Preljocaj

Angelin Preljocaj studia danza classica e successivamente contemporanea con Karine Waehner e con Merce Cunningham a New York. Fra il 1981 e il 1984 danza nelle compagnie di Quentin Rouillier, Viola Farber e Dominique Bagouet. Fonda la propria compagnia nel 1984 e un anno dopo vince il primo premio al Concorso di Bagnolet con il Marché Noir . Nel 1986 si installa con la sua compagnia a Champigny sur Marne e crea Peurs Bleues (1985), Larmes Blanches (1985). È con A nos Heros (1986), dedicato agli eroi sconosciuti e anonimi delle dittature socialiste, che acquista notorietà di coreografo impegnato su temi forti e che sa condensare in pochi gesti grande eloquenza, sensualità, passioni. Seguono nel 1987 Le Petit Napperon Rouge e Hallali Romèe , dedicato a Giovanna d’Arco e al tema della castità. Ribaltamento totale con Liqueurs de Chair (1988), che affronta invece l’argomento degli incontri e scontri sessuali.

Nel 1989 la compagnia diventa Centro coreografico nazionale. Nello stesso anno con Noces (musica di Stravinskij) incomincia quella rivisitazione dei Ballets Russes che lo vede impegnato nel 1993 in un Hommage aux Ballets Russes all’Opéra di Parigi (Parade, Spectre de la Rose e Noces). Amer America del 1990 nasce per la Biennale di Lione e nello stesso anno, per il Lyon Opéra Ballet, Preljocaj crea una sua versione di Romeo e Giulietta , ambientato dalle scene e costumi di Enki Bilal in un mondo futuro dominato da dittatura sessuofoba. Nel 1992 è la volta di La Peau du Monde , meditazione sul rapporto fra l’uomo e la terra. Dopo aver collaborato con il Centre National de la Danse e de l’Image di Châteuvallon edessere stato invitato a creare un balletto per l’Opéra di Parigi, Le Parc , dal 1995 Preljocaj con la sua compagnia si installa ad Aix-en-Provence. Qui ricrea il Romeo e Giulietta per i propri danzatori nel 1996. Nel 1997 coreografa Paysage après la bataille, e per l’Opéra di Parigi Casanova. Nel 1999 è invitato a lavorare per il Balletto della Scala di Milano. Emerso come nome forte dalla generazione della Nouvelle Danse francese degli anni 1980, Preljocaj ha dimostrato sempre più una personalità marcante i cui lavori superano i confini di una tendenza coreografica e definiscono il profilo di un grande creatore.

Bartolomei

Gabriella Bartolomei studia al conservatorio `L. Cherubini’ di Firenze con M. Cremesini, e prosegue la sua ricerca sull’espressione vocale con gli studi d’arte drammatica con N. Bonora e T. Pavlova. La ricerca espressiva sul suono e sulla voce rivela l’attenzione dell’attrice per l’intima musicalità delle cose, dei gesti, degli eventi. Guidata da R. Frangiapane, l’ottica analitica di Bartolomei converge verso l’originale composizione di `scritture vocali’ in cui corpo e voce si fondono in un rapporto di intima specularità: la nota musicale, mai interpretata, si innesta a posteriori sulla partitura vocale. Il percorso artistico dell’attrice è segnato dall’incontro con il regista Pier’Alli e dal dialogo con compositori quali S. Bussotti, G. Battistelli e D. Lombardi.

Fra le scritture vocali realizzate per Pier’Alli e il gruppo Ouroboros da lui diretto si ricordano quelle per Il Brasile di R. Wilcock, in Confronto I (Firenze 1968), Ludus , da Haute surveillance di Genet (Venezia 1970, musiche di A. Benvenuti), e soprattutto Winnie dello sguardo da Giorni felici di Beckett (Firenze 1978, musiche di Bussotti) e Giulia round Giulia da Signorina Giulia di Strindberg (Festival d’Avignone 1981). Con S. Sciarrino ha realizzato la prima assoluta di Lohengrin da J. Laforgue (Milano, Piccola Scala 1982-83, regia di Pier’Alli); con D. Lombardi Kaos da Ovidio (1992) e O frères da Valéry (1995); con G. Battistelli Aphrodite da Pierre Lou&yulm;s (1986), Ascolto di Rembrandt da G. Ceronetti (1993) e Frau Frankestein da M. Shelley (1993). Importanti anche le `scritture vocali’ composte per balletti quali Schiaccianoci da Hoffmann (1990), Herodiade da S. Mallarmé (1993) e Sogno di una notte di mezza estate da Shakespeare (1995). Definita `musicista per musicisti’ oltre che attrice, autentica portatrice di phoné (con un analogo internazionale forse in Meredith Monk), è stata interprete de La caduta di casa Usher, film-spettacolo diretto da Pier’Alli per la Scala (Festival Debussy, 1986) e, negli ultimi anni, ha indirizzato il proprio interesse verso la dimensione terapeutica del suono e del corpo vocale.

Vinogradov

Oleg Michajlovic Vinogradov si è diplomato all’Istituto coreografico di Leningrado e dal 1958 al 1965 danza al Teatro di Novosibirsk dove realizza le sue prime prove coreografiche ed è nominato coreografo sino al 1968. Dal 1968 al ’72 è coreografo al Teatro Kirov; dal 1973 al ’77 è coreografo al Malyj Teatr di Leningrado. Nel 1977 è nominato direttore artistico e coreografo principale del Balletto del Kirov. Nel periodo in cui è attivo al Malyj la sua più importante coreografia è Jaroslavna (realizzata con la regia di J. Ljubimov, 1974). Fra le sue coreografie Cenerentola (varie edizioni), La ballata dell’ussaro (1979), Il revisore (1980), Il cavaliere dalla pelle di tigre (1985) La corazzata Potëmkin (1986), Petruška (1990), Coppélia (1992), La fille mal gardée (1994). È negli anni ’50 e ’60 che mette in luce le sue qualità di coreografo innovatore della tradizione classica, mentre nei lavori più si riavvicina al genere ottocentesco del balletto pantomima. Durante la direzione del Kirov conserva meritoriamente il repertorio ottocentesco del teatro. Lascia la direzione del Teatro Marijnskij (così è chiamato il Kirov, dagli anni ’90) dopo uno scandalo per corruzione nel 1996; è attivo come coreografo e direttore di compagnie negli Usa e in Corea.

Kirkland

Formatasi presso la School of American Ballet, entra al New York City Ballet (1968), dove diventa solista e prima ballerina (1972). Danza ruoli da protagonista in Firebird e Suite No. 3 di Balanchine, Goldberg Variations , Scherzo fantastique e An Evening’s Waltzes di Robbins. Entra poi nell’American Ballet Theatre (1974), dove è partner di Barišnikov e Nureyev, e interpreta The Leaves are Fading di Tudor e Hamlet: Connotations di Neumeier. Nota per la sua tecnica brillante, in Italia si è esibita a Venezia, in piazza San Marco, con Fracci, Barišnikov e Bortoluzzi ( Serata a quattro , 1975), e al Regio di Torino in Coppelia – (1982). Ha scritto con il marito, Greg Lawrence, una polemica autobiografia, Dancing on My Grave (1986).

Cremona

Dopo studi a Parigi con vari insegnanti si è trasferita a New York, dove ha studiato con la Graham, Nikolais, la Farber e Cunningham (presso la cui scuola insegnerà per cinque anni). Contemporaneamente ha esperienze come danzatrice con il David Gordon Group e con Meredith Monk e Twyla Tharp. Rientrata in Francia, nel 1980 fonda a Lione, con il suo collega e compagno di studi Roger Méguin, la scuola che porta il loro nome. Nel 1982 dà vita a una compagnia per la quale crea varie coreografie, di cui è protagonista insieme a Méguin: Sans titre ni musique , Boivre , Via Air Mail , Jadi Orki , Dedalyse , Corne d’est , Escia ; e ancora, Maissilyadelapluiedansleventquivoyage e l’appassionante Alhhard (1982). Nei suoi lavori si ritrovano lo spirito e i procedimenti della `postmodern dance’, ma utilizzati con grande immaginazione e sensibilità.

Chase

Dopo gli studi con Mordkin, Fokine, Tudor, Vilzak, Nijinska, nel 1938 Lucia Chase ha debuttato con il Mordkin Ballet. È stata tra i fondatori del Ballet Theatre, divenuto in seguito American Ballet Theatre, che ha finanziato ampiamente. Protagonista di Giselle, Fille mal gardée , Romeo e Giulietta, Pillar of Fire, Fall River Legend, Dark Elegies, Petruska, Les Sylphides, Pas de quatre, si è ritirata dalle scene nel 1980. Con la sua dedizione e la sua generosità ha esercitato grande influenza sulla nascita, crescita e diffusione del balletto statunitense.

Mazzali

Bruno Mazzali fonda la compagnia teatrale ‘Patagruppo’ (in cui lavora l’attrice Rosa Di Lucia, immancabile interprete dei suoi allestimenti), attiva nell’ambito dell’avanguardia. L’esordio è del 1972 con Ubu re di Jarry, a cui seguono: La conquista del Messico di Artaud (1973); Solitaire Solidaire dello stesso Mazzali (1976, ripresa nel 1979); La locandiera di Goldoni (1980). Numerosi i monologhi affidati alle doti interpretative della Di Lucia: Insulti al pubblico di P. Handke (1973, ripresa nel 1979); Senza patente, dall’intervista giornalistica a una prostituta (1976); Sinfonietta , raccolta di oltre 150 poesie di Ripellino (1979). Tra le altre regie segnaliamo: Sole e acciaio di M. (1982); Berenice di Racine, adattamento di E. Siciliano (di cui cura anche le scene e i costumi, 1984); Gige e il suo anello di Hebbel (anche le scene, 1986); Rumore di fondo di G. Manacorda (1988).

Colasanti

La carriera di Veniero Colasanti prende avvio con due balletti di B. Romanoff, Madrigale e Pulcinella (Roma, Teatro La Quirinetta 1936) e prosegue con I cavalieri di Ekebù di Zandonai (Roma, Teatro dell’Opera 1938), per cui elabora costumi accuratissimi. Ormai affermato, lavora con S. Landi in La mandragola di Machiavelli (Roma, Teatro Quirino 1944) e con E. Giannini in Strano interludio di O’Neill (Roma, Teatro Eliseo 1946); con G. Salvini stringe un rapporto più intenso (celebre la Turandot di Busoni nel Maggio musicale fiorentino del 1940), affrontando con lui classici come Le baccanti di Euripide e I persiani di Eschilo (Siracusa, teatro Greco 1950); importante anche Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais per la regia di L. Visconti (Roma 1946), dalle luminose e preziose rifiniture. Nonostante uno stile a volte ridondante (Lo schiaccianoci e La bella addormentata di Cajkovskij, Roma, Teatro dell’Opera, 1953 e 1955), ne Il vortice di Rossellini (Napoli, San Carlo 1958), riesce a raggiungere una forte sintesi sfruttando alcuni telai metallici neri, sagomati e vuoti. Interessante l’allestimento scaligero dell’ Iris , di Mascagni (1957); per Otello di Verdi (Palermo 1977-78) collabora con John Moore, con cui lavora anche per Jedermann di Hofmannsthal (festival di Salisburgo 1973), elaborato dalle tele di Cranach. Dal 1941 si dedica con assiduità anche al cinema.

Vitez

Figlio di un anarchico, solo dopo i vent’anni Antoine Vitez scopre la sua vocazione teatrale salendo per la prima volta su di un palcoscenico come attore al Teatro quotidiano di Marsiglia. Intanto però ha cominciato a lavorare sia come traduttore (fra l’altro Il placido Don di Šolokov) che come segretario del grande poeta francese L. Aragon. Solo nel 1966 V. firma, a Caen, la sua prima regia, Elettra , alla quale seguirà ben presto Il bagno di Majakovskij (1967), autore che il regista, che parla perfettamente il russo, contribuisce a fare conoscere in Francia. Trasferitosi a Parigi collabora al Teatro di Nanterre inventando i `teatri quartiere’ nella `banlieu’ parigina, luoghi dove rappresentare spettacoli che si possono fare sotto i tendoni, nelle palestre. Nel 1972 J. Lang lo chiama accanto a sé al Théâtre National de Chaillot come consulente artistico. Qui firma alcuni fra gli spettacoli più importanti degli anni ’70 a cominciare dalla Fedra di Racine (1975).

Fra gli autori che gli sono più cari il primo posto lo occupa probabilmente Molière: a V., infatti, si deve una tetralogia molieriana (La scuola delle mogli, Tartufo, Don Giovanni, Il misantropo) presentata ad Avignone nel 1978 con enorme successo («Vitez, ti amo» sta scritto sui muri di Avignone) che, interpretata quasi interamente da giovani, ha il merito si svecchiare l’approccio a Molière. Nominato nel 1981 direttore del Teatro Nazionale di Chaillot mette in scena Britannico di Racine (1981) e Amleto con R. Fontana (1983). Accanto a Molière, Cechov e Goethe (di cui dirige e interpreta il Faust , 1981) propone: Hugo (Lucrezia Borgia, per esempio, con la bravissima N. Strancar, 1985), Claudel, di cui firma, fra l’altro, la regia di una strepitosa versione integrale di Le soulier de satin (1987), fino alla Celestina di de Rojas messo in scena al festival d’Avignone nel 1989 per J. Moreau. Intanto, nel 1988, diventa amministratore della Comédie-Française, dirige al Piccolo di Milano Il trionfo dell’amore con M. Crippa (1986). Ed è sotto la sua direzione che Brecht con Vita di Galilei (1990) viene rappresentato per la prima volta nella casa di Molière, pochi giorni prima della sua morte. In sintonia con un’ipotesi di teatro alla quale è connessa l’idea del rischio, V. si avventura spesso nei territori della drammaturgia contemporanea.

