate Nord 777 , giallo con James Stewart). Nello spettacolo, un po’ rivista a sketch un po’ commedia musicale, si narrava la storia di un anello sparito tra Parigi e Algeri; nel cast, Giustino Durano, Camillo Milli, la soubrette `titolare’ Lucy D’Albert. Il successo si ripete nella stagione successiva con Monsieur Cenerentolo , che è Carlo Dapporto; della Del F. si loda «la semplicità», e la si definisce «sicura nelle toilettes, nelle canzoni, nelle battute». Ancora con Dapporto la stagione seguente, in Il rampollo di Scarnicci e Tarabusi, qui più attrice che cantante; intanto, nel 1961, ottiene gran successo in tv accanto a Gino Bramieri e Raffaele Pisu nella trasmissione L’amico del giaguaro , strano e riuscito mix di quiz e varietà firmato da Terzoli e Zapponi, che si impose soprattutto per lo scatenato brio del terzetto d’interpreti. La Del F. e Pisu si ritrovano anche in palcoscenico nella stagione 1963-64 in 365 di Terzoli e Zapponi, cavalcata parodistica di un anno di cronaca. Il trio televisivo passa, com’era prevedibile, in passerella (1964-65) con Italiani si nasce di Faele (Raffaele Sposito), dove la Del F. si esibisce anche in un succoso spogliarello. Nella stagione successiva, altra scorribanda epidermica tra i difetti degli italiani con Hobbyamente , in coppia con Gino Bramieri. La rivista successiva (1966-67) prevalse sulle concorrenti che, numerose, si richiamavano al `giovanilismo’: contrasti tra matusa e capelloni in L’assilllo (con tre `l’) infantile di Marcello Marchesi (nel frattempo applaudito `signore di mezza età’ sul teleschermo). Con la Del F., Bramieri e, valida spalla, Ettore Conti. Ancora la ditta `Bramieri-Del Frate’ la stagione successiva con La sveglia al collo di Marchesi e Terzoli. Si accentua il pendolarismo tra palcoscenico e televisione, sino all’inatteso e anticipato ritiro della soubrette dalle scene, causa matrimonio.

De Sica

Noto per essere stato, con duecento film all’attivo, uno dei patriarchi del neorealismo e, nello stesso tempo, uno degli attori più cordiali, inventivi, simpatici (da ricordare la sua collaborazione con Loren e Mastroianni), De S. nasce all’arte in teatro. Destinato a dignitosa carriera bancaria, fu lo stesso padre a spingerlo verso lo spettacolo. «Recitami qualcosa» gli disse Tatiana Pavlova, cui il giovane De S., appena diplomato, si era recato per un’audizione. «Sì, ma che cosa?». «Una cosa qualsiasi». A De S. venne in mente la `Cavallina storna’ e la recitò, ma dopo la prima strofa la Pavlova lo interruppe: visto e preso, scritturato. Era il 1923 e qui inizia la carriera dell’attore, accanto all’artista russa che rivoluzionò allora la scena. Un anno e mezzo dopo, De S. passa con Luigi Almirante, anche per la necessità di recitare in italiano, magari pensando in dialetto: De S. non accettò mai la dizione scolastica del teatro, mantenendo una `contaminazione’ linguistica che secondo alcuni sta alla base anche del suo impegno veritiero nel cinema. Così De S. recita al fianco di mattatori d’epoca, Italia Almirante, Donadio, Renzi, Chellini, Tofano, Melnati, imparando l’arte del brillante, del fine dicitore; e conosce così quella che nel 1937 diventerà la sua prima moglie, Giuditta Rissone, con cui nel 1930 fa compagnia. Una compagnia tutta di giovani diretta da Guido Salvini, che si era fatto le ossa con la compagnia del Teatro d’arte (1925-28) di Pirandello poi con Max Reinhardt. Rischiano per la gloria, con un repertorio prematuro e sofisticato, allestendo, incompresi dal pubblico, L’amore fa fare questo e altro di Achille Campanile e Alla prova di Lonsdale. A salvarli dal disastro arriva il regista Mario Mattoli, ex avvocato che si era dato allo spettacolo leggero e che, intuendo le doti di De S. e dei compagni, li inserisce nella compagnia di riviste ZaBum n. 8 (con Rissone, Pilotto, Melnati, Besozzi, Roveri, Pina Renzi, Rina Franchetti) di cui è ideatore, scrittore, animatore. Inizia per De S. la lotta tra i suoi due `ego’, che si ripeterà anche al cinema: da un lato l’attore drammatico, dall’altro quello brillante. Vince ai punti del successo il secondo; nel 1933 lavora con Tofano e Rissone e dal 1935 al ’42, ormai volto popolare del cinema ( Gli uomini, che mascalzoni! ), De S. dirige la compagnia Rissone-Melnati, con un repertorio comico sentimentale il cui maggior successo sarà Due dozzine di rose scarlatte di De Benedetti, che dirigerà poi anche al cinema. Nel 1940, con Tofano e Rissone, recita il Pirandello di Ma non è una cosa seria e Liolà , che riprenderà poi da regista, nel 1961, in una produzione di Ardenzi con Achille Millo; nel 1943 partecipa a Il dilemma del dottore di Shaw (regia di Salvini) e a Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Ferrari. Nel 1944 il suo nome è in cartellone con testi di Viola e una rivista di Metz, accanto a Maltagliati, Cimara, Ninchi, Miranda, la Giusti. Nel 1945 nasce la compagnia De Sica-Gioi-Stoppa, con Catene diretta da Giannini, e con la regia di Blasetti recita Il tempo e la famiglia Conway di Priestley. Dopo la guerra il teatro per De S. è ormai un ricordo: il cinema, che gli regala subito l’Oscar, lo occupa a tempo pieno, anche se nel 1947 prende parte per la Biennale, con la regia di Simoni, all’ Impresario delle Smirne di Goldoni con Ferrati, Morelli, Stoppa, Pagnani e Stival, mentre nel 1949 omaggia Gherardo Gherardi in Lettere d’amore con Pagnani, Cervi, Stoppa. Ma l’episodio più risonante è il Matrimonio di Figaro di Beaumarchais allestito da Visconti nel 1946, cui seguono I giorni della vita di Saroyan e Le cocu magnifique di Crommelynck.

