Terron

Drammaturgo di straordinaria prolificità (ha firmato oltre sessanta opere), critico teatrale (ha collaborato con “L’Arena”, il “Corriere della Sera”, il “Corriere Lombardo” e “La Notte”), operatore culturale (dal 1952 al 1962 è stato direttore del settore spettacolo alla Rai). Il teatro di Carlo Terron ha saputo esprimere con notevole anche se talvolta sottovalutata forza espressiva e morale soprattutto le inquietudini delle generazioni del dopoguerra, di cui ha colto, in sintonia con il teatro dei `processi morali’ di Betti, Eduardo, Fabbri, le contraddizioni e le debolezze più nascoste. Sostenuto da una scrittura virtuosistica e funambolica e da una forza satirica talvolta corrosiva, Terron ha goduto di un buon successo proprio negli anni ’50 e specialmente grazie alle tragedie. Su tutte spiccano – per l’altezza morale e la trama drammaturgica – Giuditta (Teatro Nuovo Milano, 1950), Processo agli innocenti (Teatro Odeon, Milano, 1950), Ippolito e la vendetta (Teatro Quirino, Roma, 1958), Lavinia tra i dannati (Teatro Bonci, Cesena, 1959).

Un riscontro meno entusiastico ebbero invece le pur valide commedie, tra cui si ricordano Non c’è pace per l’antico fauno (Teatro Manzoni, Milano, 1952), Notti a Milano (Teatro Odeon, Milano, 1963), I Narcisi (Teatro Sant’Erasmo, Milano, 1963). Non sparate sulla mamma (Teatro Sant’Erasmo, Milano, 1963); ma un grande successo hanno avuto i monologhi scritti per P. Borboni e da lei interpretati dal 1958 al ’72 ( Colloquio col tango – anche con il titolo La formica -, Eva e il verbo , La vedova nera e Si chiamava Giorgio ). Felice eccezione è stato anche il remake del vaudeville di Feydeau, Baciami, Alfredo (Teatro della Pergola, Firenze, 1969). Di fatto dimenticato nel corso degli anni ’70 ed ’80, quando Terron è diventato un autore più letto che rappresentato ( Le vocazioni sbagliate , Il complesso dell’obelisco e Stasera arsenico sono tra le scritture sceniche più significative), le sue pièce solo in tempi recenti hanno conosciuto nuovi allestimenti: in tal senso si collocano le riproposte effettuate presso il Salone Pier Lombardo , Chi ha paura della bomba all’idrogeno regia di Gianni Mantesi (1990) e il Sipario Spazio Studio a Milano nel 1995 di Una coppia di singles ovvero rissa col diario , regia di Gianni Mantesi, La sposa cristiana o anche camera 337, regia di Mattia Sebastiano e Stasera arsenico, regia di Mario Mattia Giorgetti.

San Francisco Ballet

Nata con il nome San Francisco Opera Ballet nel 1933, San Francisco Ballet si esibisce inizialmente nei balli d’opera e in lavori di Adolph Bolm. Si succedono poi alla sua guida Serge Oukrainsky (1937), il primo ballerino William Christensen (1938), che allestisce Coppelia, Il lago dei cigni, Schiaccianoci, e suo fratello Lew Christensen (1951), che stabilisce una stretta collaborazione con il New York City Ballet. Lo affianca fino al 1948 Michael Smuin che dalla stagione seguente è direttore unico, seguito poi da Helgi Tomasson (1985). Il repertorio del gruppo comprende, oltre alle coreografie di Christensen e Smuin, titoli di Balanchine e Butler, classici come La Sylphide e Il lago dei cigni, lavori di Tomasson, come Criss-Cross e Pandora’s Dance e brani come El Grito di Lila York, Sergeant Early’s Dream di Christopher Bruce, The Lesson di Flindt, Ciao Marcello di Val Caniparoli, su musica di Nino Rota, Othello di Lubovitch, Glass Pieces di Robbins, Drink to me only di Morris, The Dance House di David Bintley.