Maestro, anzi pigmalione, di intere generazioni d’attori ai quali come docente al Conservatoire insegna a concepire il teatro come una missione, Vitez, regista raisonneur, spesso controcorrente, si è scelto i suoi maestri in L. Jouvet e in Mejerchol’d. In sintonia con questa scelta ha sempre perseguito l’idea di un teatro non di evasione, non di magia, ma specchio inquieto del mondo e dei tempi in cui viviamo. Muore a Parigi lasciando nel teatro francese un vuoto incolmabile.

Antona-Traversi

Giannino Antona-Traversi fu assertore pugnace, come il fratello Camillo, del naturalismo teatrale. Le sue molte commedie furono soprattutto specchio di denuncia satirica di certa frivola società italiana a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Ricche di indagine psicologica, anche se non indenni dalla prova del tempo, sono tra esse rimarchevoli come documenti di costume: Il braccialetto, L’amica, I giorni più belli, La civetta, La madre, Il battistrada.

Ghini

Figlio di un partigiano di Parma deportato a Mauthausen, è politicamente impegnato sin da ragazzo (è stato consigliere comunale per il Pds a Roma) ma anche attore specializzato in ruoli brillanti e ironici fuori di macchietta (32 film, tra i quali l’intrigante Zitti e mosca di A. Benvenuti, in cui interpreta un riconoscibile parlamentare della Sinistra), spesso insieme all’ex-moglie N. Brilli. Nel 1995 ha interpretato il remake del il musical Alleluja brava gente accanto a S. Ferilli.

Biagi

Enzo Biagi al teatro dedica alcuni lavori, soprattutto nel corso degli anni ’50. Noi moriamo sotto la pioggia è la sua prima pièce, portata sulla scena da Fantasio Piccoli al conservatorio di Bolzano nel 1952 (seguì un’edizione in tedesco rappresentata a Vienna e Salisburgo). Nel corso dell’anno successivo realizza Giulia viene da lontano. E vissero felici e contenti viene allestita a Milano, presso il Teatro Nuovo, nel 1956, da una compagnia di grido come la De Lullo-Falk-Guarnieri-Valli. In collaborazione con Sergio Zavoli, B. ha scritto 50 anni della nostra vita , una commedia a sfondo sociale rappresentata al Teatro Biondo di Palermo nel 1974.

Kresnik

Giunto alla danza dopo i vent’anni Johann Kresnik debutta con Jean Deroc a Graz, danzando in seguito come solista a Brema; nel frattempo continua a perfezionarsi e studia balletto classico con Victor Gsovskij, Nadine Legat e George Balanchine e jazz con Walter Nicks. Dopo aver debuttato nella coreografia a Colonia ( O Sela Pei , 1967), l’anno successivo assume la direzione del Bremer Tanzensemble e approfondisce la sua ricerca teatrale; in collaborazione con importanti artisti contemporanei (Joseph Beuys, Erich Wonder come scenografi, Heiner Müller come coautore) realizza lavori volutamente provocatori nel linguaggio coreografico e nella scelta musicale, ispirati ai conflitti sociali e politici dell’epoca, tra i quali citiamo Pegasus (1970) sull’America di Nixon e Schwanensee (1973), dove Rothbart ha l’aspetto di un nazista. Assunta nel 1979 la direzione del teatro di Heidelberg, definisce ulteriormente la sua forma di teatro coreografico, di forte tradizione espressionista, e passa a mettere in scena l’indagine di una dimensione più privata dei conflitti umani, realizzando visionarie e allucinate teatralizzazioni delle biografie di Ulrike Meinhof (1982), Sylvia Plath (1985), Pasolini (1986). In seguito, nuovamente a Brema (1989-93) e alla Volksbühne di Berlino (dal 1993), in qualità di regista e coreografo, produce Francis Bacon (1994) e Othello (1995), entrambi in collaborazione con il danzatore Ismael Ivo, Frida Kahlo (1996), Hotel Lux (1998).

Troisi

Dopo aver preso parte a diversi allestimenti per i teatri stabili dell’Aquila e di Palermo (L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello con F.Parenti), Lino Troisi è protagonista in Processo a Giordano Bruno di Moretti con A. Pierfederici quindi approda al Piccolo Teatro di Milano dove lavora per circa dieci anni. La sua prima partecipazione agli spettacoli del teatro di Strehler è con il discusso allestimento di Grüber Nostalgia di Jung (1983-84); segue La medesima strada , diretto dallo stesso regista su un insolito testo costituito da frammenti di Sofocle, Eraclito, Parmenide, Empedocle (1988); L’affare di E. Bertazzoni e A. Magliani, regia di H. Brockhaus (1989); Le baruffe chiozzotte di Goldoni, regia di Strehler (1992); I giganti della montagna di Pirandello, regia di Strehler (1994) e Splendid’s di Genet, regia di Grüber (1995).

Page

Si rivelò nel 1951 in un’acclamata ripresa Off-Broadway di Estate e fumo di T. Williams, del quale interpretò anche, ammiratissima, La dolce ala della giovinezza (sulle scene nel 1958 e sullo schermo nel 1962). Fedele discepola di Strasberg, sotto la cui direzione fu Olga in una discussa edizione delle Tre sorelle , aveva trovato nelle eroine di questo autore i veicoli più atti a mettere in luce il proprio talento (usato proficuamente anche da Hollywood). Ma seppe pure affrontare con successo ruoli comici in testi come Black Comedy di P. Shaffer e Assurdamente vostri di A. Ayckbourn.

Manfridi

Giuseppe Manfridi dopo gli studi classici, svolge attività giornalistica per “La città futura” e “Il Dramma”, rivista di Diego Fabbri. Esordisce come autore, attore e regista nel 1976, allestendo Andromaca, la condizione estrema dell’urlo , ai teatri La Comunità e SpazioUno di Roma. Sin dai primi testi ( La leggenda della madre benedetta , 1979; Una stanza al buio , 1981), M. si segnala per l’originalità e l’intensità poetica della sua scrittura, sempre attenta al reale, al quotidiano, alle evoluzioni e le tendenze linguistiche non solo del contemporaneo. Autore particolarmente prolifico (oltre cinquanta i testi teatrali andati in scena), M. raggiunge notorietà grazie a Teppisti del 1985 (più volte ripreso); Una serata irresistibile (1986, premio Idi under 35); Liverani (1986, premio Riccione Ater); Anima bianca (1986, premio Idi); Giacomo il prepotente (1989, premio Taormina Arte e medaglia d’oro Idi), Ti amo, Maria (1989, premio Riccione Ater); Arsa (1989, 1993, 1995); La leggenda di San Giuliano (1991, presentato al festival d’Avignone); Zozòs (1994, ’96, ’97); La partitella (1995). Traduce in italiano le opere di Steven Berkoff e Jasmina Reza, firma le sceneggiature dei film Ultrà , regia di Ricky Tognazzi (1991, Orso d’argento al festival di Berlino), Vite strozzate (1996, regia R. Tognazzi); I maniaci sentimentali e Camere da letto (1996 e 1997, regia di Simona Izzo). I testi di M. sono tradotti e allestiti in Francia, Svezia, Grecia, Stati Uniti e Argentina.

Quintero

José Quintero fu nel 1951 tra i fondatori del Circle in the Square al Greenwich Village, uno dei primi teatri Off-Broadway, nell’intento di presentare, in spettacoli spesso a pista centrale, riprese di testi meritevoli di rivalutazione. Vi allestì, fra l’altro, edizioni memorabili di Estate e fumo , di T. Williams, con G. Page e di Viene l’uomo del ghiaccio di O’Neill con J. Robards. Di O’Neill mise inoltre in scena le maggiori opere postume, a partire da Lungo viaggio verso la notte , ma diresse anche testi di Behan, Wilder, Genet e altri. Nel 1980 dopo alcuni insuccessi ( Clothes for a Summer Hotel , penultimo testo di T. Williams) lasciò New York per aprire nuovi spazi teatrali, prima a Los Angeles, poi a Boston. Nel 1974 pubblicò un’autobiografia.

Fergusson

Dopo aver compiuto i suoi studi a Harvard e Oxford, gli viene assegnata la cattedra di Letteratura comparata presso l’università dell’Indiana. Dal 1936 al 1948 assume la direzione artistica del teatro del Bennington College; questa esperienza come regista si rivela fondamentale e istruttiva per la sua professione di critico. Nel 1949 pubblica Idea di un teatro (The idea of a Theatre), in cui sottolinea il valore mimetico ed esemplare dello spettacolo teatrale, dove nel breve spazio della rappresentazione si deve riprodurre l’intera complessità della condizione umana. F. approfondisce la sua posizione teorica, prendendo in considerazione alcuni importanti testi – Edipo re di Sofocle, Berenice di Racine, Tristano e Isotta di Wagner e Amleto di Shakespeare – per dimostrare che le vicende individuali dei personaggi sono paradigmi delle fondamentali esperienze dell’esistenza. F. esprime un giudizio severo sul teatro contemporaneo che avrebbe perso la capacità di esprimere valori universali. Tra gli altri saggi segnialiamo: Dante’s Drama of the Mind: a Modern Reading of the Purgatorio (1953) e The Human Image in Dramatic Literature (1957).

Bolm

Figlio di un musicista, Adolph Bolm fu allievo della Scuola imperiale. Fin da giovanissimo s’impose come brillante danzatore dalla prodigiosa tecnica d’elevazione. Nel corso di alcune tournée, compiute con altri colleghi nel 1908, cominciò a farsi conoscere in Occidente, e a Parigi si legò ai Ballets Russes di Diaghilev. Dopo la Grande guerra si trasferì negli Usa, dove fondò una compagnia dando inizio anche alla sua attività di coreografo. Fu l’avvio di un lavoro che sarà fecondo e capitale per la diffusione della danza in quel Paese. La sua intelligenza lo portò a collaborare con compositori d’avanguardia, fra i quali Schönberg (Pierrot lunaire) e Szymanowski ( Mandragola ). Suo grande successo sarà Iron Foundry, `balletto meccanico’ ispirato da una visita alle officine Ford di Detroit. Fu sempre lui a proporre per primo (1928) a Buenos Aires Apollon Musagète di Stravinskij. Una lunga permanenza a Hollywood gli permise, antesignano, di girare vari film di danza.

Baggesen

Dopo un tirocinio come contorsionista in alcuni circhi europei, Carl Baggesen diventa il partner della moglie Sophie in un numero di giocoleria. La notorietà gli arriva per il numero dei `piatti rotti’, che debutta a Chicago nel 1893, con il quale viene scritturato dai maggiori teatri di varietà. La struttura di quella celebre gag rappresenta una sorta di archetipo dello slap-stick, per questo gli viene attribuita un’influenza sulla comicità dei primi cortometraggi. Ispira numerosissimi emuli. Chaplin inserisce la gag dei `piatti rotti’ nel suo Il Circo (1928) facendola interpretare ad Erwin Buehl.

Pezzoli

Dalla fine degli anni ’80 si dedica alla regia dopo aver seguito le lezioni di D. Fo; si diploma alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano. Collabora con N. Garella e M. Castri, poi con lo Stabile di Parma e La Contemporanea ’83 di S. Fantoni. Dirige L’attesa di Binosi, Come le foglie di Giacosa , Il lungo pranzo di Natale di Wilder e, nel 1996, La scuola delle mogli di Molière. Nella stagione 1997-1998 realizza La Celestina di De Rojas e la novità Il caso Moro di R. Buffagni.

Giuffré

Formatosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, Carlo Giuffé debutta nel 1949 con Eduardo De Filippo, restando con lui per due stagioni. Da allora la sua carriera sembra svolgersi su due binari divergenti: da un lato i ruoli di attore giovane dal fisico avvenente e dai fascini convenzionali, dall’altro una felice tendenza al comico e al grottesco. Dopo varie esperienze (fra le principali Chi è di scena? di Galdieri con Anna Magnani, Romagnola di Squarzina con Virna Lisi e La fantesca di Della Porta con Marcello Moretti), arriva nel 1963 la svolta decisiva: entra a far parte della mitica Compagnia dei Giovani (De Lullo-Falk-Valli-Albani), con la quale rimane per ben otto stagioni riuscendo, finalmente, a risolvere l’antinomia fra le sue due personalità d’attore, l’amoroso e il comico. Fu, fra l’altro, il Primo Attore nei Sei personaggi in cerca d’autore , Albino nella Bugiarda di Fabbri, Solionij in Tre sorelle , Guido Venanzi nel Giuoco delle parti , Michele in Metti una sera a cena di Patroni Griffi e, nel 1970, il duca d’Orange nell’ Egmont di Goethe diretto da Luchino Visconti, l’ultimo grande spettacolo prodotto dai Giovani. Poi i successi in serie colti con la propria compagnia, accanto al fratello Aldo, e da solo con Il piacere dell’onestà , Pane altrui , Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi . E infine l’approdo al grande repertorio eduardiano, spesso anche come regista: Le voci di dentro , Napoli milionaria! , Non ti pago e Natale in casa Cupiello.