Decina

Dopo gli studi artistici inizia a danzare nelle compagnie di B. Curtis, V. Biagi, L. Falco. Trasferitosi in Francia nel 1985, vi crea la compagnia PostRetroguardia, vincendo il concorso della Ménagerie de Verre di Parigi per Tempi morti (1987). Sovvenzionato dal Ministero della Cultura francese, realizza coreografie nel linguaggio del teatrodanza, in cui è determinante l’uso delle luci: il chiaroscuro che crea atmosfere quasi barocche come in Circumvesuviana ( 1988), Ombre in rosso antico (1988), Scilla e Cariddi (1991), Ciro Esposito fu Vincenzo (1993), Mare rubato (1996). Ospite del Comunale di Firenze, ha firmato Il Banchetto di Sabbia (MaggioDanza 1994) e la regia di Macbeth di Verdi (1995).

Di Marca

Comincia la sua attività all’inizio degli anni ’70 nel gruppo di artisti-poeti-attori di porta Portese riuniti nel circolo `La Fede’ di Giancarlo Nanni. Recita in A come Alice e L’imperatore della Cina , entrambi diretti dallo stesso Nanni. Poi fonda un proprio teatro, il `Teatro dei Meta Virtuali’, che agisce in uno spazio denominato Metateatro, l’ennesima `cantina’ romana a Trastevere. Qui il 14 febbraio 1975 mette in scena Il conte di Lautréamont rappresenta i canti di Maldoror . Negli anni ’80 rappresenta Blacklut: concerto grosso per piano, metronomi e transistors (1981); Violer d’amores , tratto da Finnegans wake di James Joyce, nel centenario della nascita dello scrittore (1982); Admiral’s men , che racconta le difficoltà incontrate da una compagnia di teatro elisabettiano per la messa in scena di un testo (1983); Target/Lulu , spettacolo multimediale ricavato dal dittico di Wedekind, Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora , e che fonde la scrittura drammaturgica con la rielaborazione dell’opera di Alban Berg e l’inserimento di reperti cinematografici (1984); Diceria dell’untore , dall’omonimo romanzo di G. Bufalino (1986); A porte chiuse di Sartre (1987). Nell’autunno del 1987 il Metateatro diviene `Centro di produzione e ricerca’. Nella stagione 1987-88, oltre a La cognizione del dolore , dal romanzo di Gadda, il Metateatro produce tre nuovi spettacoli, due dei quali firmati da Di M.: John Gabriel Borkmann di Ibsen e A-Hilaro, B-Tragoedia di G. Manganelli. Seguono poi Hedda Gabler , ancora da Ibsen (1989); Nero solare (1989), nell’ambito della quinta edizione delle `Giornate delle arti’ a Erice; Les negres di Genet (1990); Irresistibilmente debole di A. Debenedetti, nel quadro della seconda rassegna che il Beat ’72 (altra `cantina’ storica romana) dedica ai poeti che scrivono per il teatro (1990); La tempesta di Shakespeare (1994). L’11 gennaio 1995 il Metateatro chiude dopo oltre venti anni di attività; Di M. prosegue il lavoro con la sua compagnia, ma senza una sede. Uno spettacolo ispirato al film Full metal jacket nel 1995 e Shakespeare’s jazz and blues (versi di Shakespeare accompagnati da un’orchestrina), messo in scena nel 1996 al Café Caruso di Roma, sono le ultime prove del regista.

De Bosio

Gianfranco De Bosio inizia la sua attività a Padova, al teatro universitario. Nel 1949 riesce ad aprire un locale, Il Ruzante, dove realizza i suoi primi esperimenti di regista con un vasto repertorio che va da Eschilo a Calderón, da Goldoni a Ruzante, da Pirandello a Brecht. B. Brunelli lo aveva introdotto al mondo di Ruzante, ma determinante è la conoscenza e la collaborazione con L. Zorzi. Nel 1950 rappresenta per la prima volta La Moscheta, nel dialetto originale, con G. Bosetti (scene di M. Scandella, testo critico di L. Zorzi); nel 1956 la ripresenta al festival di Venezia con C. Baseggio, E. Vazzoler, G. Bosetti, A. Battistella e G. Cavalieri. Nel 1958 assume la direzione del Teatro stabile di Torino; nel 1960 allestisce ancora La Moscheta, con una memorabile interpretazione di Franco Parenti, che dirigerà, ottenendo il medesimo risultato, in I Dialoghi del Ruzante (1965) e La Betia (1969). L’itinerario ruzantiano è fonte per lui di continue sperimentazioni e consensi, soprattutto da parte della critica. Scopre infatti, come nessuno prima di lui è riuscito a fare, la modernità di un autore dal linguaggio all’apparenza impossibile da portare in scena. Nel momento in cui realizza I Dialoghi esce per la prima volta in Italia, presso Einaudi, l’opera completa di Ruzante; contemporaneamente, I Dialoghi sono invitati a rappresentare l’Italia al festival del Théâtre des Nations. A Torino dirige ancora Franco Parenti in La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (1961); e realizza anche testi d’impegno civile e politico, come Le mani sporche di Sartre (1964) e Se questo è un uomo di Levi (1966). Nel 1968 assume la sovrintendenza dell’ente lirico della città di Verona, dove promuove un vasto rinnovamento, chiamando all’Arena registi come Vilar, Squarzina e Ronconi. È questo un anno importante, durante il quale si verificano grandi cambiamenti nel campo del teatro e della regia soprattutto: la scena conquista un posto primario. L’attività di D. e B.è senza sosta; pur continuando il suo lavoro nella lirica (allestisce la tetralogia wagneriana e numerose opere di Verdi, tra le quali due significative messinscene dell’ Aida ), non abbandona mai l’approfondimento del teatro ruzantiano, di cui è il regista princeps , ma lavora anche su Goldoni – Le donne gelose (1985), Le donne de casa soa (1986), Le baruffe chiozzotte (1988), La bottega del caffè (1989) – e su Molière – L’avaro con G. Bosetti (1992). Particolarmente significativo anche l’incontro con l’opera di Svevo, evidenziato dal memorabile allestimento di Un marito con A. Tieri e G. Lojodice (1983, adattamento di T. Kezich). Definito per molti anni «regista ruzantiano per eccellenza», Gianfranco De Bosio è riuscito ad allargare la sua ricerca non solo ai classici, ma anche a opere novecentesche, soprattutto nei dieci anni trascorsi allo Stabile di Torino. Ha lavorato anche per la Rai, riscuotendo un successo internazionale nel 1974 con Mosè . È stato sovrintendente all’Arena di Verona fino al 1998.