Aguglia

Di gran temperamento, Mimì Aguglia si contese con Marianella Bragaglia il titolo di `Duse siciliana’. Pur avendo debuttato da bambina, a soli quindici anni entusiasmò il pubblico del Teatro Machiavelli di Catania, come canzonettista. Il vero debutto avvenne, quattro anni dopo, a fianco di Giacinta Pezzana, con un testo di Dumas figlio: Signor Alfonso. Successivamente fu prima attrice della Compagnia dialettale siciliana Nino Martoglio, con cui interpretò, al Teatro Biondo di Palermo, Malia di Capuana, a fianco di Giovanni Grasso e Angelo Musco. Quindi fu Santuzza in Cavalleria rusticana e Mila in ‘A figghia di Joriu, versione in siciliano di Giuseppe Antonio Borgese del testo di D’Annunzio. Dopo le divergenze tra Martoglio e Grasso, fondò con quest’ultimo la Compagnia Grasso-Aguglia, con cui iniziò lunghe tournée all’estero. Staccatasi da Grasso, recitò negli Usa, ma i grandi successi li ottenne in Messico. Fu conosciuta anche a Londra e a Parigi. A Hollywood interpretò parecchie figure femminili di origine italiana e siciliana.

Calandra

Giovanissima, è già nella compagnia Proclemer-Albertazzi (per Il seduttore di D. Fabbri), poi con la Masiero-Volonghi, quindi con la Brignone-Santuccio; recita T. Williams ( Estate e fumo ) e Hofmannsthal ( L’incorruttibile ). Nel 1980 interpreta Il maggiore Barbara di Shaw con la regia di A.R. Shammah; nel 1985 è la volta di L’affittacamere di Osborne. Il 1996 la vede diretta da L. Ronconi nel Pasticciaccio di Gadda e da Aglioti in Donna di piacere . Oltre che in teatro, ha esteso la sua carriera al cinema e alla televisione, occupandosi anche di giornalismo.

sistema stanislavskiano

Il sistema stanislavskiano fu esposto dal regista Konstantin Stanislavskij in due saggi (Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio) e in molti appunti, note, articoli. Secondo Stanislavskij l’attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli, se sottomette alla volontà l’apparato fisico. Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il `se’, da cui parte tutto il processo creativo: il `se’ è la condizione fittizia in cui l’attore deve agire per rappresentare. La finzione, introiettata, provoca una reazione reale, che realizza lo scopo prefisso, contenuto nel `se’. Dunque il `se’ è un’ipotesi di lavoro su un avvenimento supposto: obbliga l’attore a reagire con un’azione reale a una circostanza immaginaria.

Altro concetto, le ‘circostanze date’: sono l’intreccio, i fatti, gli avvenimenti, l’epoca, il momento, il luogo dell’azione e quello che noi come interpreti aggiungiamo sia come interpretazione sia come allestimento (scenografie, luci, suoni, rumori). Il `se’ e le `circostanze date’ sono l’uno il complemento delle altre: il `se’ dà l’avvio all’azione, le `circostanze date’ la completano, la giustificano. L’immaginazione è in questo senso elemento fondamentale del mestiere dell’attore, perché l’autore raramente indica in modo completo le situazioni in cui vivono i suoi personaggi. Le didascalie e le indicazioni devono essere completate dall’attore, visualizzate con estrema precisione. L’insieme di queste visualizzazioni, che devono essere ininterrotte (una specie di film da proiettare continuamente sullo schemo interiore dell’attore), costituisce la `linea’ del personaggio. Altro elemento fondamentale, l’attenzione. Per evitare distrazioni l’attore deve esercitare l’attenzione, concentrandosi su singoli oggetti in scena (`oggetti-punto’), fino ai quattro `cerchi di attenzione’ (piccolo, medio, grande, massimo): partendo da una zona limitata (un tavolo con i suoi oggetti) l’attore deve arrivare a comprendere tutto lo spazio scenico, ma appena i contorni del cerchio si confondono bisogna immediatamente restringere il cerchio, limitandolo agli oggetti che sono a portata dell’attenzione visiva dell’attore.