cabaret

ha una genesi diretta nel c. francese e nel Kabarett tedesco, fenomeni teatrali minoritari e assai particolari che si sono evoluti in forme affatto diverse fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento. In entrambi i casi il nome, almeno in origine, definiva strettamente i luoghi, piccoli ed esclusivi, nei quali avevano luogo spettacoli trasgressivi o comunque anticonformisti. Il c. francese più celebre fu lo `Chat noir’ di Parigi, un piccolo locale che ebbe molto successo fino alla fine del secolo scorso e nel quale si esibivano artisti d’avanguardia, comici e chansonnier. La fortuna così ampia e inattesa di questo locale ne snaturò alla fine la portata alternativa, fino a trasformarlo in un luogo di rappresentazioni comiche e musicali piuttosto commerciali. Stessa sorte toccò a tutti quei locali che, a imitazione dello `Chat noir’, erano nati a Parigi a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. In Francia l’antica tradizione corrosiva e minoritaria del c. riprese vigore dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il circolo degli intellettuali impegnati, variamente legati a Jean-Paul Sartre e all’esistenzialismo, cominciò a frequentare nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés i locali nei quali si esibivano artisti come Edith Piaf, Juliette Gréco, Yves Montand. Il ruolo artistico e sociale del Kabarett in Germania fu affatto diverso. Minoritario e trasgressivo, questo genere di spettacolo fu al tempo stesso palestra di grandi talenti teatrali (da Max Reinhardt a Bertolt Brecht) e luogo di grande attivismo politico. Il Kabarett, infatti, rappresentò il più rilevante luogo di sviluppo di attività antinaziste, almeno fino ai tempi immediatamente successivi alla presa del potere da parte di Hitler che, una volta al vertice del Reich, vietò tale genere di rappresentazioni. D’altra parte, gli intellettuali ebrei, comunisti e omosessuali furono i più assidui frequentatori dei Kabarett di Monaco e Berlino: quei locali piccoli e fumosi venivano considerati come territori liberi, nei quali esprimere disagi sociali e dissensi politici. Karl Valentin e Kurt Tucholsky furono i due artisti di maggior rilievo di quel mondo, a cavallo tra l’inizio del Novecento e il nazismo. Comico puro dalla vena assurda, Valentin viene considerato sovente il Petrolini tedesco, anche per la sua spiccata vena parodistica e per quel suo dialetto bavarese che ne rendeva inconfondibili le caratterizzazioni: nella sua orchestrina, sul finire degli anni ’10, suonava il clarinetto il giovane Brecht. Il caso di Tucholsky, invece, è più complesso da mettere in relazione con altri fenomeni simili dell’epoca: artista corrivo, sempre al limite della volgarità, egli era un anarchico non solo politicamente ma anche in termini strettamente teatrali; così finì per mescolare generi e suggestioni, prediligendo ogni sorta di travestitismo scenico. In Italia non è mai esistita una forma di spettacolo apertamente e consapevolmente antifascista, e il cosiddetto `teatro politico’ del dopoguerra ha seguito altre strade rispetto a quelle deliberatamente minoritarie del c. francese e del Kabarett tedesco. Solo a partire dagli anni ’50, specie in alcuni piccoli locali milanesi, ha preso corpo una piccola tradizione cabarettistica esteticamente trasgressiva e politicamente impegnata. Nella prefazione al volume La patria che ci è data (1974), che raccoglie testi stravaganti scritti apposta per il c., Umberto Simonetta nota: «Pur non vantando le tradizioni del grande Kabarett mitteleuropeo o delle `caves’ parigine, il c. italiano, saldati i debiti con l’Espressionismo, può godere di dignitoso credito». Pressoché archiviati gli spettacoli di rivista e varietà negli anni ’60, soppiantati dalle commedie musicali di Garinei e Giovannini o da rassegne di strip-tease, o dal teatro dialettale (non a caso i grandi comici tornano alle radici paesane: Nino Taranto rappresenta commedie napoletane di Viviani, Dapporto ripropone i classici in genovese di Gilberto Govi, Macario si fa scrivere da Amendola e Corbucci intrecci piemontesi con titolo in rima), la comicità fatta di critica e satira social-politica imbocca la strada di scantinati o localini con pedana, due-quattro riflettori, pianoforte in un angolo, e maccheroncini fumanti (e gratis) a mezzanotte, spesso serviti dagli stessi attori, per un pubblico che Simonetta descrive forse con eccessiva cattiveria: «Mezzecalzette con il bicchiere di whisky stretto nella destra e chiavi della macchina sinistramente tintinnanti nella sinistra, con ridicolo sbandieramento del relativo portachiavi tutto d’oro: mercanti di provincia, fallofore, attori sparlanti, belle signore, bande di architetti e di funzionari Rai». Comunque, anticipato da alcuni spettacoli teatrali `da camera’ di successo ( Dito nell’occhio e Sani da legare di e con Parenti-Fo-Durano; Carnet de notes dei Gobbi, cioè Caprioli-Bonucci-Salce e poi Franca Valeri), il c. nasce a Milano, nel 1963, al Derby club, locale di viale Monte Rosa (sulla strada per l’ippodromo di San Siro, ed ereditandone nel tempo i frequentatori, nel bene e nel male: ecco spiegato il nome sull’insegna) grazie al ristoratore Bongiovanni e al jazzista Intra, cui si affianca subito Franco Nebbia, straordinario pianista-entertainer: un `classico’ il suo tango con versi di corrive citazioni latine, da `alea iacta est’ a `mutatis mutandis’. Con Intra e Nebbia, un primo manipolo di talenti: il musicista Gino Negri e le attrici Liliana Zoboli e Velia Mantegazza, la giovane `cantante della mala’ Ornella Vanoni e Enzo Jannacci. Nel settembre 1964 si trasloca e si apre il Nebbia club, con una compagnia `stabile’ composta da Duilio Del Prete, Liù Bosisio, Sandro Massimini, Lino Robi attore comico dalla statura ridotta. Ospiti del Nebbia club, che chiuse nel ’68 e che aveva privilegiato un taglio più politico ed esclusivo rispetto al Derby, furono Carmelo Bene, Maria Monti, Piera Degli Esposti, Giorgio Gaber, Mariangela Melato. Il Derby continua, e in pedana sfilano il veneziano Lino Toffolo, il piemontese Felice Andreasi e il pugliese Toni Santagata, Cochi e Renato (“La vita l’è bela”), Giorgio Porcaro (inventore del dialetto pugliese-meneghino «milanès a cient pe’ cient», che sarebbe stato ereditato e più ampiamente divulgato da Diego Abatantuono). Nel 1970-71, nel centro storico della città, si apre il Refettorio, gestito da Roberto Brivio, uno dei Gufi, che cerca di contrapporsi, a volte con programmazioni notevoli ( I quattro moschettieri con Nunzio Filogamo) all’ormai lanciatissimo locale di viale Monte Rosa. Dopo Milano, Roma. Nel 1965 Maurizio Costanzo, fecondo autore di commedie e monologhi comici, apre nella capitale, in via della Vite, il Cab 37; scopre e lancia Paolo Villaggio, Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, il cantastorie Silvano Spadaccino. Costanzo con il suo gruppo si trasferì poi al Sette per otto, in via dei Panieri al 56, appunto. E qui Costanzo fece debuttare un suo coinquilino di via de’ Giubbonari, «un giovanotto alto e magro che recitava e cantava accompagnandosi alla chitarra, con un talento di showman di cui molti poi vanteranno la scoperta: era Proietti Luigi detto Gigi» (testimonianza di Enrico Vaime, da Il varietà è morto , 1998). A Roma, nel 1965, nasce con fortuna Il Bagaglino, guidato da Mario Castellacci e Pierfrancesco Pingitore, con Pippo Franco, Leo Gullotta e Oreste Lionello (la voce italiana di Woody Allen). La compagnia si è trasferita dal 1974 al salone Margherita. Spettacoli di vena qualunquista e reazionaria, sempre ben accolti dal cosiddetto `generone’ romano; da anni vengono poi trasposti in tv, con contorno di sosia di uomini politici da sbeffeggiare. In questi anni fu proprio dalla differenza di contenuti tra i locali milanesi e quelli romani che nacque la distinzione, abbastanza vicina al vero, che porterà a parlare di cabaret di sinistra a Milano e cabaret di destra a Roma. Protagonisti di spettacoli di c. negli anni 1964-69 furono i Gufi, quartetto milanese in calzamaglia nera composto da Roberto Brivio, Gianni Magni, Lino Patruno, Nanni Svampa. Esordio in marzo-aprile 1964 al Captain Kidd di Milano, stagioni al Derby di Milano e al Los Amigos di Torino, poi il Teatrino dei Gufi si sposta in palcoscenico con alcuni spettacoli di successo: Non spingete scappiamo anche noi e Non so, non ho visto, se c’ero dormivo di Gigi Lunari. Tra gli autori di testi per c., Silvano Ambrogi, Sandro Bajini, Roberto Mazzucco, Enrico Vaime, Saverio Vollaro. Autori-interpreti: Maurizio Micheli, Enzo Robutti, Walter Valdi (ex avvocato di giorno e cabarettista di notte; piccolo, e rotondetto, con occhiali spessi un dito, canta e recita storie del milieu milanese: Il palo della banda dell’Ortiga ; tra i suoi aforismi: «La torre di Pisa… E se avesse ragione lei?»). A Milano ribalta affermata del c. è, dal 1986, lo Zelig di viale Monza, che sotto la guida artistica di Gino e Michele e organizzativa di Giancarlo Bozzo ha rivelato Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio, Gene Gnocchi, Francesco Salvi, Sabina Guzzanti, Elio e le storie tese, Caterina Sylos Labini e decine di altri comici, avviandone o accelerandone il successo multimediale (tv, cinema, musica e teatro). Ma da Zelig sono passati in questi anni centinaia di comici, favoriti dal fatto che, a differenza di altri c. che lo hanno preceduto, il locale ha una programmazione che viene cambiata ogni settimana. A Zelig hanno lavorato anche comici già affermati come Zuzzurro e Gaspare, Giorgio Faletti, Enzo Iacchetti, Carlo Pistarino, Sergio Vastano, Massimo Boldi, Teo Teocoli, Gianni Cajafa, Nanni Svampa, Enzo Jannacci (che a sua volta aprirà per pochi anni, sempre a Milano, il Bolgia umana) e attori o musicisti apparentemente lontani dal c. come Marco Paolini, il duo Robledo-Delbono, Roberto Vecchioni, Rossana Casale e il suo gruppo jazz. Interprete poi di testi in stile c., Beppe Grillo, che però ha svolto la sua carriera prima sui teleschermi e, quando la satira è diventata rovente, nei palasport e nelle piazze. Anche Roberto Benigni esordì nel c., con Cioni Mario di Gaspare fu Giulia (1976). Da ricordare poi due spettacoli di c. rappresentati in teatro: Come siam bravi quaggiù (1960) e Resta così o sistema solare (1961) di Vittorio Franceschi e Sandro Bajini, con Franceschi e Massimo De Vita. E, a proposito di c. ospitato su un palcoscenico teatrale, va menzionato il Ciak di Milano, un cinema di periferia che, con geniale intuizione, il grande impresario Leo W&aulm;chter (portò per primo in Italia i Beatles e Sinatra, Armstrong e Moiseev, il Circo di Pechino e il coro dell’Armata rossa) trasformò nel 1977 in teatro `di cabaret’, ospitando, davanti a platee affollate di giovani, tutti i `nuovi comici’ accanto a Franca Rame e al Circo immaginario di Victoria Chaplin. Dalla stagione 1997-98 il locale ha come direttore artistico Maurizio Costanzo. Il c. ha ottenuto il riconoscimento ministeriale alla pari di altre forme teatrali soltanto nel 1975.

Minelli

Marisa Minelli studia a Milano, ma esordisce nel 1958 al Teatro stabile di Bolzano con Gli innamorati di Goldoni, regia di Fantasio Piccoli. Nel 1960 entra a far parte della compagnia stabile del Gerolamo, dove interpreta un ricco repertorio dialettale, da El zio matt a El testament . Segue il celebre El nost Milan strehleriano, che la lega per sempre al teatro di via Rovello: da ricordare la sua Smeraldina in Arlecchino e Duniascia nel Giardino dei ciliegi . Lavora spesso al fianco del marito Lamberto Puggelli ( Il matrimonio della Lena al Teatro Uomo di via Gulli). L’ultima interpretazione di rilievo è come protagonista in La sposa Francesca di Francesco de Lemene, al Piccolo nel 1991, per la regia di Puggelli.

Ulanova

Figlia d’arte, Galina Sergeevna Ulanova seguì i corsi della madre Maria Romanova al Teatro Marijinskij, perfezionandosi in seguito con Agrippina Vaganova. Si è diplomata nel 1928, ma era apparsa in scena ancora bambina. Solista del Kirov, nel 1929 otteneva già prime parti, anche come protagonista del Lago dei cigni, balletto destinato a diventare suo cavallo di battaglia. L’anno dopo acquisiva al proprio repertorio l’altro classico cajkovskijano, La bella addormentata nel bosco . Nel 1931 era protagonista di Raymonda di Glazunov-Petipa e nel 1932 affrontava per la prima volta Giselle, altro caposaldo del suo catalogo esecutivo. Il personaggio romantico fu declinato da lei da un’angolazione drammatica, senza risvolti mistici, ma seguendo i dettami del realismo sovietico di cui divenne tra le maggiori esponenti nell’ambito ballettistico.

In analogo clima si situò la sua creazione di Romeo e Giulietta di Prokof’ev-Lavrovskij al Kirov nel 1940, nota anche attraverso una versione cinematografica. Nel 1944 passò al Bol’šoj di Mosca, del quale divenne la stella assoluta per due decenni. Qui, nel 1945, creò l’altro capolavoro di Prokof’ev, Cenerentola, per la coreografia di Rotislav Zacharov, che per lei dieci anni prima aveva montato La fontana di Bachcisaraj. Al Bol’šoj nel 1954 creerà anche l’ultimo balletto di Prokof’ev, Il fiore di pietra, ancora con coreografia di Lavrovskij. Tutti balletti, questi, di carattere narrativo e di impianto tradizionale, poiché Ulanova rifiutò sempre esperimenti più avanzati e creazioni di tipo astratto. La prima apparizione di Ulanova nel mondo occidentale avvenne al Maggio musicale fiorentino, a Roma nel 1949 e alla Scala, in un `concerto di danza’ nel 1951. In seguito si è dedicata all’insegnamento, sempre al Bol’šoj.