De Daninos

Studia con E. Sperani all’Accademia dei Filodrammatici, dove si diploma nel 1952. Debutta l’anno dopo al Piccolo Teatro nel Giulio Cesare di Shakesperare con la regia di Strehler. Tra il 1957 e il ’61 ha parti importanti al Teatro del Convegno con la regia di E. Ferrieri: Orazio nell’ Amleto di R. Bacchelli e Tommy in Come le foglie di Giacosa. Negli anni ’60 lavora intensamente con la compagnia Morelli-Stoppa, caratterizzandosi in ruoli comici e grotteschi (Laudisi in Così è, se vi pare ). Ha una parentesi lavorativa con il Teatro stabile di Genova dove è Kurt in Danza di morte di Strindberg e il comico amante Tournell in La pulce nell’orecchio di Feydeau. Nel 1970 è, con V. De Toma e U. Ceriani tra i fondatori del Teatro Insieme. Con la regia di G. Lavia è il dottor Dorn in Il gabbiano di Cechov. Ritorna al Piccolo Teatro in Barbablù di Dursi (regia di Puggelli) e nel 1983 in Minna von Barnheim di Lessing, diretto da Strehler. Ancora allo Stabile di Genova, è in Terra sconosciuta di Schnitzler (1984-85, regia di O. Krejca), L’alcade di Zalamea di Calderón (regia di M. Sciaccaluga). Lavora con M. Castri ne La famiglia Schroffenstein di Kleist.

D’Onghia

Ottiene il suo primo successo nel 1990 con E all’alba mangiammo il maiale allestito al Teatro Verdi di Milano per la regia di S. Monti e scritto su commissione del Teatro del Buratto. Lezioni di cucina di un frequentatore di cessi pubblici , segnalato dalla giuria del premio Ater Riccione (1989), viene messo in scena al Festival di Asti nel 1992 e, l’anno successivo, dal Gruppo della Rocca diretto da R. Guicciardini. Nel 1993 vengono presentati altri due suoi lavori: Il camposanto di Ofelia Spavento al Festival di Todi e I tacchi a spillo del destino al Festival di Taormina. L’anno seguente è la volta di Tango Americano per la regia di G. Dipasquale. Nel 1995 il Laboratorio di Drammaturgia del Piccolo mette in scena il suo Giorni felici nella camera bianca sopra il mercato dei fiori al Teatro Studio di Milano. Altri suoi testi da ricordare sono: La porta della tranquillità, Birra a fiumi e vecchi ricordi, Il carro di Rhazes, La vita vera del Signor Chichinda, Breviario di fuga d’una pescatrice di rane.

Derby Club

Nato inizialmente come ristorante dove si suona anche jazz, il suo primo nome di battesimo fu Gi-Go, ben presto luogo di ritrovo dei protagonisti della musica milanese di quei tempi, da Celentano a Mina. Ma solo nel 1962, dopo l’ingaggio dato al pianista Enrico Intra (Intra’s Derby Club, per la vicinanza a San Siro e la frequentazione di appassionati ippici e di giornalisti sportivi), il locale inizia la sua ascesa nel mondo del cabaret. Dai Gufi a Enzo Jannacci (che qui trovò il suo primo pubblico di estimatori tra cui Luciano Bianciardi) alla coppia Cochi e Renato, da Teo Teocoli a Walter Valdi, Paolo Villaggio, Lino Toffolo, Dino Sarti, Antonio Ricci, fino a Diego Abatantuono, Paolo Rossi, Massimo Boldi, Felice Andreasi e all’ultima generazione di Claudio Bisio, allora in coppia con Antonio Catania, il locale fu il vero trampolino di lancio per innumerevoli comici del momento, oggi personaggi di grande popolarità, sia televisiva sia teatrale e cinematografica. Più che un locale notturno era un ritrovo di amici, dove la famosa quarta parete era già stata da tempo abbattuta. Dal 1981, anno di morte di Giovanni Bongiovanni, il locale iniziò il suo lento declino, per chiudere poi nel 1985.

Durante

; New York 1893 – Santa Monica, California, 1980), attore e entertainer statunitense. Quando giovanissimo smise di studiare per dedicarsi interamente al pianoforte, che aveva imparato a suonare a orecchio, non pensava certo di diventare un celebre intrattenitore né l’attore comico che tutti conosciamo. Cominciò dunque a suonare alle feste dei vicini e a certi balli del club di quartiere. Finalmente a diciassette anni ottiene una scrittura a Coney Island, cui seguiranno altre sempre più interessanti per D., che organizza prima un quintetto e poi un’orchestrina jazz. Sogna di aprire un suo locale, e finalmente ci riesce nel 1923; in quello stesso anno forma con Lou Clayton e Eddie Jackson un famoso trio, che agisce appunto nel nuovissimo Durant Club: quando questo venne chiuso, il trio passò per altri due anni al Parody Club. D. è ormai soprannominato `Schnozzola’ (per via del suo naso grosso e bulboso); a lui si devono diverse canzoni celebri nel mondo del vaudeville. Quanto al trio, raggiunge il successo nazionale al Palace di New York nel 1928 e partecipa a uno spettacolo di Ziegfeld ( Show Girl ) nel ’29; nel 1930 lo troviamo in un musical di Cole Porter, The New Yorkers . Quello stesso anno D. debutta al cinema, con un contratto quinquennale della Mgm. Il trio si scioglie e Clayton diventa l’impresario di D., che riesce a tornare a Broadway per Jumbo (1935) e Red, Hot and Blue (1936) di Cole Porter, coprotagonista Ethel Merman. Dal 1939 in poi alterna Broadway a Hollywood con ritmo regolare, aggiungendoci poi la radio, i dischi e più tardi la tv. La sua ultima apparizione cinematografica è clamorosa: il film è Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (It’s a Mad Mad Mad Mad World, 1963).

Diez & Diez Danza

Fondata a Madrid nel 1989 dal danzatore e coreografo brasiliano Pedro Berdayes e dalle danzatrici e coreografe spagnole Monica Runde e Maria del Castillo, già danzatrici nella compagnia di Carmen Senra. Dopo la vittoria al Concorso coreografico di Madrid con Kytatioh , prosegue la sua ricerca coreografica ispirata alle tematiche esistenziali tipiche del teatrodanza europeo in lavori come Piano, piano, Pubera , Haz de la luz .

