Bene

Carmelo Bene esordisce nel 1959 al Teatro delle Arti di Roma nel Caligola di Camus diretto da Alberto Ruggiero, ma già l’anno successivo offre un lavoro creativo autonomo con Spettacolo Majakovskij , arricchito dalle musiche di S. Bussotti. Gli anni ’60 rivelano la novità dirompente dell’arte di B. Nascono spettacoli di inattesa forza eversiva e di oltraggiosa provocazione: Pinocchio da Collodi (1961), Amleto da Shakespeare (1961), Edoardo II da Marlowe (1963), Salomè da O. Wilde (1964), Manon da Prévost (1964), Nostra Signora dei Turchi (1966), Amleto o le conseguenze della pietà filiale da Shakespeare e Laforgue (1967), Arden of Feversham (1968), Don Chisciotte in collaborazione con Leo De Berardinis (1968). Il decennio, fra i più fecondi nella carriera di Carmelo Bene, consegna a un pubblico spesso scandalizzato spettacoli inattesi, creazioni che l’attore tornerà a rielaborare con accanimento, ricercando un punto prospettico sempre variato e conturbante. In quel decennio Carmelo Bene, oltre a costituire una propria compagnia in sodalizio con Lydia Mancinelli, partecipa all’attività del Beat ’72; sperimenta il cinema, realizzando il lungometraggio Nostra Signora dei Turchi (1968), che segue i mediometraggi Ventriloquio (1967) e Hermitage (1968); aderisce al `Manifesto per un nuovo teatro’ firmato a Ivrea nel 1967 dalle schiere più avanzate della cultura e della ricerca teatrale. Carmelo Bene è ormai il simbolo di un’arte antagonistica, opposta al teatro ufficiale. Per la prima volta, con lui, prende corpo una nuova nozione di attore, che non è soltanto un dissacratore di regole, di repertori e di autori, ma molto di più e di diverso: è l’attore filosofico, l’attore ideologico, l’attore saggista, che si pone «al di qua della rappresentazione e al di là del teatro» (M. Grande). Invece delle superstiti sicurezze dei cosiddetti grandi attori, dà al pubblico dubbi, polivalenze e ambiguità di significati, sottili intarsi culturali, la degradazione parodistica. Nel Romeo e Giulietta (1976), per esempio, si assume la parte di un Mercuzio che non muore a metà della tragedia, ma continua nelle parole di Romeo, da lui plagiato e fagocitato, ridotto a un mimo animato soltanto dal suo padrone e partner, la cui voce gli è trasmessa attraverso il play-back. È un caos doloroso e beffardo, il crollo di ogni illusione interpretativa.

È il cosiddetto teatro della sottrazione o dell’amputazione: Carmelo Bene elimina dai testi il dato ideologico immobile e vi sostituisce una potente forza distruttiva, con cui cancella il rapporto attore-personaggio, autore-regista e, di conseguenza, la rappresentazione convenzionale. Nascono da qui S.A.D.E. (1977), Lorenzaccio (1986), La cena delle beffe e Pentesilea (1989), dove l’elemento negativo sembra travolgere la nozione stessa di teatro. Nasce ancora da qui la rissosa e sfortunata direzione della Biennale Teatro nel 1989, in cui B. promette uno strenuo esercizio di ricerca teorica il cui scopo è il teatro senza spettatori. Pensiero negativo. Ma Carmelo Bene esce dalla negatività per affermare l’unica presenza per lui possibile, quella dell’attore; l’attore che non si nasconde dietro il personaggio, rifiuta di morire con Mercuzio, ma ripropone continuamente se stesso come realtà esistenziale in cui il poeta e la sua visione fantastica si fondono e finiscono con lo scomparire. L’attore, cioè il diverso: con la sua nevrosi, i suoi eccessi e mancamenti, la sua ambiguità sessuale, il suo autobiografismo ostentato, la distruzione di se stesso in pubblico, nell’onda di grandi musiche che enfatizzano i sentimenti caduti. Così, fra l’altalena del dubbio e lo schiocco dell’oltraggio, Carmelo Bene mette in discussione non solo il teatro nella sua accezione storicamente accertata, ma anche lo spettatore, invitato a riconoscere come unica realtà la sofferenza, la nausea, il narcisismo spudorato e malinconico, l’impotenza, la protervia e la mortale consapevolezza dell’attore, che ora ha perduto ogni connotato psicologico ed è diventato una macchina attoriale, arrivando a raccontare se stesso col nastro del play-back, in quinta, e avendo per interlocutori dei manichini. L’elemento vivo della macchina attoriale è la voce, che con Bene diventa phoné: uno strumento duttile, ricco di ombreggiature e di colori, di timbri, di sonorità e di cupezze, messi al servizio non solo dei personaggi anchilosati e collassati, ma anche del verso poetico, che egli esplora non nella cantabilità, ma nella profondità emotiva e concettuale, restituendolo a platee anche immense (Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna nel 1981) con l’uso del microfono, che con lui non è più una protesi, ma è la voce che vince il suo stesso corpo. Ed ecco le letture di Majakovskij e dei Canti orfici di Dino Campana, ecco Leopardi, ecco i concerti per voce recitante, come Manfred di Byron (1979, musica di Schumann), Hyperion di Maderna (1980) ed Egmont da Goethe con musiche di Beethoven (1983); ecco Hamlet Suite (1994), in cui l’opera di Laforgue ha le musiche di B. È l’apoteosi dell’attore-creatore che si è specchiato in G. Deleuze e in Nietzsche, si è sovrapposto ai grandi scrittori della scena reinventandoli in un’assoluta originalità ed è arrivato al grado massimo di narcisismo con l’autobiografia Sono apparso alla Madonna (1983), inserita nell’opera omnia pubblicata nel 1995.