Lupi

Capostipite della famiglia Lupi è Luigi (Ferrara 1768 – Torino 1844): garzone di drogheria, si unisce al burattinaio Francesco Jacoponi, suo concittadino, e insieme verso il 1818 si trasferiscono a Torino dove, nel 1823, divengono marionettisti e operano al Teatro di San Martiniano fino al 1883, avendo come maschera Arlecchino. La ricostruzione della genealogia della famiglia è difficile, sia perché la stessa famiglia ha memorie incerte, sia perché tutti i primogeniti si chiamano Luigi e i secondogeniti Enrico. Il secondogenito di Luigi I, Enrico, abbandona la maschera di Arlecchino per adottare quella, piemontese, di Gianduia. È Enrico a lasciare il Teatro di San Martiniano per passare, nel 1884, al Teatro d’Angennes. Inizia il periodo di grande successo della famiglia Lupi, guidata da Luigi III (figlio di Luigi II)e Luigi IV (figlio di Enrico); i loro spettacoli divengono una delle attrazioni teatrali di Torino, con largo eco sulla stampa. Con la seconda guerra mondiale i Lupi perdono la loro sede al Teatro d’Angennes (divenuto nel frattempo Teatro Gianduia) e sono costretti ad un periodo di inattività o attività saltuaria, utilizzando un semi-interrato di via Roma. Una ripresa d’attività abbastanza regolare si ha con la concessione della sede, non felicissima, di via Santa Teresa, nella quale è stata anche allestita una mostra permanente dei materiali storici della compagnia. Fino al 1981 la Compagnia Lupi è stata diretta da Luigi V. A lui sono succeduti il figlio Luigi VII e il nipote Luigi VIII. Il patrimonio di materiali teatrali (marionette, costumi, attrezzeria, scene, copioni) della famiglia Lupi è certamente uno dei più ricchi e importanti d’Europa.

Grossi

Pasquale Grossi frequenta la facoltà di architettura di Roma svolgendo contemporaneamente il suo apprendistato come assistente di Mischa Scandella e in seguito di Pierluigi Sammaritani. Ha debuttato al Festival dei due mondi a Spoleto ideando scene e costumi per Prima la musica poi le parole di Salieri con la regia di G. Menotti (1975) con il quale collabora assiduamente negli anni a seguire, creando la messinscena per Pellèas et Melisande di Debussy (Genova, Teatro Margherita 1981-82). Tranne alcune collaborazioni nel teatro di prosa con De Bosio (L’avaro di Molière) la sua attività si svolge soprattutto nel teatro lirico che gli è congeniale per la varietà degli interessi e delle possibilità espressive date dalla presenza della musica. Particolarmente importanti sono le collaborazioni con i registi: Ronconi per I vespri siciliani di Verdi; Puecher per La pietra del paragone di Rossini e Scene dal Faust di Goethe di R. Schumann (Teatro La Fenice Venezia 1984), Orlando di Handel (Teatro La Fenice 1985) e A. Fassini per cui disegna tra l’altro scene e costumi per L’Ormindo di F. Cavalli e Orfeo ed Euridice di Gluck. Interessanti sono le sue produzioni per il teatro di musica contemporanea come il Riccardo III di F. Testi con la regia di V. Puecher (Teatro alla Scala di Milano 1987), Cailles en sarcophage di S. Sciarrino per la regia di G. Marini (Venezia Teatro Malibran 1979) e Juana la loca e Goya entrambi di G. Menotti regia del medesimo. Le sue progettazioni sono caratterizzate da una interpretazione non realista dell’opera, ci suggeriscono la vicenda attraverso citazioni stilistiche simboliche.

Staats

Personalità di rilievo, Léo Staats è colui che più di altri seppe tener viva la tradizione della danza francese nei primi decenni del secolo. Dopo aver studiato con Francis Mérante, fece il suo debutto come ballerino a dieci anni; sei anni più tardi è già all’Opéra di Parigi ne La maledetta di Hansen e ancora giovanissimo realizza il primo dei suoi moltissimi balletti, Ici l’on danse . Partner abituale di Carlotta Zambelli, pur proseguendo per lunghi anni la sua carriera di danzatore, spronato anche da quell’uomo di forte personalità che fu Jacques Rouché (direttore della stessa Opéra, ma da Staats conosciuto in precedenza al Théâtre des Arts), dispiegò un’attività sempre più debordante, interamente consacrata allo sviluppo della danza ed esercitata per quasi sessant’anni.

Creò, ricostituì e adattò numerosi balletti: tra i suoi lavori più noti, oltre a Javotte (1909, musica di Saint-Saëns) – in cui a lungo tenne con successo il ruolo di Jean, il protagonista – vanno ricordati Cydalise et le Chèvre-Pied (forse la sua opera migliore) e l’ancor più fortunato La nuit ensorcelée (Bakst realizzò le scene, e furono le sue ultime), entrambi del 1923; da citare anche Les Abeilles (1917), Taglioni chez Musette (1920) e Istar (1924). Pur non mancando di immaginazione, le sue coreografie, spesso diseguali, non riuscirono a portare un vero contributo di rinnovamento. Parallelamente alla sua attività a Palais Garnier, Staats regolò pure le danze e i balletti in molti altri teatri della capitale. Fu professore al Conservatoire e, maestro a tanti futuri grandi ballerini, insegnò fino alla morte nella sua celebre scuola di rue Saulnier.

Bolognesi

Esordì nel 1915 nella compagnia stabile del Teatro Manzoni di Milano diretta da Marco Praga. La sua carriera fu rapidissima. Nel 1919 era già primattrice nella compagnia di Aristide Baghetti e l’anno successivo, insieme a Ettore Berti, fondò una compagnia di cui affidò poi la direzione a Pierino Rosa. Dal 1922 fu primattrice per il Teatro del Popolo di Milano sotto la direzione di Ettore Berti. Nel 1926 tornò al capocomicato, prima con Luigi Zoncada, poi da sola. Dopo l’ultima breve apparizione in teatro nel 1932 accanto ai giovani Carlo Tamberlani e Abo Riccioni, nel 1934 esordì nel cinema in Maestro Landi di Giovacchino Forzano. Fu definita, da alcuni giornalisti, la `Mae West italiana’.

Loewe

Suo padre era l’attore cantante Edmund Loewe, primo interprete dell’operetta La vedova allegra di Léhar. Dopo aver studiato, giovanissimo, pianoforte con Ferruccio Busoni e con Eugene D’Albert e composizione con Reznicek a Berlino, dove vince il premio Hollander, nel 1924 Frederick Loewe segue il padre negli Usa. Nonostante un’ottima presentazione nell’ambiente musicale di New York (l’anno del suo arrivo tiene un concerto come pianista alla Town Hall), per i successivi dieci anni è costretto ad abbandonare la musica e ad abbracciare una professione lontana dagli interessi dell’arte. Intanto però comincia a scrivere canzoni che, a partire dal 1935, riesce a vendere con un certo successo. Si dedica allora alla composizione di canzoni e di partiture per spettacoli musicali. La sua prima commedia musicale si intitola Great Lady (1938, Majestic Theatre: i suoi lavori debuttano tutti a New York), testo di Earle Crooker, regia di Windust Bretaigne, coreografia di Balanchine. Scritta nello stile dell’operetta viennese, non ha un gran successo. Decisivo è l’incontro con il librettista e paroliere Alan Jay Lerner, tipico newyorkese: si stabilisce un’alleanza di lavoro assai proficua che non si scioglierà più. Il primo musical nato dalla loro collaborazione è The Patsy (1942); il secondo il più fortunato What’s Up (1943), che al National Theatre viene rappresentato per otto settimane, regia e coreografia di Balanchine. Il lavoro seguente (The Day Before Spring , 1945) resiste sei mesi, nello stesso teatro, con la regia di John C. Wilson, interpreti John Archer e Estelle Loring.

La grande affermazione arriva però con Brigadoon (1947), il primo musical che vince il Drama Critic Award per la miglior commedia dell’anno. La vicenda, fantastica, riguarda un villaggio del XVIII secolo che per un’antica magia emerge dalle Highlands scozzesi un giorno a ogni nuovo secolo ed è scoperto da due turisti americani. La musica richiama vecchie ballate scozzesi ma accoglie anche suoni sofisticati di Broadway: tra le canzoni più note sono “Almost Like Being In Love” e “Down on McConnachy Square”. Rappresentata al Ziegfeld Theatre con la regia di Robert Lewis e la coreografia di Agnes De Mille, la commedia teatrale è un trionfo e ha 581 repliche. In seguito divenne anche un film. Del 1951 Paint Your Wagon, un musical-western, rappresentato al Shubert Theatre con la regia di Daniel Mann, coreografia di Agnes De Mille. Il più fortunato prodotto della collaborazione Loewe-Lerner è del 1956, My Fair Lady. Ambiziosamente, la commedia si basa su Pygmalione di G.B. Shaw, e anche se Shaw rifiuta il permesso di farne un musical, il produttore inglese Gabriel Pascal, che detiene i diritti per una versione filmica, è ben determinato nel suo intento e dopo vari tentativi con altri autori si assicura la collaborazione di Loewe e di Lerner, i quali mandano in porto l’operazione dopo la morte di Pascal, avvenuta nel 1954. La vicenda segue fedelmente il copione shawiano nel portare in scena la rozza fioraia Eliza Doolittle che, sotto la guida del professore di fonetica Higgins, diventa una gran dama e frequenta i salotti dell’aristocrazia londinese. Libretto e musica fanno centro: particolarmente notevoli, sul piano romantico, i numeri “I Could Have Danced All Night” e “Without You”, e su quello umoristico “Just You Wait, `Enry ‘Iggings”, “With a Little Bit of Luck”, “Why Can’t The English Teach Their Children How to Speak?”, e soprattutto l’indiavolato terzetto “The Rain in Spain”. Rappresentato al Mark Hellinger Theatre con la regia di Moss Hart, le coreografie di Hanya Holm, i costumi di Cecil Beaton e l’interpretazione della debuttante ventiquattrenne Julie Andrews, più Rex Harrison e Stanley Holloway, My Fair Lady fa il giro del mondo, stabilendo un record di durata non ancora superato. Anche di questo musical fu ricavato il film, interpretato da Audrey Hepburn e Rex Harrison per la regia di Cukor (1967).

L’ultimo musical di Loewe (sempre in collaborazione con Lerner, che successivamente si rivolgerà ad altri musicisti) è Camelot (1960), tratto dal romanzo epico The Once and Future King di T.H. White, imperniato sulla gloriosa reggia di Camelot distrutta per l’infedeltà di Guenevere, moglie di re Artù, innamorata di sir Lancillotto. Al Majestic Theatre ha 873 repliche: il regista è Moss Hart, protagonisti Richard Burton, Julie Andrews, Roddy McDowell. Colpito da un attacco di cuore durante il lavoro compiuto per la rappresentazione di Camelot , Loewe si ritira a vita privata. Torna a lavorare con Lerner per un film del 1973 diretto da Stanley Donen, Il piccolo principe (The Little Prince), da Saint-Exupéry. Per il cinema L. aveva già lavorato in diverse occasioni, sia con interventi originali, come per una canzone scritta per il film Athena (La figlia di Nettuno, di R. Thorpe), “Baby, Its’ Cold Outside”, Oscar 1949 per la migliore canzone, e con la partitura completa di Gigi (idem, 1958, di V. Minnelli); sia curando la trasposizione su pellicola di suoi musical teatrali. Da notare che Gigi diventa una commedia musicale per le scene a seguito del successo del film, invertendo l’ordine canonico, ossia il processo di derivazione di un film dalla ribalta. Nel 1964, in Germania, si gira sulla vita del nostro musicista il film Melodien von Frederick Loewe , regia di H. Liesendahl. Tre sono i lavori teatrali che da soli hanno assicurato a Loewe la fama, Brigadoon, My Fair Lady e Camelot : in essi questo compositore ha avuto modo di dispiegare il dono felice della melodia, la piacevolezza e l’orecchiabilità dei motivi, il senso del romanzesco.

Cunningham

Nome di riferimento nella storia della coreografia del Novecento che ha contribuito a liberare definitivamente dalle convenzioni ottocentesche, e per questo maestro di intere generazioni di danzatori e coreografi, Merce Cunningham ha attraversato, da protagonista, mezzo secolo di danza, sempre al centro delle più roventi dispute sull’arte d’avanguardia, ma con un atteggiamento di sereno distacco, connaturato alla sua indole raziocinante e ironica. Il padre, avvocato, aveva auspicato anche per lui la carriera forense, ma sin dall’adolescenza il futuro direttore della Merce Cunningham Dance Company manifesta interesse nella danza (che pratica dall’età di dodici anni), specie nelle sue forme popolari, come il tip tap, uno stile prediletto e spesso affiorante persino nelle sue più algide e severe coreografie. Alla Cornish School of Fine and Applied Arts di Seattle, dove continua gli studi di danza e balletto, si interessa alle idee musicali di John Cage che frequenta la sua stessa facoltà, alla fine degli anni ’30. Con lui instaura uno dei più saldi sodalizi tra un coreografo e un compositore nella storia della danza, sulla scia delle illustri coppie formate, a fine Ottocento, da Marius Petipa e Cajkovskij e, nella prima metà del Novecento, da Balanchine e Stravinskij. Questa unione ha però ufficialmente inizio al termine della quinquennale esperienza di C. (1940-1945) nella Martha Graham Dance Company. Indolore, il distacco dalla grande maestra che per lui aveva creato i ruoli dell’Acrobata in Every Soul is a Circus (1939), del Cristo in El Penitente (1940), del Predicatore in Appalachian Spring (1944) e uno spumeggiante assolo in Letter to the World (1940), si tramuta in un’occasione per cimentarsi nella coreografia. Una serie di danze solistiche d’atmosfera evocativa, create tra il 1942 e il ’46 (come il toccante In the Name of the Holocaust o Tossed as it is Untroubled, ispirato a James Joyce) mettono in luce la sua speciale brillantezza interpretativa e sono già accompagnate al pianoforte da Cage. L’allievo ribelle di Arnold Schönberg incoraggia il compagno danzatore a liberarsi dai vincoli psicologici ed espressionisti della `letteraria’ e ‘drammatica’ Graham e ad abbracciare un credo creativo in cui al determinismo soggettivo – giudicato da Cage l’ultimo baluardo del romanticismo nell’arte del Novecento – subentrassero regole meno coercitive. E infatti eccolo partecipare con l’amico Robert Rauschenberg, al Theatre Piece di Cage (1952) che dà l’avvio, al Black Mountain College, a un nuovo movimento teatrale: quello dell’happening . In queste performance la sua danza solipsistica viene giustapposta a un brulicare di concomitanti e autonome azioni artistiche ed egli ne ricava nuovi stimoli per la messa a fuoco della sua `new dance’ con un esiguo nucleo di allievi-ballerini come Carolyn Brown, Viola Farber, Marianne Preger e Paul Taylor.