De Monticelli

Figlio di attori, Roberto De Monticelli era cresciuto – non solo metaforicamente – nei camerini dei teatri, acquisendo con la passione per il palcoscenico un orecchio eccezionalmente sensibile alle intonazioni della voce e alle sfumature dell’interpretazione. Formatosi come cronista a “Italia libera” e al “Tempo di Milano” e come redattore di costume e di cultura a “Epoca” – dove era approdato alla critica drammatica sostituendo, dapprima temporaneamente poi stabilmente, Ferdinando Palmieri – era quindi divenuto titolare della rubrica teatrale su “La patria”, dal 1956 su “Il giorno” e infine, dal 1974, sul “Corriere della Sera”, in quella che ancora era vista come la prestigiosa `cattedra’ di Renato Simoni. Dotato di una scrittura insieme incisiva e copiosamente densa di immagini, di un’innata competenza e di una inesauribile curiosità per le vicende della scena, ha saputo essere come nessun altro un autorevole punto di riferimento, un acuto e puntuale osservatore di fenomeni e tendenze testimoniati con lucida tempestività anche al di là dei singoli giudizi. Per molti anni presidente dell’Associazione nazionale dei critici di teatro, ha svolto anche in questo ruolo una fondamentale funzione trainante, avviando un approfondimento etico e professionale della categoria e fornendo un sostanziale apporto alla crescita del teatro italiano del nostro tempo, specialmente per quanto riguarda il fronte degli Stabili, al quale si sentiva costituzionalmente più vicino. Animato da una profonda e sofferta vocazione letteraria, ha lasciato un solo romanzo, L’educazione teatrale. Di fatto però le sue recensioni, sempre meditatissime e frutto di una faticosa elaborazione stilistica, si compongono in uno straordinario racconto dei gusti e dei costumi del teatro in un’epoca di decisivi mutamenti, come quella compresa fra gli anni ’50 e ’80, e in un percorso niente affatto occasionale nella storia di un paese e di una società colti attraverso il filtro peculiare del teatro. Da un suo saggio critico è stato ricavato il monologo Signori, il teatro deve essere rauco, interpretato nel 1989 da Renzo Giovampietro.

Deledda

Senza una formazione letteraria alle spalle, esordisce come scrittrice su un giornale di moda. Autrice soprattutto di romanzi ( Elias Portolu , 1903; Canne al vento , 1913; Marianna Sirca , 1915; Il segreto dell’uomo solitario , 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Cosima , 1937), dove manifesta una acuta sensibilità nell’analisi dei drammi umani, ha scritto anche due opere per il teatro: L’Edera (1912) in collaborazione con C. Antona Traversi e La Grazia , in collaborazione con C. Guastalla e V. Michetti. Il suo romanzo Cenere (1904) è stato soggetto di un film interpretato da E. Duse.

De Berardinis

Leo De Berardinis è nato a Gioi, in Campania, ma è cresciuto a Foggia. Alla fine degli anni ’50 si trasferisce a Roma, dove frequenta il Centro teatrale universitario. A teatro debutta da attore nella Compagnia della Ripresa formata da Carlo Quartucci, con cui realizza fra l’altro una serie di messinscene beckettiane. L’esaurirsi di questa esperienza, a metà degli anni ’60, coincide con l’incontro con Perla Peragallo con cui farà coppia per un quindicennio.

Nel 1967 presentano il loro primo `spettacolo cineteatrale’, La faticosa messinscena dell’Amleto , seguito l’anno successivo da un’altra rielaborazione shakespeariana, Sir and Lady Macbeth , in cui inserti di sperimentalismo cinematografico si innestano su una partitura scenica di tipo jazzistico. De B. va infatti elaborando la visione del grande attore come jazzista, dotato cioè della stessa libertà di improvvisazione del musicista. Il 1967 è anche l’anno del convegno di Ivrea, in cui il nuovo teatro italiano esce ufficialmente allo scoperto. Da Ivrea esce il progetto di un lavoro in collaborazione con Carmelo Bene, per un Don Chisciotte che debutterà nel 1968. Il sostanziale fallimento di questa esperienza porta l’attore a riconsiderare l’intera prima fase di lavoro, ribattezzata `teatro dell’errore’ giacché indirizzata a un pubblico sbagliato. Dopo una prova cinematografica, con lo sperimentalissimo A Charlie Parker , Leo e Perla, come ormai vengono chiamati da tutti, si trasferiscono a Marigliano, un paese dell’entroterra napoletano, alla ricerca di radici più autentiche. È il momento del `teatro dell’ignoranza’, in cui la cultura alta dei due artefici reagisce con quella popolare di un gruppo di attori improvvisati e musicisti di paese e si contamina con la tradizione della sceneggiata, come rivelano i titoli dei lavori di quel periodo, da ‘O zappatore (1972) a King lacreme Lear napulitane (1973), fino allo struggente Sudd (1974) che conclude idealmente questa stagione.

La cultura popolare meridionale resta comunque un riferimento essenziale anche dopo il ritorno a Roma, in spettacoli come Assoli (1977) e Avita murì (1978), fra i più importanti del decennio. La scena in cui agiscono appare sempre più degradata, la recitazione sempre più tesa verso un’improvvisazione che fa coincidere arte e vita, fino ad andare in scena con i loro nomi nello spettacolo siglato non a caso De Berardinis-Peragallo (1979). Ma si produce anche una divaricazione fra le scelte di Leo e di Perla, che culminerà nella separazione della coppia e in una crisi anche personale dell’artista, giusto al limite dell’autodistruzione alcolica.

La seconda parte della vicenda artistica di De B. ricomincia da Bologna, dove l’attore era stato chiamato dalla cooperativa Nuova Scena per un allestimento di The Connection (1983), il testo di Jack Gelber reso celebre dal Living Theatre. Leo propone nel giro di alcuni anni una sequenza di spettacoli shakespeariani, da una duplice versione dell’ Amleto (1984 e 1985) a King Lear (1985) e La tempesta (1986), severi e rigorosi tanto da sembrare ribaltare l’immagine del suo teatro. C’è in questo lavoro anche l’idea dichiarata di creare una compagnia, un gruppo stabile di attori che lo seguirà al momento del distacco da Nuova Scena, giunto paradossalmente in coincidenza della grande prova di Novecento e Mille (1987).

Con la nuova formazione, ribattezzata Teatro di Leo, De B. intraprende una sorta di ricapitolazione del proprio percorso artistico, che sfocia nel confronto a distanza con i maestri d’elezione, l’opera di Eduardo in Ha da passà `a nuttata (1989) e la maschera comica di Totò, principe di Danimarca (1990), per giungere poi all’incontro imprevisto con Pirandello per I giganti della montagna (1993) dove veste i panni femminili di Ilse. È però ancora Shakespeare il cardine del teatro di Leo, che dopo aver rivisitato Macbeth (1988) e IV e V atto dell’Otello (1992) ha intrapreso poi una pluriennale rilettura del King Lear (1997). Un Lear riletto in chiave anarchica sulla scorta della comicità riconquistata, che ricollega l’attore alla felicità espressiva dei suoi inizi.

Nel giugno del 2001 De B. entra improvvisamente in coma a causa di un intervento chirurgico. Si spegne a Roma dopo sette anni di calvario.