La teoria dei `cerchi’ è connessa con quella della `solitudine in pubblico’: l’attore deve saper raggiungere, pur in presenza di centinaia di spettatori, un assoluto isolamento. Uno dei nemici più implacabili dell’attore nell’esercizio del suo mestiere è la tensione o contrazione muscolare, che può manifestarsi in un punto qualsiasi del corpo: corde vocali, con conseguente raucedine, abbassamento di voce, gambe, mani, soprattutto viso che si contorce in smorfie, gonfiori, tic ecc.; la lotta a questo difetto deve essere costante, non solo durante gli spettacoli ma anche fuori scena, nella vita normale. Un concetto fondamentale del s. è quello della `memoria’. Esiste una `memoria esteriore’, che permette all’attore di ripetere meccanicamente una scena ben riuscita, e una ben più importante `memoria emotiva’, che lo aiuta a portare in scena la propria riserva di emozioni; dunque quanto più la `memoria emotiva’ sarà ampia, forte, tanto più ricca e completa sarà la sua creazione. Perciò fondamentale per l’attore è creare delle `riserve’, ossia ampliare la sfera delle emozioni attraverso letture, ricordi, viaggi, visite a musei, e soprattutto con incessanti rapporti con i propri simili. Per arrivare al personaggio l’attore deve ottenere, come si è detto, una `linea ininterrotta’, lavorare con ricordi, situazioni immaginate, sogni, partendo dalla cosiddetta `toilette dell’anima’ (rilassamento muscolare, creazione di un piccolo cerchio di attenzione, ripasso dei `se’ e delle `circostanze date’, concentrazione sul tema principale).

Il tema principale deve essere presente per tutta la durata dello spettacolo a tutti gli interpreti, ognuno dei quali lo filtra attraverso il proprio io, lo assimila attraverso la propria sensibilità: i `se’ e le `circostanze date’ assumono un senso solo quando trovano la loro relazione con il tema principale. Uno dei punti nevralgici del sistema è il `tempo-ritmo’: ogni nostra azione, passione, sensazione, nella vita come sulla scena, è regolata da un tempo-ritmo, a cui di solito non prestiamo attenzione. L’attore invece deve sviluppare al massimo un metronomo interiore, che lo aiuta a sentire intuitivamente in modo esatto quello che dice e fa in scena. Molti testi teatrali hanno diversi tempi-ritmi combinati insieme (i personaggi cechoviani hanno spesso ritmi esteriori lentissimi e ritmi interiori agitatissimi). Due sono per Stanislavskij i grandi processi che sono alla base dell’interpretazione: quello di personificazione e quello di reviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare, per poi proseguire con lo sviluppo dell’espressività fisica (ginnastica, danza acrobatica, scherma, lotta, boxe), la plastica, l’impostazione della voce (respiro, canto), la dizione (studio della fonetica, dell’intonazione), logica e coerenza delle azioni fisiche, caratterizzazione esteriore. Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell’immaginazione (il `se’, le `circostanze date’) e prosegue con la divisione del testo in sezioni (all’interno delle quali vengono identificati i `compiti’ da eseguire), con lo sviluppo dell’attenzione, l’eliminazione dei cliché, l’identificazione del tempo-ritmo.

La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è rivissuto in modo autentico resta inerte, meccanico, inespressivo. Ma non basta che la reviviscenza sia autentica; deve essere in perfetta consonanza con la personificazione. Talora avviene infatti che l’attore abbia una reviviscenza profonda, ma la deformi con una personificazione grossolana, dovuta a un apparato fisico non allenato, incapace di trasmettere quello che l’attore sente. Non c’è attore che crei per ispirazione divina: più l’attore ha talento, più si preoccupa della tecnica soprattutto interiore. Il s. non è un metodo di recitazione, è un allenamento, attraverso cui si può raggiungere la creazione. Per quanto riguarda la seconda parte del s., la creazione del personaggio, Stanislavskij indica tre tappe: 1) la conoscenza (prima lettura, in cui l’attore deve lasciar affiorare immagini, ricordi, pensieri, associazioni; analisi in tre direzioni: approfondimento del testo, ricerca di suggerimenti non contenuti nel testo ma deducibili da accenni o da altri materiali, lavoro di `contatto’ tra mondo interiore dell’attore e del personaggio); 2) la reviviscenza, sollecitata dai compiti (sia meccanici sia razionali sia emozionali); 3) la personificazione.