Tre le direttive di marcia della Merce Cunningham Dance Company che nasce nel 1953: riesplorare i movimenti delle tecniche tradizionali (il balletto) e di scuola moderna (come la `tecnica Graham’), includendo però i gesti quotidiani e l’immobilità (i corrispettivi del rumore e del silenzio in Cage); distruggere la prospettiva rinascimentale danzando liberamente in spazi non più solo teatrali; eliminare ogni coinvolgimento emotivo che potesse distogliere l’interprete dalla concentrazione sul movimento. Il debito contratto nei confronti del nuovo concetto di spazio di Einstein, più che non dello zen (di cui C. sarà sempre un adepto svogliato rispetto a Cage) non venne colto pienamente. Giudicate un’inverosimile accozzaglia di movimenti privi di significato e per di più ostacolate da musiche sgradevoli, le coreografie d’esordio della Merce Cunningham Dance Company (tra queste il luminescente capolavoro Summerspace del ’58) si resero tollerabili al pubblico del tempo solo grazie all’atletismo e alla perfezione tecnica dei danzatori. Nel ’59, del resto, C. aveva inaugurato la sua scuola nella quale si sarebbero formati tutti i danzatori destinati a far parte della sua compagnia ma non solo quelli. Straordinario centro internazionale, il suo Studio si è trasformato nel tempo in una vera e propria mecca della danza contemporanea. Ciò anche se C., al pari della sua maestra Graham, non ha mai manifestato una particolare propensione didattica, ma semmai la necessità di istruire danzatori in una tecnica inedita, perché sua propria, affine al balletto, nella tensione verticale, ma `sbloccata’ nella rotondità di movimenti mutuati dalla `tecnica Graham’. Oltre ai corpi dei suoi danzatori, di preferenza simili al suo (alto, dinoccolato, velocissimo e forte), anche le scenografie delle sue danze suscitano subito un certo interesse. Oggi pezzi da museo, quelle scene erano firmate da giovani artisti come Rauschenberg e Jasper Johns (dal 1954 al 1980 si avvicendarono nel ruolo di consulenti artistici della Merce Cunningham Dance Company, seguiti dall’inglese Mark Lancaster e nel 1984 da William Anastasi e Dove Bradshaw) che sarebbero diventati due `santoni’ dell’avanguardia statunitense.

Anche Andy Warhol, Frank Stella, Barnett Neumann e Robert Morris partecipano nella più totale autonomia (persino Marcel Duchamp presta, nel ’68, il suo Grande vetro per la messa in scena di Walkaround Time) a una forma di teatro in danza che rinverdiva l’esemplare sinergia artistica dei Ballets Russes d’inizio secolo, pur escludendo dal suo programma soggetti letterari e intenzioni dimostrative. Conchiusa nelle leggi dell’aleatorietà (alle change operations , mutuate da Cage, il coreografo affidava la durata dei suoi pezzi, le entrate e le uscite degli interpreti: in sostanza l’impaginazione strutturale), la danza `ontologica’ di C. si affermò definitivamente negli anni ’70 (risale al 1973 l’ingresso all’Opéra di Parigi con la creazione Un jour ou deux). Sorprende quanto una produzione non ancora esaurita, ma già di oltre duecento coreografie d’impianto formalistico e astratto, risulti legata alle temperie e agli umori del tempo in cui è nata. Le opere di Merce Cunningham sono ruvide e concrete negli anni della contestazione giovanile (Rainforest, 1968), siderali e puntiniste quando l’affermazione dell’arte concettuale cominciò a irrigidire i confini delle avanguardie (Changing Steps, 1975; Torse, 1976; Inlets, 1977). Ma divengono anche ironiche e modulari con l’introduzione degli Events : sorta di collage di pezzi presi, a caso, da varie coreografie ideate a partire dal 1962 per essere presentati negli spazi più diversi: gallerie d’arte, musei, luoghi all’aperto. Negli anni ’80 le creazioni dell’artista, che non cessa di apparire nelle sue coreografie ritagliandosi brevi assoli anche `teatrali’, tornano a essere evocative come negli anni ’40 (Pictures, 1984; Points in Space , 1986, Fabrications , 1987), anche per nuovi e più ampi cimenti ispirati a Joyce, come Roaratorio (1983) o Five Stone Wind (1988). Primo ad usare strumenti tecnologici assieme alla danza (i televisori), ad avvalersene nella composizione coreografica (ha affiancato il computer all’oracolo cinese dell’I King utilizzato nella pratica aleatoria delle chance operations ) e a collaborare con film-makers e video-artisti (come Charles Atlas e Elliott Caplan), C. rifiuta di affidare le ragioni del suo talento alla sola genialità o sensibilità artistica che pure in modo tanto spiccato possiede. Ma l’attuale fase creativa, sensuale e solcata da un inedito respiro quasi narrativo (Beach Birds, 1991; Enter, 1992; Ground Level Overlay e Windows, 1995) potrebbe almeno trovare una spiegazione toccante nel lutto, elaborato creativamente, per la morte del compagno d’arte e di vita John Cage (1992), a cui si deve l’impostazione teorica e musicale della più lunga opera della Merce Cunningham Dance Company, Ocean (1994). Altri musicisti come Christian Wolff, Morton Feldman, Earle Brown, Gordon Mumma, Conlon Nancarrow, David Tudor (che diviene consulente musicale della compagnia alla morte di Cage), La Monte Young e più di recente Gavin Bryars accompagnano le esplorazioni dinamiche del corpo nello spazio di questo artista, insignito delle massime onorificenze per la sua lunga e indefettibile dedizione alla coreografia (tra queste il Leone d’oro alla carriera, Venezia, 1995). Ma il suo nome resta indissolubilmente legato a quello di Cage con il quale ha messo a punto un nuovo rapporto tra musica e danza basato sulla durata delle due partiture, senza alcuna diretta interrelazione narrativa. Un divorzio clamoroso ma che ha contribuito, come tutta la sua riflessione sulla danza e la coreografia, a liberare e esaltare le energie autonome del movimento nello spazio. Come provano le esperienze dei postmoderni e degli attuali creatori di danza, dopo C., che peraltro continua con incessante dedizione la sua missione artistica ( Rondo, 1996; Installations, 1996; Scenario, 1997; Pond Way, 1998), la coreografia non è più stata la stessa.

Don Lurio

(New York 1933 – Roma 2003), ballerino e coreografo. È aiuto di J. Robbins prima di lavorare per il palcoscenico di Broadway e per il varietà televisivo. A metà degli anni ’50 decide di lasciare New York per Parigi dove conosce la fama personale grazie alle coreografie in spirito esistenzialista approntate per il balletto di F. Sagan Appuntamento mancato (1956). Quel successo gli vale una scrittura presso la sede Rai di Torino per lo show Crociera d’estate (1957) in cui mette in mostra uno stile originale, ricco di verve e di humour, totalmente innovativo per i provinciali teleschermi italiani. Viene quindi chiamato a creare i balletti di molti varietà del sabato sera, nel ’59 in Canzonissima e nel ’61 in Giardino d’inverno , trasmissione nella quale dirige per la prima volta le gemelle Kessler. La coreografia ideata per il loro Da-da-um-pa , sigla d’apertura di Studio Uno (1961), entra nella storia del costume nazionale. Successivamente cura i numeri di danza di Stasera: Rita! (1965) e di Sabato sera (1967). Spesso si esibisce in prima persona sul teleschermo in coppia con la star di turno o alla guida dell’intero corpo di ballo della trasmissione. Davanti alle telecamere mette in gioco con smaccata autoironia il suo spassoso accento anglosassone, utilizzandolo in modo ancora più comico nei momenti canori. Gli viene universalmente riconosciuto il merito di aver fatto ballare tutti i personaggi della tv (fra gli altri Mina, G. Cinquetti, Milva, R. Pavone, P. Pravo, E.M. Salerno), trovando per ciascuno i movimenti più adatti. Porta il suo contributo anche al teatro musicale in spettacoli come Trecentosessantacinque (1963), allestimento in cui è in scena in prima persona, L’Assilllo infantile (con tre elle, 1966) e La sveglia al collo (1967). Per il piccolo schermo è ancora il coreografo di La vedova allegra (1968) nella versione di C. Spaak e di J. Dorelli, di Ma perché? Perché sì! (1972) dove compare anche come interprete e autore dei testi, e di Hai visto mai? (1973) dove esalta le movenze erotiche di L. Falana. Dopo l’esperienza con P. Baudo in Chi? (1976-77) rallenta la sua attività televisiva per dedicarsi all’organizzazione di tour di spettacoli e alla direzione di stage di danza. Negli anni ’80 lavora alla tv spagnola per tornare sui teleschermi della Rai con Pronto, chi gioca? (1985), Partita doppia (1992) e Quelli che il calcio… (1996). È autore di un paio di libri autobiografici.

Franchetti

Formatasi prima della guerra con le maggiori compagnie di prosa italiane Rina Franchetti, terminato il conflitto, ha affrontato da protagonista alcuni classici della prosa come Riccardo II di Shakespeare, Zio Vanja di Cechov e testi di autori moderni come Joe Egg di Nichols, Il malinteso di Camus e I fisici di Dürrenmatt. Luminoso esempio di carriera longeva la F. ha calcato le scene fino a età avanzata, ritagliandosi qualche spazio anche in televisione, dove è apparsa nel film tv Fuori scena dal romanzo di G. Lagorio, con V. Moriconi per la regia di Enzo Muzi. Tra i suoi lavori teatrali più recenti ricordiamo: nel 1982 Teresa Raquin da Zola con la regia di A. Piccardi Le anime morte , (1985) di G. Angelillo e L. Modugno, da Gogol’, La vera storia del cinema americano (1985) di C. Durang, Classe di ferro (1986) di A. Nicolaj, con G. Santuccio e C. Ingrassia e Il capanno degli attrezzi (1987) di G. Greene con la regia di S. Bolchi, presentato al festival di San Miniato.

Ferrone

Passato dall’attività sportiva alla danza con Igal Perry, studia al Peridance center di New York con Benjamin Harkarvy e John Butler. Trasferitosi a Firenze, nel 1987 fonda con la moglie Marga Nativo il centro didattico e culturale Florence Dance Center e il gruppo Florence Dance Theatre. Dal 1990 dirige il Florence Dance Festival e si attiva in numerose iniziative di promozione e diffusione delle arti figurative e della danza.

Campbell

Debutta negli anni ’70 e, seguendo la lezione di Robert McLellan, cerca di sfruttare le potenzialità teatrali della lingua scozzese affermandosi nel genere del dramma storico. Come già Hector MacMillan e Tom McGrath, C. scrive in uno scozzese dai toni sufficientemente reali per contribuire a reinventare l’identità nazionale. Si distingue nel 1976 ottenendo un grande successo al festival Fringe di Edimburgo con Il gesuita (The Jesuit): dramma storico sul martire St. John Ogilvie, che rifiutò di rinnegare il cattolicesimo nonostante la prigionia e le torture impostegli da un arcivescovo protestante. Con Il soldato Somerville (Somerville the Soldier, 1978) e Le vedove di Clyth (The Widow of Clyth, 1979), dramma in parte autobiografico, l’interesse di C. va focalizzandosi verso la specificità delle emozioni individuali, entro contesti storici in cui si dibattono tematiche di interesse generale; percorso che lo conduce ai lavori degli anni ’80: Il vicolo dei domenicani (Blackfriars Wynd, 1980); Fino a che tutti i mari si seccano (Till All the Seas Run Dry), `dramma musicale’; La vendetta di Howard (The Howard’s Revenge, 1985), monologo che esplora gli stati emozionali dietro le quinte dell’attore e manager J.B. Howard. Nel 1993 C. prosegue la sua indagine sulla vita di Caithness (cominciata in Le vedove di Clyth ) con Il vecchio compagno (The Auld Fella).

circhi stabili

Nel nostro secolo, negli anni ’20 e ’30, concorrono a determinare il grande fermento culturale presente attorno al circo, non solo per essere radicati nelle città ospiti, in stretto rapporto con le élites intellettuali, ma anche perché la caratteristica stanziale `costringe’ direttori e artisti a variare sovente il repertorio, contribuendo così a sviluppare componenti di creatività, spesso carenti nei complessi itineranti. Fra gli stabili più famosi dell’epoca, il Cirque Medrano di Parigi, il Tower di Blackpool, il Busch di Berlino, il Carré di Amsterdam. I c. s. sono attivi in genere fino all’inizio della Seconda guerra mondiale, che causa la distruzione della maggior parte di essi. Numerosi edifici rimangono però in Europa orientale grazie all’intervento dello Stato, che tutela l’intero apparato delle arti circensi. Nelle nazioni legate all’ex Unione sovietica, in particolare, nascono nuovi stabili costruiti con criteri d’avanguardia, che permettono ulteriori sviluppi di specifiche discipline circensi; è il caso dei trapezisti coreani di Pyöngyang, che possono sviluppare le loro abilità e l’attrezzeria di scena all’interno di spaziosi edifici.