Di Benedetto

A quindici anni vince un concorso di bellezza a Posillipo e decide di darsi alla carriera artistica. Studia recitazione con il maestro M. Ciampi e debutta nella compagnia di Mico Galdieri in Capitan Fracassa . Lavora con R. De Simone, con i Santella, con L. Mastelloni nel teatro dei travestiti, coprendo un repertorio vastissimo, da Goldoni a Molière. Riesce a superare un provino con Strehler, che nel 1973 la sceglie per il ruolo di prostituta nell’ Opera da tre soldi . Nel 1981 interpreta Pilade di Pasolini; nel 1989 una dirompente Giovanna D’Arco con la regia di M. Perlini. Nel 1993-94 Dedicato a Maria , omaggio a Raffaele Viviani, e l’ Agamennone di Eschilo a Siracusa, con la regia di R. De Simone. Irrequieta, passionale ed energica, è fatta per i ruoli di grande temperamento che spesso hanno trovato sbocco sul grande schermo ( Immacolata e Concetta di Salvatore Piscicelli, 1980; Le buttane di Aurelio Grimaldi, 1994).

D’Amato

Laureato e quindi diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica, ha per maestri O. Costa, S. Tofano, W. Capodaglio. Lavora come aiuto-regista in diversi stabili italiani (Trieste, Torino, Bolzano) con la Pavlova, A. Fersen (con il quale inizia a occuparsi di pedagogia dell’attore), G. De Bosio, A. Trionfo, A. Vitez. Del 1970 è l’incontro con Strehler in occasione della messinscena di Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, cui seguono, sempre come assistente, gli spettacoli storici del Piccolo Teatro: dalle tante edizioni dell’ Arlecchino a Re Lear (1972), da La tempesta (1978) al Campiello (1974 e 1992), da Giorni felici (1983) al Faust (1989) e ai Giganti della montagna (1993). Le sue regie più importanti sono: Romeo e Giulietta (a Verona, 1973), La vita è sogno (1980), Il precettore (1983), La rigenerazione di Svevo (1989), fino al Teatro comico di Goldoni (1993). Ha insegnato recitazione alla Civica scuola (ora `P. Grassi’) di Milano, a Pondicherry (India), a Parigi. Dal 1986 è coordinatore della Scuola di teatro `G. Strehler’.

Découflé

Fra i più estrosi e originali rappresentanti della `nouvelle danse’ francese, le coreografie di D. proiettano il pubblico dentro un universo fantastico e pittoresco. Spesso concepite come concatenazioni di immagini che sfidano la logica, costringono i danzatori a imparentarsi con gli acrobati. Oltre a quello di Nikolais, la sua arte ha subito l’influsso di Jean-Paul Goude, visionario creativo della pubblicità, e di R. Chopinot da cui, dopo esperienze in comune, si è staccato per creare una sua compagnia (`D.C.A.’). È con la stessa che nel 1986, ad Avignone, ha colto il suo primo, importante successo ( Codex ). Altri titoli di questo coreografo `bricoleur’, che ha avuto una formazione circense (ha frequentato l’École National du Cirque ed è stato clown con il trio `Quaf Quaf’), sono Vague café (premiato a Bagnolet nel 1983), Tranche de cake , Technicolor , Triton , Denise e Decodex . È stato regista delle cerimonie di apertura e di chiusura dei giochi olimpici di Albertville (1992) e ha realizzato vari cortometraggi e clips pubblicitari.

Donn

Dopo aver danzato al Colón di Buenos Aires, dove aveva studiato, nel 1963 venne scritturato dal Ballet du XXème siècle; prediletto da Béjart, diventò il `numero uno’ della prestigiosa compagnia. Benché provenisse dal classico, D. era naturalmente portato al moderno; inoltre, lo studio e l’approfondimento della danza indiana contribuirono a dare al suo corpo una particolare grazia e morbidezza. A lui si deve la creazione dei ruoli più importanti di almeno una ventina di balletti béjartiani, tra i quali Bhakti , I Trionfi , Romeo e Giulietta , Molière imaginaire (fu il Re Sole), nonché Chant du compagnon errant ; è rimasta celebre anche la sua versione maschile e carica di sensualità del Boléro , danzato anche nel film di Lelouch Les uns et les autres. Dopo la lunga esperienza accanto al maestro marsigliese, durata fino ai primi anni ’80, tentò altre vie tra le quali la direzione del Balletto di Verdun e la coreografia. Diede alle scene Nijinskij, clown de Dieu , lavoro in cui bene espresse la follia del personaggio e al tempo stesso lo strazio e il senso di una fine, la sua, causata anzitempo dall’Aids che lo uccise. Grazie anche alla sua travolgente forza espressiva, non meno fiammeggiante di quella di Nureyev, D. è da considerare tra i massimi danzatori del secolo.

Derevianko

Studia all’Istituto coreografico di Novosibirsk e poi a quello di Mosca. Dal 1977 al 1983 danza al Bol’šoj di Mosca interprete di coreografie di V. Vasil’ev e di J. Grigorovic (Mercuzio in Romeo e Giulietta ) e di classici ( Schiaccianoci , Chopiniana ). Dal 1983 si stabilisce a Roma e avvia una carriera di star ospite nei principali teatri del mondo. Dal 1986 al 1990 fa parte del balletto dell’Opera di Zurigo sotto la direzione di Uwe Scholz, che crea per lui il ruolo di Julien Sorel in Il rosso e il nero (1986). In quegli stessi anni (1988-91) è interprete ad Amburgo del principe in Illusioni, come il lago dei cigni , la versione del Lago di John Neumeier. Spesso ospite dell’Aterballetto, è stato inteprete dei balletti di Amedeo Amodio: Mazapegul (su musica di A. Corghi) e Romeo e Giulietta (musica di Berlioz) nel ruolo di Mercuzio. Nel 1993 è stato nominato direttore del balletto all’Opera di Dresda, carica che ha ricoperto con pieni poteri a partire dal 1994. Come ballerino si distingue per le doti naturali uniche: ampiezza del salto, ballon, finezza stilistica. Particolarmente adatto per ruoli grotteschi o da `comèdien’.

De Vita

Si diploma alla Scuola del Piccolo Teatro nel 1958 e debutta l’anno successivo in L’anima buona di Sezuan di Brecht e in Coriolano di Shakespeare. Nel 1960-61 con V. Franceschi e S. Bajini scrive e recita in due spettacoli di cabaret e lavora con G. De Bosio allo Stabile di Torino. Nel 1963-64 collabora con lo Stabile di Trieste: come regista di Pinocchio maggiore di V. Franceschi e come attore in L’uomo senza qualità di Musil con la regia di A. Trionfo. A Bologna è tra i fondatori della compagnia Nuova Scena, con D. Fo, F. Rame, V. Franceschi, A. Bajini, (1968) dove lavora come attore fino al 1973. Due anni dopo entra a far parte del Teatro Officina, la cooperativa teatrale di cui diventa presidente e direttore artistico, e dove realizza in diciotto anni quindici regie e spettacoli. Tra le attività del gruppo, attento soprattutto alla realtà delle periferie con lo scopo di rivitalizzarle, il progetto `Memoria storica’, con ricerche e testimonianze sulle realtà locali ( Memorie di una terra contadina, un paese nel Pavese , 1997) e sul mondo operaio di Sesto San Giovanni (1998).

Dursi

Tra i pochi autori autentici e significativi del dopoguerra italiano, Massimo Dursi fu ricco di estri immaginativi e umori pungenti. Scrittore nato (pur se laureato in chimica), nei suoi lavori riversò una tensione costante di ideali civili e morali, unita alle impennate di una fantasia brillante, capace di tradursi in una scrittura densa e vivace, in un fraseggiare elegante e originale. La sua drammaturgia puntò da un lato a una satira di costume legata alla contemporaneità, dall’altro a un registro definito da qualcuno `epopea degli umili’. Appartengono alla prima categoria commedie come la graffiante Caccia alla volpe (1948), La giostra (1950) e Fantasmi in cantina (1964). Del secondo gruppo fanno invece parte opere a sfondo storico come Bertoldo a corte (1957), La vita scellerata del nobile signore Gilles de Rais che fu chiamato Barbablù (1967), arrivata anche sulle scene del Piccolo Teatro di Milano, Stefano Pelloni detto il Passatore (1963) e Il tumulto dei Ciompi (1972). Fu anche autore di numerosi testi radiofonici e televisivi. Come critico (al “Resto del Carlino” dal 1945 al ’74), le sue recensioni sono da considerare vere lezioni di metodo.

Dullin

Allievo di Copeau, D. si ricorda spesso come un grande scopritore di talenti e un grande maestro, soprattutto d’attori. Dopo una serie di lavori disparati a Lione si trasferisce a Parigi dove si fa le ossa recitando nel melodramma (piccole parti all’Odéon con Antoine nel 1903), allora in voga e, ritornato a Lione, per sopravvivere, recita addirittura versi di Baudelaire nelle gabbie delle bestie feroci allo zoo. Ritornato a Parigi, nel 1915, interpreta quello che può essere definito il suo primo, grande ruolo: è Smerdiakov in I fratelli Karamazov di Dostoevskij, adattamento di J. Copeau accanto al quale parteciperà ai primi anni del Vieux-Colombier. Lasciato Copeau, nel 1921, fonda in place Dancourt l’Atelier, alla cui scuola si formeranno, fra gli altri, A. Artaud, J.L. Barrault, E. Decroux. Qui e in alcuni scritti teorici molto importanti ( Ricordi e note di lavoro di un attore e Sono gli dei che ci occorrono ) sottolinea la sua esigenza di un teatro che sia impegno costante, non un’imitazione della realtà ma una trasposizione della natura. Di questa natura l’attore è il mediatore con tutto se stesso. Anche una camminata, il modo di entrare in scena, infatti, contribuisce, secondo D. alla qualità dell’interpretazione, all’individuazione del personaggio. Ma prima dell’interprete – anche per D. – come del resto, per Copeau, viene l’autore. E lamenta che lo scrittore di teatro elabori a tavolino le proprie storie senza alcun legame con la vita della scena. Proprio perché li critica così apertamente è pronto a riconoscerne la novità avendo anche il coraggio di rappresentarli. Recita classici come Corneille, Molière (giustamente famoso il suo Avaro che reciterà fino all’ultimo quando ormai il cancro di cui soffre – morirà in un ospedale di Parigi – non gli lascia più alcuna speranza) o come Shakespeare ( Riccardo III , ma anche uno sconvolgente, terribile Re Lear ) e Ben Jonson (indimenticabile la sua interpretazione del Volpone , diventata anche un film, in cui è possibile vederlo nel ruolo di Corbaccio). Attore non certo aiutato dall’aspetto fisico (gambe corte e spalle squadrate da montanaro, una voce aspra, quasi gracchiante, ma dalla dizione perfetta), D. diventa regista per sperimentare da vicino tutte le possibilità del lavoro teatrale, facendosi anche sulla scena maestro dei giovani che si sono formati alla sua scuola e che spesso gli recitano accanto. Il suo repertorio è vastissimo e spazia dai classici come Shakespeare, Ben Jonson, Molière, Calderón, Balzac ai contemporanei come Sartre (di cui mette in scena in una serata arroventata Le mosche nel 1943), Salacrou e Pirandello che ha contribuito, con alcune regie rimaste famose, a fare conoscere in Francia (fra tutte forse la più nota è quella per Il piacere dell’onestà , 1922, ambientata in una stanza ad angolo acuto con il pavimento che riproduce una scacchiera, e Ciascuno a suo modo ripreso nel 1937 per la Comédie Française).

Danon

Attiva sin dal 1975 come figurinista, prevalentemente nell’ambito del cinema (dal 1982 è Art director dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences di Los Angeles), in teatro stringe un rapporto particolarmente intenso con il regista A. Calenda, a partire dall’atipico Rappresentazione della passione (Bolzano 1978), recupero di un dramma sacro abruzzese medioevale. Affiancata dallo scenografo Nicola Rubertelli, cura l’allestimento dell’ Enrico IV di Pirandello (1981), della Semiramide di Rossini (Napoli, Teatro San Carlo 1987), dell’ Amanda Amaranda di P. Shaffer (Roma, Teatro Eliseo, 1989) e de Il medico dei pazzi di E. Scarpetta (1990). Dopo Tradimenti di H. Pinter (1992), per cui si occupa anche delle scene (lo stile asettico ed essenziale si adatta perfettamente agli intenti ironici di Calenda), lavora alla fortunatissima Danza di morte di Strindberg (Città di Castello 1992), dove un salotto-bunker in cui si sfidano i due protagonisti è scenario di uno dei migliori spettacoli dell’anno, come lo sono i successivi Affabulazione Pilade e Calderón (Torino 1993) di Pasolini, per i quali collabora con L. Ronconi, con cui lavora anche ai costumi della Venezia salva di S. Weil (Torino 1994).