Evdokimova

Dopo aver studiato presso le scuole dell’Opera di Monaco, del Royal Ballet, a Copenaghen e a Leningrado, vince la medaglia d’oro a Varna nel 1970 e il premio della critica a Berlino nel 1971. Debutta nel 1966 con il Balletto reale danese; in seguito fa parte della compagnia dell’Opera di Berlino. Intraprende quindi una carriera di artista ospite danzando con le principali compagnie, fra le quali il London Festival Ballet. Applaudita interprete del ruolo di Giulietta nel Romeo e Giulietta (musica di Prokof’ev, coreografie di Cranko e Bojarcikov), è stata prima interprete di Scarecrows di Luipart (1970) e di Luisa nello Schiaccianoci coreografato da Ronald Hynd per il London Festival Ballet.

Warrilow

A 36 anni David Warrilow decide di abbandonare la casa editrice francese per cui lavora per dedicarsi al teatro. Nel 1970 lascia Parigi per New York, dove fonda – assieme a Philip Glass, Lee Breuer, Jo Anne Akalaitis e Ruth Maleczech – il gruppo dei Mabou Mines. Rimane con loro fino al 1978, interpretando diversi spettacoli: Play di Beckett (1970); The red horse animation ; Music for voices ; The lost ones ; Dressed like an egg ; Southern exposure. W. è considerato l’interprete beckettiano per eccellenza «lo Stradivari della lingua di Beckett»; il drammaturgo irlandese scrive apposta per lui Un pezzo da monologo (A piece of monologue presentato con il titolo Solo , al Teatro Festival di Parma nel 1988), che l’attore porta in scena per la prima volta nel 1979.

Di Beckett interpreta anche: Ohio impromtu (1981, con la regia di Alan Schneider). Catastrophe; What Where; That time; L’ultimo nastro di Krapp (Milano, Teatro Arsenale, 1990); Aspettando Godot (1991, regia di J. Jouanneau, Parigi, Théâtre Amandiers-Nanterre; nello stesso anno è presentato a Milano, Crt-Piccolo Teatro). Nel corso degli anni ’80 recita in: Come vi piace di Shakespeare (regia di Liviu Ciulei); Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais; Il conte di Montecristo da Dumas, rielaborato dal regista Peter Sellars; The Golden Windows , regia di Robert Wilson (Brooklin Academy of Music, 1985); Minetti di T. Bernhard (Festival d’Automne, Parigi 1988); I fratelli Tanner, dal romanzo di Robert Walser, regia di J. Launay (1990). Al cinema ricordiamo la sua partecipazione a Radio Days di Woody Allen (1987).

Chérif

Chérif abbandona ancora giovane la sua terra per recarsi in Svizzera a studiare. Qui entra in contatto con il mondo del teatro, di cui ben presto diverrà uno degli esponenti più interessanti.

Chérif abbandona ancora giovane la sua terra per recarsi in Svizzera a studiare. Qui entra in contatto con il mondo del teatro, di cui ben presto diverrà uno degli esponenti più interessanti. Dopo aver fatto l’assistente alla regia di Roland Jay, allora direttore del Conservatoire di Losanna, per un allestimento de La dodicesima notte di Shakespeare. Dopo aver studiato all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, nel 1982 esordisce alla regia con un montaggio di poesie di Pasolini intitolato Passione . Nel 1983 cura un altro spettacolo di poesia sull’opera di Vincenzo Cardarelli, messo in scena a Tarquinia e lo stesso anno è aiuto regista di A. Trionfo per Le baccanti di Euripide al Teatro Olimpico di Vicenza. L’anno seguente, nel corso del XXXII Festival di Teatro di Venezia, presso i cantieri navali della Giudecca, dirige lo spettacolo-laboratorio Quai Ouest , primo testo di B. M. Koltès messo in scena in Italia. Nella stagione 1987-88 riscuote grande successo e l’attenzione della critica per i suoi spettacoli Medea di Euripide, Pièce noire di E. Moscato e Piccola Alice di E. Albee, con A. Bonaiuto e A. Piovanelli. Chérif, a partire dal lavoro di Moscato, costruisce un originale percorso della diversità attraverso il reperorio contemporaneo; percorso che continua con I paraventi di J. Genet (Teatro Testoni, Bologna 1990) e con Improvvisamente l’estate scorsa di T. Williams (1991), entrambi con protagonista A. Valli, e che proseguirà con un lavoro di Copi. Nel 1991 ancora uno spettacolo che lascia il segno: Nella solitudine dei campi di cotone di B. M. Koltès nella versione di F. Bruni, con P. Micol, M. Belli e le scene di A. Pomodoro, che recentemente (stagione 1997-98) è stato riproposto al Festival di Benevento con protagonisti E. Fantastichini e A. Iuorio.

La felice collaborazione con A. Valli e A. Pomodoro trova compimento nella fondazione della compagnia La Famiglia delle Ortiche, che deve il proprio nome a una battuta dei I paraventi , spettacolo in cui i tre avevano lavorato assieme. La nuova `famiglia’ teatrale mette in scena Più grandiose dimore di E. O’Neill, L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi (entrambi del 1993). In seguito, C. incontra la profonda e tormentata scrittura di Antonio Tarantino, vero caso teatrale degli anni Novanta. Di Tarantino cura la regia di Stabat mater (1994) con P. Degli Esposti, Passione secondo Giovanni (1994) con E. Bonucci e A. Piovanelli, Vespro della Beata Vergine (1995) con L. Banfi e Lustrini (1997) con P. Bonacelli e M. Foschi.

Folies Bergère

Il 2 maggio 1869 Albert Boislève inaugura un locale in un edificio in precedenza dedicato alla vendita di mobili, non distante dal centro di Parigi, in un quadrilatero compreso fra rue Richer, rue Saulnier, rue Bleue e rue de Trevise che viene curiosamente chiamato `les Folies Bergère’, dal nome di una via vicina. È un café-spectacle che ospita alcuni cantanti mentre gli avventori mangiano e bevono. Nel 1871 arriva alla direzione Leon Sari, già segretario di Alexandre Dumas al Delassements Comiques, e in quindici anni porta il locale alla celebrità soprattutto come teatro di varietà presentando vedette dell’epoca (grazie anche all’operato di Rosinski, un collaboratore di Barnum): fra queste il giocoliere Agoust e gli Hanlon Lees. Nel 1881 il teatro cambia attività e si dedica alla musica classica col nome `Le concert de Paris’: tonfo immediato, che provoca anche un fallimento economico. Nel 1885 sono i coniugi Allemand a rilevare il locale affidando la direzione artistica a Edouard Marchand che dà spazio per la prima volta anche al genere che diventerà il vessillo del teatro: la rivista a grande spettacolo. Il 30 novembre del 1886 debutta Place aux jeunes! . Ma le Les Folies Bergère restano per il momento soprattutto un teatro di varietà. Edouard Marchand viaggia in tutto il mondo alla ricerca di artisti particolari: tra questi il gigante Chang, la famiglia di acrobati icariani Kremo, il celebre clown e ammaestratore di animali Dourov. Poi il giocoliere Paul Cinquevalli, i comici Little Tich e Carl Baggessen, le Sisters Barrison e Loie Fuller, che debutta nel 1892 e torna più volte nell’arco di una quindicina d’anni; inoltre le belle Liane de Pougy e Caroline Otéro.

Una delle ultime fiammate di Edouard Marchand è l’ingaggio di Cléo de Mérode, già stella dell’Opéra. Nel 1901 subentrano alla gestione i fratelli Emile e Vincent Isola, ex prestigiatori e reduci dalla direzione di numerosi locali parigini. I fratelli Isola affermano la modalità di produzione della rivista che si chiamerà La Revue des Folies Bergère ‘. Una nuova produzione viene allestita ogni primavera o per le feste natalizie, mentre il resto dell’anno è ancora dedicato al varietà, nel corso del quale vengono anche proiettate delle pellicole appositamente realizzate da George Meliès. Assurge a ruolo di stella il cantante Harry Fragson, che si accompagna da solo al pianoforte. Dal 1905 per due anni dirige il locale Paul Ruez, che lascia però un segno assai labile. Tornano i fratelli Isola e ingaggiano nuovi nomi prestigiosi. Il cartellone del 1910, grazie all’operato del nuovo amministratore Clement Bannel, vede il debuttante Maurice Chevalier e i clown Grock e Antonett, oltre a un trascurato giovane mimo acrobata della troupe inglese di Fred Karno: Charles Spencer Chaplin. Altre stelle del periodo sono Margaretha Gertruida Zelle, in arte Mata Hari, il giocoliere Salerno e i Fratellini. Ma in quegli anni le F.B. devono il loro successo anche al fatto di costituire una sorta di casa di appuntamenti non ufficiale e all’essere divenute un tempio dello déshabillage , lo spogliarello, ospitato per la prima volta nel 1912. La situazione cambia all’inizio degli anni ’20, quando, dopo un breve periodo di crisi in corrispondenza della prima guerra mondiale, la direzione viene assunta dal celebre Paul Derval che la manterrà per oltre mezzo secolo, attraversando indenne persino un’altra guerra mondiale. `Monsieur Folies Bergère’, come viene chiamato, afferma l’estetica dello sfarzo nelle riviste parigine: ne produce trentadue, tutte con un titolo di tredici lettere, comprendente la parola ‘folie’ o ‘folies’ (a parte due Revue d’Amour ): En pleine Folie, Coeurs en Folie, Un soir de Folie, La Folie du jour, Un vent de Folie, La grande Folie, De la Folie pure, Un coup de Folie, L’usine en Folie, Nuits de Folie, Femmes en Folie, La Folie d’Amour, Folies en fleur, ecc.

Le Les Folies Bergère sono fra i pochi locali che tengono viva la tradizione dei grandi spettacoli parigini anche alla fine degli anni ’30, quando altri famosi locali (come il Moulin Rouge) chiudono o si trasformano in cinema. Altri artisti notevoli presentati nella gestione sono la ballerina jazz `dadaista’ Nina Payne, il mitico Jean Gabin, la strana coppia Mistinguett-Fernandel e la diva per eccellenza della rivista: Joséphine Baker. Negli anni ’50 il locale comincia a essere conosciuto in tutto il mondo, anche grazie a una serie di tournée all’estero abilmente gestite da Derval. Quando questi scompare, nel 1966, è la vedova Antonia a mantenere la gestione del locale incaricando della direzione artistica Michel Gyarmathy. Inizia però una certa disaffezione del pubblico; i nomi celebri si diradano. Emergono comunque Zsa Zsa Gabor, Magali Noël e Liliane Montevecchi (già ballerina con Roland Petit). Nel 1974 la direzione passa a Helene Martini, che la gestisce senza particolari scossoni per un ventennio, rassegnata al sorpasso del Lido e del rinnovato Moulin Rouge. A metà degli anni ’90, con l’incarico di regista all’argentino Alfredo Arias, viene prodotta Fous des Folies , tentativo, solo in parte riuscito, di restituire il locale alla sua leggenda.

Fougez

Il nome d’arte Fougez, le fu imposto a emulazione di Eugénie Fougère, grande chanteuse francese. Ma la scelta dello pseudonimo obbediva anche a un `travestimento’ esotico pressoché obbligatorio esaltato addirittura in canzoni napoletane diffuse ancora oggi: “Chi me piglia pe’ francese, chi me piglia pe’ spagnola, ma so’ nata a Ponte ‘e Mola”. Oppure, ancora più esplicitamente, in “‘A sciantosa” di Capurro-Gambardella: “Nfaccia a `o cartiello – so’ Mademoisell Lilì – ma sempe Nannina so”‘. Bambina prodigio, a nove anni era già contesa dai teatri di varietà. Ebbe grande successo anche a Parigi; a 29 anni, star di prima grandezza, percepiva compensi astronomici: 500 lire a sera. (Erano i tempi di “Se potessi avere mille lire al mese”). Dal 1928 formò compagnia di riviste con il marito, il ballerino francese, esperto di tango, René Thano. Sui primi manifesti, veniva definita `stella eccentrica’, non essendo ancora stato importato il termine `soubrette’. Così comparve in cartellone, partner di Peppino Villani, comico napoletano, e si distinse soprattutto come interprete veemente e passionale di canzoni diventate popolari: “Vipera”, di E. A. Mario oppure “Salotto bleu” di Neri e Bonavolontà, 1923, eseguita quest’ultima all’Eldorado di Napoli. Diceva il refrain : “Salotto bleu – del nostr amor – con quanto ardor – verrò quassù”. In scena, impennacchiata alla parigina eseguì, “Fox-trot delle piume”. Grande successo ebbe la rivista Donne, ventagli e fiori . Nella stagione 1935-36, al Quattro Fontane di Roma, la compagnia Fougez-Thano presenta Sogno di una notte di primavera di Ricciuti e Spadetta, con l’esordio di un comico napoletano di talento: Nino Taranto, che dopo questa partecipazione, dalla stagione seguente, farà compagnia in proprio. Nella stagione 1936-37, ecco la coppia dar lezioni di ballo a un `cafone abruzzese’, il comico dialettale Virgilio Riento. La rivista si intitola Svegliati Giacchino! , autore Mario Massa. Nella stagione seguente va in scena, con grande successo, Bentornata primavera . Nel cast, Rosalia e Dante Maggio e un Carlo Dapporto in ascesa irrefrenabile. È già stato applaudito nell’imitazione di Stanlio accanto a Campanini-Ollio, qui diventa attore brillante e ballerino. «Con la divina Fougez ed il suo celebre partner René Thano, ballavo il `Bolero’ di Ravel», ricorda. Riviste sempre sfarzose `alla parigina’: in Trionfo italico , scende da una scalinata lunga e fastosa, in anticipo sulle discese di Wanda Osiris. Il talento della F. rifulse soprattutto nell’interpretazione delle canzoni. Esecuzione che ella stessa codificò: «Mimica facciale, comica, pronunzia, voce, bel corpo, abbigliamento, truccatura, tutto concorre ad un unico risultato di una buona, perfetta interpretazione. Occorre analizzare attentamente, parola per parola, sillaba per sillaba, con i respiri della punteggiatura, il testo della canzone». Nel film Gran varietà , 1954, di Domenico Paolella, venne imitata da Lea Padovani; Sordi rifaceva il fantasista-trasformista Fregoli.