Durante

Dopo i primi tre anni di studio presso la scuola dell’Opera di Roma passa alla Royal Ballet School di Londra, dove si diploma nel 1984. Entrata nel Royal Ballet, è nominata solista nel 1987 e prima ballerina nel 1989. Qui danza tutto il repertorio classico ( La bella addormentata ) e neoclassico, segnalandosi per la purezza delle linee e la musicalità in lavori di G. Balanchine ( Violin Concerto ) e F. Ashton ( Rapsody ). Il suo temperamento drammatico la mette in luce in lavori di K. MacMillan ( Mayerling ), che per lei e il partner Irek Mukhamedov crea The Judas Tree (1992). Ospite di numerose compagnie internazionali (New York City Ballet), ha partecipato in Italia a Cabiria di A. Amodio con il Balletto dell’Arena di Verona (1994) ed è stata Aurora in una Bella addormentata al Teatro dell’Opera di Roma (1998).

Diana

Nel 1980 è tra i fondatori del Laboratorio Teatro Settimo, di cui cura gli spettacoli non solo in veste di scenografo e costumista, ma lavora anche come grafico, pittore e scultore. Tra gli allestimenti più significativi si ricordano: Esercizi sulla tavola di Mendeleev (1984), Elementi di struttura del sentimento (1985), Riso amaro (1986), Nel tempo tra le guerre (1988), Libera nos (1989), Dei liquori (1993), Bzz Bzz Bzz (1993), Novecento (1994), Tartufo (1995), Canto per Torino (1995), Uccelli (1996), Napjevi gradova canto delle città (1996), Totem (1997), Antenati (1998). Dal 1990 ha esteso la sua collaborazione ad altre compagnie, provandosi anche in allestimenti di opere liriche, e ha inoltre ampliato l’attività di mostre e installazioni.

decentramento teatrale

In origine il termine decentramento teatrale si riferiva alla situazione teatrale della Francia, un Paese la cui vita culturale e artistica si svolgeva tradizionalmente soprattutto a Parigi. Per quanto riguarda l’Italia, dove da sempre esiste un gran numero di palcoscenici capillarmente sparsi lungo il territorio, il concetto di d. assunse per forza di cose altre connotazioni: si impose intorno alla fine degli anni ’60, sulla scorta del clima ideologico e dell’attenzione sociale dell’epoca, e denotò sostanzialmente il bisogno delle istituzioni e dei gruppi teatrali di cercare un nuovo pubblico più popolare nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, insomma lontano dai luoghi in cui si consumavano i riti culturali delle platee colte ed eleganti. Il fenomeno riguardava dunque quasi esclusivamente le grandi città, e specilamente Milano, dove Paolo Grassi – temporaneamente da solo alla guida del Piccolo Teatro – promosse una frenetica attività promozionale nelle zone della periferia più disagiata, sotto tendoni da circo che di volta in volta si spostavano da un quartiere all’altro. Messa in discussione per la sua precarietà strutturale, la politica dei tendoni lasciò spazio, in seguito, all’insediamento di teatri in muratura, come il Teatro Uomo di via Gulli, ugualmente situato in luoghi impervi. Ma l’idea del d. in quanto tale andò in crisi dopo poco meno di un decennio, quando ci si avvide che il pubblico preferiva accollarsi i disagi dello spostamento nei teatri del centro, rifiutando alla lunga il principio – ritenuto forse ghettizzante – della `ribalta sotto casa’.

De Rossi

Esordisce nell’ambito del teatro di ricerca nel doppio ruolo di attore e regista, privilegiando testi contemporanei, non solo italiani. Si conquista per l’interpretazione dello spettacolo Melampo di E. Flaiano, di cui è anche regista, il premio Idi maschera d’oro 1988. È uno stizzoso, altero e dolente Leopardi in Giacomo il prepotente di G. Manfridi con la regia di P. Maccarinelli (1988-89). Con quest’ultimo, E. Pozzi, F. Però e W. Le Moli fonda l’associazione culturale Tea (Teatro e autori) per promuovere nuovi testi. Dirige e interpreta Il sorriso di David di V. Haim (1990), Valentin , commedia musicale su testi di K.Valentin (1992-93), La notte e il momento di C. Fils (1993-94) e Giudizio universale di V. Alfieri. Dal 1995 fa parte della compagnia dello Stabile di Roma diretta da L. Ronconi: interpreta Kent nel Re Lear , Ruy Blas di V. Hugo, il commissario Fumi nel Pasticciaccio di Gadda (1996), Davila Roa , I fratelli Karamazov (1998). Cura la regia di Memorie del sottosuolo da Dostoevskij, e interpreta L’Alcesti di Samuele di A. Savinio (1998-99).

Delaney

Venne scoperta dal Theatre Workshop, che rappresentò nel 1958 Sapore di miele (A Taste Of Honey), storia di un’adolescenza difficile sullo sfondo del nord industriale inglese, da cui è stato tratto l’omonimo film interpretato da Rita Tushingham (1961, regia di Tony Richardson, con la sceneggiatura della stessa D.). Seguì Il leone innamorato (The Lion in Love, 1961); ha scritto per radio, cinema e televisione ed è autrice dei racconti di Dolcemente canta l’asino (Sweetly Sing the Donkey, 1963).