Solov’ev

Terminato l’Istituto coreografico di Leningrado, danza con il Teatro Kirov dal 1958 al 1977. Danzatore classico di grande talento lirico drammatico, è stato interprete di un vasto repertorio: Lago dei cigni , Bella addormentata , Bajadera , Raimonda , Giselle, Chopiniana , Il cavallino gobbo . Dotato di un salto forte e leggero è diventato presto uno dei più acclamati danzatori della sua generazione. Vertice della sua interpretazione è stato l’Uccello azzurro in bella addormantata. Impiegato in titoli del repertorio contemporaneo sovietico ( Il pianeta lontano , Il paese dei sogni , Miniature spagnole , Orestea , Icaro , Cenerentola , Sinfonia di Leningrado , La creazione del mondo ).

Giraudoux

La carriera teatrale di Jean Giraudoux costituisce un tipico esempio della possibilità – o necessità – di suddividere la propria esistenza in due professioni appartenenti a due ambiti totalmente separati. Alto funzionario del ministero degli Esteri, Jean Giraudoux dedica infatti gran parte delle sue energie alla scrittura e, specificamente, al teatro: dalle sue opere pare trasparire una linea direttrice, una tendenza generale riconducibile all’interesse dell’autore per il mito e per il confronto tra quest’ultimo e il vivere contemporaneo. Dal punto di vista stilistico, Jean Giraudoux pare corrispondere perfettamente al precetto di Louis Jouvet, direttore della Comédie des Champs-Elysées per cui «il grande teatro è soprattutto bel linguaggio». L’incontro tra i due (1928) non può dunque che dar vita a una fruttuosa collaborazione: Jean Giraudoux confeziona per Jouvet testi scritti in modo elegante e strutturati secondo le regole della tradizione. Saranno dunque Siegfried (1928), adattamento da un romanzo dello stesso Giraudoux, Amphytrion 38 (1929) e, soprattutto, Intermezzo (1933), opera che Jouvet riteneva rappresentasse perfettamente lo spirito e lo stile dell’autore. Uno stile spesso tacciato di eccessiva `mondanità’ nei temi – come si è detto di ispirazione mitica – e nei toni, ironici e distaccati; in realtà, è sufficiente osservare la produzione del periodo immediatamente a ridosso lo scoppio del secondo conflitto mondiale, le opere di epoca bellica e quelle postume per cogliere non solo l’accresciuta consapevolezza e la maggior capacità di indagine psicologica, ma anche il netto incupirsi del teatro di G. Le opere teatrali realizzate tra il 1935 e il ’39, infatti, sono intrise da un senso di catastrofe imminente, dove l’umanità appare incapace di scongiurare ed esorcizzare il tragico. È il caso di La guerra di Troia non si deve fare (La guerre de Troie n’aura pas lieu , 1935), Electre (1937), Ondine (1939) opere la cui programmaticità di intenti rasenta la struttura `a tesi’. Molto nota, infine, un’opera messa in scena dopo la morte dell’autore, La pazza di Chaillot (La folle de Chaillot, 1945). Messa in scena per la prima volta a Parigi nel 1945 da Jouvet, La pazza di Chaillot conferma, dietro l’apparente leggerezza, la profondità della dolorosa meditazione di G. sulla decadenza del mondo morale, politico e metafisico suo contemporaneo.

Weil

Raro esempio di coerenza teorica e di vita, Simone Weil può essere considerata una delle voci più originali della riflessione filosofica del Ventesimo secolo. Le sue esperienze di vita, come il lavoro da operaia in una fabbrica Renault (1933-34), il tentativo di arruolarsi fra gli anarchici spagnoli (1936), la conversione al cristianesimo (dopo un viaggio ad Assisi nel 1937), la militanza nella resistenza francese in esilio, hanno segnato la sua riflessione teorica, ancorandola fortemente al sociale e alla critica di ogni totalitarismo. Tra i suoi scritti, pubblicati postumi, sono da ricordare La condizione operaia, i Quaderni e Oppressione e libertà . Per il teatro ha scritto una tragedia in tre atti, Venezia salva (Venise sauvée), la cui stesura, cominciata nel 1940, purtroppo non fu mai terminata a causa della prematura scomparsa della scrittrice. L’opera, che si basa sulle cronache di Saint-Réal sulla congiura degli Spagnoli per impadronirsi della Serenissima, uscì postuma nel 1955 e, in Italia, è stata allestita da Luca Ronconi (1994).

Vannucchi

Lasciata la Sicilia, a sedici anni Luigi Vannucchi si iscrive all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ e, non ancora diplomato, nel 1951, interpreta la parte di Cristo in Donna del Paradiso, spettacolo curato da Silvio D’Amico e messo in scena da Orazio Costa (suoi insegnanti teatrali). Terminata l’Accademia (1952), entra immediatamente nella compagnia del Teatro d’Arte diretta da V. Gassman e L. Squarzina, debuttando nel 1952 nella parte di Laerte accanto a Gassman (Amleto), che fu per V. un modello ma anche un freno alla sua personale ricerca artistica. Nel 1953 recita in Tre quarti di luna (scritto e diretto da Squarzina).

Nel 1954 passa alla compagnia del Teatro Nuovo diretta da G. De Bosio, con la quale interpreta Corte marziale per l’ammutinamento del Caine di H. Wouk (regia di Squarzina) e da protagonista Buio a mezzogiorno di S. Kingsley e Sacro esperimento di F. Hochw&aulm;lder (regie di De Bosio). Nel 1955, al seguito della compagnia Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi prende parte a una grande edizione di Re Lear. In seguito affronta lavori impegnativi di Ibsen, Pirandello, Betti, Hayes e, nel 1957, viene scritturato dal Piccolo Teatro di Milano per la parte di Saint-Just in I giacobini di F. Zardi (regia di Strehler) dove rivela le sue caratteristiche di attore elegante, dotato di una notevole sicurezza scenica.

Nel 1961 ottiene un personale successo, a Ferrara, come Aligi nella Figlia di Iorio di D’Annunzio (regia di Ferrero), successo riconfermato nel 1972 a Gardone, con la Compagnia degli Associati. In questa formazione, dopo essere continuamente passato da un teatro all’altro, Vannucchi sembra trovare, a cavallo degli anni ’70, un periodo di tranquillità (ricordiamo la lunghissima serie di repliche del Vizio assurdo, ricostruzione drammaturgica di Lajolo e Fabbri della vita di Pavese, in cui Vannucchi espresse un’intima adesione con lo scrittore piemontese). Tra i successi teatrali degli anni ’60: Il diavolo e il buon Dio di Sartre, regia di Squarzina (1963); Ciascuno a suo modo di Pirandello, sempre con Squarzina (1963); Riunione di famiglia di Eliot, regia di Ferrero (1964); Troilo e Cressida di Shakespeare, regia di Squarzina (1964); Zio Vanja di Cechov, regia di Fenoglio (1965).

Lavorò anche per il cinema (in Anno uno di Rossellini interpreta con finezza la figura di De Gasperi) e soprattutto per la televisione, dove appare in più di trenta sceneggiati di successo. Si toglie la vita subito dopo aver portato sul piccolo schermo Il vizio assurdo , lavoro che rimane uno dei più sentiti della sua carriera.

Apollinaire

Personaggio chiave della Belle Epoque, Apollinaire Guillaume fu tra gli animatori del rinnovamento estetico che coivolse tutti gli ambiti dell’arte nel primo ventennio del Novecento. Sperimentatore di linguaggi, contribuì al superamento dell’eredità del simbolismo in poesia e all’avvento della modernità intesa come concetto formale e come forza rivoluzionaria, provocatoriamente sperimentale. Vicino agli ambienti del dadaismo, amico di Picasso – con cui condivise gli anni del Bateau Lavoir – di Léger, Maria Laurencin, Picabia, Braque, Derain, Apollinaire Guillaume visse intensamente la fase delle avanguardie artistiche e letterarie. La commistione dei linguaggi visivo e verbale pare trovare perfetta esemplificazione nel suo teatro. Di fatto la tentazione per un teatro comico e simbolico ha fatto parte di tutta la sua carriera, e dunque frammenti dialogici si alternano alle poesie e testi in prosa consentendogli di far convergere le diverse istanze espressive della sua personalità composita. In collaborazione con André Salmon, Apollinaire scrive nel 1906 due opere La Temperature e Le Marchand d’anchois, un libretto di operetta.

Di tutt’altra importanza rispetto a questi tentativi iniziali, Les mamelles de Tirésias , dramma surrealista in due atti e un prologo, messo in scena con grande scandalo nel 1917. Esempio di ‘spettacolo-provocazione’, il testo racconta con estrema forza, anche visiva, una lettura aristofanesca e stralunata di un provvedimento governativo coevo, quello della `natalisation’, vera e propria campagna bellica per l’incremento della natalità. L’altra opera di Apollinaire esplicitamente destinata al teatro è Couleur du temps , messa in scena a Parigi dopo la morte in guerra dell’autore (1918): associa il gusto per l’esaltazione della tecnologia (il volo, il fascino doloroso del conflitto) che fu proprio dell’autore negli ultimi anni della sua attività con l’impiego di marionette, quale supporto drammaturgico funzionale al sovrapporsi di frammenti lirici su grandi luoghi comuni come l’amore, la guerra, il futuro, la vita e la morte, ulteriore segno dell’eclettismo di Apollinaire, del suo debito verso il teatro dada, ma anche della sua straordinaria plurivocità d’espressione.

Giarola

Antonio Giarola ha il merito di aver diffuso per primo in Italia la mentalità europea del circo di regia. Dopo una formazione al Dams, nel 1984 crea con lo spettacolo Clown’s Circus il primo esempio italiano di regia e drammaturgia applicate al circo tradizionale, come già avveniva da oltre un decennio in tutta Europa. Tale esperienza, seppur limitata al nord dell’Italia per un solo anno, suscita l’interesse della famiglia di Darix Togni che chiede all’artista veronese un nuovo approccio artistico, valorizzando considerevolmente il tipo di lavoro e fissando le basi per la creazione del celebre successo europeo Florilegio. Nel 1988 Giarola è co-fondatore dell’Accademia del circo. Nel 1991 e fino al 1994 crea a Verona il festival internazionale del circo città di Verona, la prima rassegna italiana a far confluire nel nostro Paese specialisti e artisti dai cinque continenti, con un concreto riconoscimento internazionale. Nel 1994 crea con Ambra Orfei lo spettacolo Antico circo Orfei – Omaggio a Federico.

Visconti

Nato nella Milano mitteleuropea d’inizio secolo, mentre alla Scala andava in scena Traviata, il conte Luchino Visconti, della famiglia lombarda che regnò con lo stemma del biscione dal 1287 al 1450, fu l’unico tra i grandi registi italiani che seppe coltivare tre amori: cinema, prosa, musica. Diresse diciotto film, quarantacinque spettacoli, ventuno opere, tre azioni coreografiche e supervisionò perfino una rivista con la Osiris, Festival , nel 1955. Parafrasando Stendhal, Vinsconti voleva scritto sulla sua tomba: `Amò Cechov, Shakespeare e Verdi’. Chi di più? Verdi, perché di melodramma è intrisa tutta la sua attività, come se la musica avesse `diretto’ da sempre la sua ispirazione: nella Terra trema c’è Bellini, in Senso e Ossessione Verdi, in Bellissima Donizetti, oltre a Mahler, Wagner, Bruckner.

Vinsconti fu un cultore dell’etica del tempo perduto: amante di Proust, tentò invano e fino all’ultimo di realizzare la Recherche: la scena danzante del Gattopardo fu la prova generale del ballo dei Guermantes. In molte opere egli aggiunse profonde suggestioni personali, confesso e convinto che la vera storia che avrebbe voluto raccontare era quella della sua famiglia: non a caso in Vaghe stelle dell’Orsa Marie Bell suona César Franck, proprio come sua madre, tassello di un’autobiografia sempre travestita. Allevato, quarto di sette fratelli, negli agi di una famiglia nobile ma assai colta e storicamente progressista, che gli aveva insegnato ad amare il Bello, a suonare il violoncello, a cavalcare all’Accademia di Pinerolo, Visconti ebbe fin da giovane un teatro personale nel mondano palazzo di via Cerva dove, per economia energetica, le luci si abbassavano in salotto all’ora in cui si accendevano quelle della Scala. Il nobile rampollo frequentò fin da piccolo il palco della Scala con l’adorata madre che veniva, self made, dalla borghesia industriale della Carlo Erba.