Diaghilev

Studiò legge a Pietroburgo e qui entrò nel circolo di amici e artisti (pittori, musicisti, scrittori) gravitanti intorno a due illustri pittori-scenografi, Alexandre Benois e Léon Bakst. In questa situazione diventò cofondatore, nel 1899, della celebre rivista d’arte “Mir Iskustva” (Il mondo dell’arte). Nello stesso anno fu nominato consulente artistico del teatro Marijinskij, ove pubblicò gli annali del teatro e curò gli allestimenti dell’opera Sadko di Rimskij-Korsakov e del balletto Sylvia di Delibes. Con la cessazione delle pubblicazioni, si volse all’organizzazione di mostre d’arte russa, sia a Pietroburgo sia a Parigi (1904). Nel 1908 fece conoscere al pubblico parigino il Boris Godunov di Musorgskij, con il grande basso Fëdor Šaljapin. Partito dalla musica, dai concerti e dall’opera lirica, D. approdò al balletto che gli nacque come scoperta meravigliosa, messa soprattutto in relazione ai mutamenti e ai rinnovamenti dell’arte teatrale. Con elementi attinti dai teatri imperiali di Mosca e di Pietroburgo, formò una compagnia che ottenne trionfi a Parigi nel maggio-giugno 1909. La visita in Occidente gli fece balenare l’idea di costituire stabilmente una compagnia vera e propria di ballerini, (Les ? Ballets Russes), appoggiandosi per lo più a quella che in breve tempo divenne la stella del complesso per molteplici doti e meriti, dalla presenza fisica alla bravura tecnica: Vaslav Nijinskij, dimissionario dal Marijinskij. D. ne rimase, fino alla morte, arbitro assoluto. La sua azione fu determinante per la trasformazione e la formazione del balletto europeo. Purtroppo la compagnia fu costantemente sull’orlo del disastro finanziario, non tornò in Russia e rimase circoscritta a un’impresa privata di carattere elitario, sostenuta dal provvido intervento della grande finanza nella quale D. contava qualche amico. Intanto la straordinaria scoperta diaghileviana andò molto avanti: il balletto acquistava dignità d’arte, cercava e trovava nella collaborazione più vasta di artisti una fisionomia unica e particolarissima. Ovviamente, non era ballerino, quindi non coreografo, non pittore, nemmeno teatrante, contrariamente a quanto si legge erroneamente. Eppure fu l’iniziatore attivo di un movimento critico ed estetico che doveva rinnovare il teatro, inserendosi nella coscienza viva dell’artista moderno. In altra parte si potranno leggere i nomi di quel favoloso ventennio: ballerini, coreografi, musicisti, scenografi, direttori d’orchestra, fra i quali possiamo individuare molte personalità che hanno fatto parlare di sé per lungo tempo, alcune delle quali assurgendo addirittura a mito nella storia della danza e del costume. Si è rimproverato ingiustamente a D., da più parti, di aver voluto allargare troppo i confini del balletto come rappresentazione teatrale e di disperdere la sua vera natura in una ricerca di apporti disparati marginali. Una cosa è certa: mai la danza, nel corso della sua avventurosa esistenza, era stata beneficiata di tanta squisitezza estetica.

D’Ambrosi

Milanese, dopo aver giocato nel Milan, Dario D’Ambrosi si avvicina al teatro e nel 1979 crea il ‘Gruppo teatrale D. D’Ambrosi’, primo passo verso la creazione del Teatro Patologico, di cui è fondatore. Un genere di teatro che gli è suggerito da anni di studio e lavoro con i malati di mente, con i quali ha convissuto, facendosi ricoverare all’interno dell’Ospedale psichiatrico `P. Pini’ di Milano. I suoi spettacoli raccontano con un linguaggio espressivo, ribaltando sovente i canoni fissi dell’interpretazione, dove la parola viene spesso sostituita e messa da parte da un gesto forte teatrale e dalla pantomima. I principali argomenti dei suoi lavori sono temi psicologici e storie di emarginazione, spesso tratte dalla cronaca, e ruotano attorno al confine tra la realtà e la follia. Ha avuto, prima di quello italiano, un grande successo in America, dove è approdato nel 1980, al Café La Mama di New York, storico santuario dell’Off-Broadway di Ellen Stewart con la quale ha prodotto il suo secondo spettacolo I giorni di Antonio , la storia vera di un malato di mente ricoverato in un ospedale lombardo ai primi del ‘900. Divide la sua attività tra il teatro e il centro di Psichiatria sociale di Roma. Organizza dal 1989 il Festival mondiale del Teatro Patologico e a New York il Festival del teatro d’avanguardia italiano. Fra i suoi lavori sono da ricordare soprattutto L’altra Italia , Cose da Pazzi (1987), No grazie me ne torno (1991), Un regno per il mio cavallo , tratto da Riccardo III di Shakespeare (1995), La trota , Sogni di maschio , Principe della follia (1997).

De La Roche

Dopo gli studi dall’American Ballet School si è dedicato alla danza jazz, esibendosi come solista in numerosi musical come Dancin’ di B. Fosse. Trasferitosi in Italia, divide la sua attività di danzatore e coreografo tra varietà televisivi ( Rose rosse ), teatro musicale ( La Bella e la Bestia ) e balletto, collaborando con varie compagnie come Fabula Saltica ( Ragazzi selvaggi ) o Euroballetto ( Bolero) .

Dupuy

Michaud; Lione 1925), ballerini e coreografi francesi. È grazie a questa singolare coppia che, a partire dalla fine degli anni ’50, la danza in Francia ha cominciato a percorrere strade più nuove, moderne e originali. Dopo aver studiato negli Usa con Cunningham e altri artisti, tornati nel loro Paese i due sono diventati protagonisti di varie e interessanti esperienze, partecipando alle attività del Ballet des Arts (1947-49) e di ambienti d’avanguardia parigini. Attraverso seminari e interventi didattici, ma soprattutto attraverso corsi di composizione, i D. hanno stimolato il lavoro e la fantasia di giovani coreografi destinati a sicuro avvenire. Nel 1955, sempre a Parigi, hanno dato vita a una Académie de danse contemporaine da cui è nata anche una compagnia (Les Ballets Modernes de Paris) con la quale hanno compiuto diverse tournée nella vasta provincia francese, proponendo spesso lavori influenzati da letterati quali Valéry, Claudel, Cocteau. È nel loro celebre studio che comparve per la prima volta in Francia lo stesso Cunningham.

Dessì

Mantenendo un’eleganza stilistica di fondo, i suoi testi sono imbevuti di realismo e impegno civile. Il suo dramma più celebre, Eleonora d’Arborea (1964), dedicato alla storia della Sardegna, fa emergere in modo vivo e lacerante le contraddizioni e i conflitti sociali della sua terra. Fra le altre opere: La giustizia (1959), Isabella comica gelosa (1959), Qui non c’è guerra (1960), Il grido (1960).

Diverrés

Dopo un’infanzia trascorsa tra Africa e Francia, studia danza classica e, successivamente, contemporanea, attenta ai modelli americani. Negli anni ’70 è, anche in veste di insegnante, al Mudra di Bruxelles, prima di far parte di diverse compagnie, quali quelle di Blaska, Verret e Bagnouet. Nel 1979 determinante è il suo incontro con Bernardo Montet, con il quale nel 1982 si reca in Giappone alla scuola di Kazuo Ohno; nel 1983 creano insieme lo Studio DM, realizzando una ventina di lavori nei quali mettono a frutto una concezione alquanto personale della danza. Appassionata di letteratura, D. presenta Poussières , lavoro in cui l’universo di Dostoevskij si sposa a quello di Goya. Con L’ombre du ciel (1994) collabora con l’artista plastico indiano Anish Kapoor, in un rapporto danza-scultura molto spettacolare. È del 1997 Stances I (per nove danzatori) e Stances II (assolo da lei stessa danzato), lavori di impeccabile plasticità, ma al tempo stesso impregnati dell’umanismo poetico assorbito dal maestro giapponese. Dal 1995 dirige con Bernardo Montet il Centre chorégraphique national di Rennes.