L’educazione musicale e teatrale fu basilare nella storia umana e professionale del signorino Luchino, i cui stessi antenati avevano amministrato la Scala e i cui genitori avevano stretto amicizia con Toscanini. Da un suo lungo soggiorno in Francia, dove conobbe l’intelligencija del Fronte popolare e la mondanità d’epoca – la sarta Chanel, Cocteau e Marais, Carné, Duvivier e soprattutto Jean Renoir, che nel 1936 con Une partie de campagne lo fece debuttare nel cinema – e poi dal trasferimento a Roma dopo il divorzio dei genitori, Visconti, affascinato all’inizio dall’arte militare, impara presto il verbo impegnato del comunismo. Nella capitale il neo regista rischia la condanna a morte dei nazi-fascisti (Maria Denis si prende il merito di averlo salvato, ma la famiglia nega), frequenta i giovani antifascisti legati alla rivista “Cinema”, da Alicata a De Santis a Trombadori. Con essi realizza nel 1942-43 Ossessione, storica opera prima che rivoluzionò tutti gli stilemi del cinema di regime, ispirandosi in egual misura al fascino della nebbia padana, al romanzo americano di Cain col vagabondo Girotti, all’atmosfera francese con l’appassionata Calamai. Il film scoppiò come una bomba e fu distribuito poco e male: dopo le proiezioni, i vescovi facevano benedire la sala. Per caso, ad opera del montatore Serandrei, era nato il termine `neorealismo’.

Dopo la Liberazione, dopo un momento documentario e militante, inizia, sempre contro l’Italietta piccolo borghese, sborsando entusiasmo e soldi (spesso finanzia i progetti di tasca propria, col patrimonio di famiglia) a un gruppo teatrale con Rina Morelli e Paolo Stoppa all’Eliseo di Roma: anche questa fu una rivoluzione. Mentre a Milano Grassi e Strehler inventavano il teatro pubblico, a Roma V. rinnovava, nella forma e nei contenuti, quello privato. Offrendo al signorile pubblico degli anni ’40 nuovi testi coraggiosi e/o scandalosi, francesi (nel 1945 I parenti terribili di Cocteau e Adamo di Achard) e americani, scoprendo con Zoo di vetro nel ’46 e Un tram che si chiama desiderio nel ’49 la via freudiana alla drammaturgia di Tennessee Williams.

Passerà poi col bellissimo Morte di un commesso viaggiatore (1951), Il crogiuolo (1955) e Uno sguardo dal ponte (1958) – dramma dell’immigrazione a Brooklyn, con echi di tragedia greca ed effetti speciali scenografici – ad Arthur Miller. Ma nello stesso tempo V. frequenta anche i classici, e dopo Rosalinda inscena nel 1949 una sontuosa, barocca edizione di Troilo e Cressida di Shakespeare al Giardino di Boboli; obbliga nel ’49 il giovane Gassman, che vi era portato, e il giovane Mastroianni, che invece faticava non poco, a imparare i versi dell’ Oreste di Alfieri; si dedica, nel corso del tempo, all’amato Cechov, in leggendarie recite di Tre sorelle (1952), Zio Vanja (1955), Il giardino dei ciliegi (1965). Con la sua abilità nello scoprire e modellare i talenti, col suo maniacale professionismo e la sua ansia di precisione – voleva, per ragioni psicosomatiche, che tutto per gli attori fosse autentico e originale, ogni fiore, ogni suppellettile, ogni capo di abbigliamento, anche se nascosto al pubblico – cresceva una nuova generazione, in primo piano negli anni ’50: dal gruppo De Lullo, Valli e Falk che formerà la Compagnia dei Giovani, a Mastroianni che divenne l’attore che sappiamo anche per merito suo, fino alla sua adorata Lilla Brignone con cui fece esperienze emotivamente irripetibili, da Come le foglie di Giacosa (1954) a Contessina Giulia di Strindberg (1957).

Protetto da un grande senso dello spettacolo, che gli permetteva di allestire Sartre, Anouilh e Beaumarchais (il mitico Figaro con Vittorio De Sica nel 1946), ma anche Caldwell, Dostoevskij ( Delitto e castigo con Benassi nel ’46) e perfino Vita col padre, anche se l’humour non era il suo forte. Visconti sapeva valorizzare e universalizzare i testi, senza cambiarne una virgola o un’intenzione. Magistrale il lavoro fatto nel riformare i vezzi goldoniani, rivalutandone il dato culturale e sociale con La locandiera (1952) e L’impresario delle Smirne (1957): oggi è nella storia del teatro, complementare a quello di Strehler. Visconti, per la fede nel comunismo e nell’omosessualità, per la sua vita di clan ai limiti dello snobismo, fu un personaggio sgradito ai moralisti e ai potenti democristiani che spesso, sempre per lavare in casa i panni sporchi, lo ostacolarono, bloccando addirittura il suo debutto nella lirica che doveva avvenire al Maggio musicale e fu invece rimandato al 7 dicembre 1954, apertura della `sua’ Scala con La vestale con la `sua’ Callas.

Scandalose le gaffe della Mostra del cinema di Venezia, che mancò di premiarlo, contro ogni evidenza artistica: prima nel 1954 per Senso, che osava rileggere il patriottismo garibaldino alla luce di Gramsci, osservando il Risorgimento come una rivoluzione mancata, dove il vero protagonista è il melodramma che si fa vita, sangue, passione; poi nel ’60 per il capolavoro scomodo Rocco e i suoi fratelli, scritto tra gli altri con la fedelissima Suso Cecchi D’Amico, in cui V. tornava nella `sua’ Milano per raccontare la tragedia della immigrazione interna, la storia di una famiglia lucana che si trasferisce nella metropoli del boom. Si distinguono echi di Verga (già affrontato con La terra trema ), Dostoevskji ( L’idiota ), Mann e molto melodramma, oltre alla partitura di Nino Rota; e delle nebbiose atmosfere del ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, giovane autore lombardo, con cui V. darà scandalo allestendo nel 1960 L’Arialda , eroina di periferia impersonata da una memorabile Rina Morelli – caso unico di sequestro e denuncia dopo la prima recita: Milano ai tempi del pool censorio Trombi-Spagnuolo – e poi La monaca di Monza (1967) con la Brignone. Dal 1954 al ’57 ecco la terza rivoluzione, quella della regia nell’opera lirica: dopo Spontini, e sempre con la Callas di cui fu Pigmalione, ecco La sonnambula , La traviata , Anna Bolena e Ifigenia in Tauride.

Con Visconti nulla in scena veniva lasciato al caso; egli regalava al melodramma un impeto drammatico legato al tessuto musicale e che non prescindeva dalla psicologia, togliendo quel tanto di falso e di povere che si era accumulato. Celebri le scarpe che Violetta Valéry, scandalizzando la Scala il 28 maggio 1955, manda all’aria in un impeto di neo realismo e di verità emotiva che valorizzava il valore musicale ed espressivo da ogni lato del palcoscenico, complici il suo spirito romantico e la sontuosità degli allestimenti. Ecco, intorno agli anni ’60, Don Carlo, Il cavaliere della rosa e Trovatore a Londra, Falstaff e Simon Boccanegra a Vienna, Macbeth a Spoleto diretto da Schippers: V. fu l’anima del nuovo Festival dei Due Mondi di Menotti, dove allestì Il duca d’Alba nel 1959, Salomé nel ’61, un’altra Traviata nel ’63 (cui ne seguirà una terza, inglese, nel ’67, con la Freni); fino all’addio trionfale, immobilizzato dalla malattia in un palco del Nuovo, la sera del 21 giugno 1973, con una Manon Lescaut che, per passione e slancio, rimane nel cuore di chi l’ha vista. Nel secondo tempo della sua carriera il cinema gli rende tutti gli onori con il grande successo nazional popolare del Gattopardo , col Leone d’oro a Venezia nel 1967 per Vaghe stelle dell’Orsa e con la `trilogia tedesca’ (La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig), fino agli ultimi e meno ispirati Gruppo di famiglia in un interno e il dannunziano L’innocente , girati dal regista già malato e immobile su una sedia a rotelle.

Ma Visconti proseguiva anche con la prosa: a volte, disgustato dall’Italia, emigrando in Francia, dove allestì nel 1958 Due sull’altalena di Gibson con Marais e la Girardot, mentre nel ’61 regala ai `fidanzatini’ Delon e Schneider l’elisabettiano Peccato che sia una puttana di John Ford e nel ’65, con Auclair e Girardot, mette in scena Dopo la caduta di Miller. E lo troviamo ancora al lavoro in Italia con due titoli sfortunati Usa (Veglia la mia casa, Angelo di Wolfe e I ragazzi della signora Gibbons di Glickman e Stein, 1958), Figli d’arte di Fabbri, L’inserzione della Ginzburg, col romantico Egmont di Goethe, nel ’67 a Firenze. L’addio alle scene (di prosa) avviene nel 1973 a Roma con una discussa (dall’autore) edizione di Old times di Pinter con Orsini, la Cortese e la Asti. Artefice di grandi spettacoli totali, dove si rinnovò anche l’artigianato e la tecnica, Visconti scoprì ovunque i talenti migliori: innumerevoli gli attori che dovrebbero ringraziarlo. Ma accanto a lui si sono distinti anche l’operatore Rotunno, il costumista Piero Tosi con la sartoria Tirelli, Suso Cecchi d’Amico che gli fu fedele fino all’ultimo; Scarfiotti, Chiari, Garbuglia, Polidori e i `vecchi’ aiuti regista Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. Come tutti i grandi fu un pezzo unico, non lascia eredi, solo imitatori e nostalgia.

O’Neill

Figlio di un attore di origine irlandese, famoso per un Conte di Montecristo replicato per decenni, Eugene O’Neill tentò nella prima giovinezza i più diversi mestieri – cercatore d’oro, marinaio, cronista – fin quando, ammalatosi di tubercolosi, fu ricoverato nel 1912 in un sanatorio, dove trascorse il tempo leggendo soprattutto Strindberg e i classici greci. Seguì poi per un anno i corsi di G.P. Baker a Harvard e nel 1914 pubblicò, col titolo Sete (Thirst), cinque atti unici, i cosiddetti `drammi marini’. A Provincetown, nel Massachusetts, dove si era stabilito, entrò allora in contatto con un gruppo teatrale – i Provincetown Players – che nel 1916 decise di metterli in scena, partendo da In viaggio per Cardiff (Bound East for Cardiff): un dialogo teso, anche se un po’ schematico, fra due marinai, uno dei quali moribondo, che evocano un passato di sofferenze e di sogni. I Provincetown Players portarono poi i loro spettacoli a New York, dove nei diciotto anni successivi O’Neill avrebbe fatto rappresentare più di trenta drammi, in uno o più atti, imponendosi come il maggior autore teatrale degli Usa. Lo si può definire il suo lungo apprendistato: lo scrittore alla ricerca di se stesso e di una propria cifra percorreva le strade più diverse.

Componeva solidi drammi realistici con risvolti melodrammatici, come Anna Christie (1921) e Desiderio sotto gli olmi (Desire under the Elms, 1924); sperimentava modi propri dell’espressionismo nell’ Imperatore Jones (Emperor Jones, 1920) e in Lo scimmione peloso (The Hairy Ape, 1922); faceva uso delle maschere in Il grande dio Brown (The Great God Brown, 1926), dei monologhi interiori pronunciati ad alta voce fra una battuta e l’altra in Strano interludio (Strange Interlude, 1928); tentava lo strindberghiano conflitto fra i sessi in Per sempre (Welded, 1924), il dramma storico a grande spettacolo in Marco Millions (1928), la commedia nostalgica sulla provincia americana in Fermenti (Ah, Wilderness!, 1933), la rivisitazione della tragedia greca in Il lutto si addice ad Elettra (Mourning Becomes Electra, 1931). Erano in genere opere di grandi ambizioni, di forte suggestione e di indubbia teatralità, anche se non sempre sorrette da un’adeguata eccellenza stilistica, che si possono considerare le premesse indispensabili ai suoi due capolavori, Arriva l’uomo del ghiaccio (The Iceman Cometh) e Lungo viaggio verso la notte (Long Day’s Journey Into the Night), rappresentati rispettivamente nel 1946 e nel 1956, ma scritti fra il 1934 e il 1943, cioè negli anni in cui il nome di O’Neill, dopo il fiasco di Giorni senza fine (Days without End), cessò di comparire sui cartelloni di Broadway (ma fu in quel periodo che gli venne conferito, nel 1936, il premio Nobel). Sono opere d’impianto realistico, dove i temi consueti del rapporto fra realtà e illusione, della miseria della condizione umana, della desolazione di un mondo privato di rassicuranti punti di riferimento, trovano la loro espressione più coerente; soprattutto nella seconda, che è la lunga cronaca di un inferno familiare – quello stesso della prima giovinezza dell’autore – evocato con lucida consapevolezza e tenera solidarietà. Postumi furono rappresentati anche altri testi: Una luna per i bastardi (A Moon for the Misbegotten, 1957), L’estro del poeta (A Touch of the Poet, 1958), l’incompiuto Più grandiose dimore (More Stately Mansions, 1962) e l’atto unico Hughie (1964).

Supervielle

Esordisce molto giovane come poeta e come narratore, ma scrive la sua prima pièce solo nel 1932, a quarantotto anni. Si tratta di una fiaba, La bella nel bosco (La belle au bois), rappresentata con la regia di Georges Pitoëff. Bolivar , che scrive nel 1936, entra a far parte del repertorio della Comédie-Française. Il suo lavoro più noto resta Shéhérazade , di cui rimane memorabile l’allestimento del 1948, con le musiche di Milhaud, al Festival d’Avignone (regia di Jean Vilar). Un altro celebre regista, Raymond Rouleau, mette in scena il suo testo successivo, Il ladro di bambini (Le voleur d’enfants, 1949), adattamento dal romanzo Les suites d’une course .