Negli ultimi anni Stanislavskij rivoluziona questo schema tripartito per dare la precedenza, nella costruzione del personaggio, alle ‘azioni fisiche’: consiglia di riprodurre l’intreccio esteriore, episodio per episodio, con semplici azioni fisiche, evitando i compiti troppo difficili, ricercando la logica e la coerenza a partire dal gesto. Non più dunque una lettura approfondita del testo, ma una serie di gesti (relativi a una condizione data) che sollecitano la giusta reazione interiore: non è infatti possibile agire all’unisono col personaggio e sentire in dissonanza con esso. Solo quando si raggiunge la sensazione di `essere’ nel personaggio si può affrontare lo studio più dettagliato del testo. In conclusione si può affermare che l’importanza del s. sta soprattutto nel fatto che per la prima volta il processo creativo dell’attore viene sottoposto a un’analisi rigorosa da parte di un competente, attore lui stesso, capace di utilizzare nella sua analisi alcuni principi della moderna psicologia: ancor oggi in Europa e in America qualsiasi teoria del lavoro dell’attore fa riferimento ai lavori di Stanislavskij.

Hall

Peter Hall nutre fin da ragazzo un’innata passione per il mondo teatrale. Trasferitosi molto presto a Cambridge con la famiglia, frequenta instancabilmente il teatro, seguendo con grande entusiasmo ogni genere di manifestazione, dalla prosa ai concerti, dall’opera al balletto; approfittando di una zia, sfrutta ogni vacanza scolastica per recarsi a Londra e seguire la vita teatrale della capitale. Ottenuta una borsa di studio, H. accede all’università di Cambridge, dove consolida le sue aspirazioni artistiche cimentandosi da attore in alcuni ruoli (testi di Marlowe, Shakespeare e Shaw) e provandosi nella regia di La versione Browning di Rattigan, insieme al regista e attore John Barton. Nel 1953, terminata l’università, forma insieme al regista Peter Wood la Elizabethan Theatre Company, con cui porta in tournée testi shakespeariani curando in particolare la pronuncia elisabettiana. È dello stesso anno il suo primo incarico professionale, per la messa in scena di La lettera di W.S. Maugham al Theatre Royal di Windsor. Per tutto il 1954 è impegnato a dirigere l’Arts Theatre Club di Londra, subentrando a Alec Clunes; segue inoltre produzioni a Windsor, Worthing e all’Oxford Playhouse. Sono di questi anni, fra il 1954 e il ’55, le regie di alcuni storici debutti londinesi, tra cui la prima mondiale in lingua inglese di Aspettando Godot di Beckett, La lezione di Ionesco, Nozze di sangue di García Lorca e Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill.

Sull’onda di tali precoci successi, nel 1956 viene invitato a Stratford-upon-Avon da Anthony Quayle e Glen Byam Shaw per curare la regia di parte delle produzioni stagionali al Shakespeare Memorial Theatre. Affermatosi con le messe in scena di Pene d’amor perdute (1956) e Cimbelino (1957), nel 1960 ottiene il posto di direttore artistico del teatro, che trasformerà in breve nella sede della prestigiosa Royal Shakespeare Company (Rsc). Delle sue produzioni per la Rsc vanno ricordate The Wars of the Roses (1963), trilogia realizzata in collaborazione con John Barton, tratta dalle tre parti dell’ Enrico VI e dal Riccardo III di Shakespeare; l’ Amleto con David Warner del 1965; le prime di alcuni lavori di Pinter ( La collezione , 1962; Ritorno a casa , 1965; Paesaggio e Silenzio , 1969). Nel 1968 lascia il suo posto alla Rsc, nelle mani di Trevor Nunn e si dedica alla libera professione, rivolgendo in particolare il suo interesse all’opera: già negli anni ’60 allestisce Mosè e Aronne di Schönberg (1965) e Il flauto magico di Mozart (1966) al Covent Garden, di cui nel 1970 diviene direttore artistico. Dal 1970 al ’73 si dedica quasi esclusivamente all’opera, lavorando anche al festival di Glyndebourne (di cui diverrà direttore artistico nel 1983, in concomitanza con il suo incarico al National Theatre), senza smettere tuttavia di collaborare con la Rsc per sporadiche messe in scena, tra cui Vecchi tempi di Pinter (1971) e Tutto finito di Albee (1972). Pur con qualche titubanza, nel 1973 affianca Laurence Olivier per succedergli, suo malgrado, alla direzione del National Theatre, incarico che gli darà l’opportunità di unire le due più importanti realtà teatrali nazionali (la Rsc e la compagnia del National) fino allora rivali, conducendole negli anni ’80 a un fecondo scambio di risorse tecniche e artistiche. Tra i suoi raggiungimenti al National, il difficile e molto atteso trasferimento nella sede a tre sale (Olivier, Lyttelton e Cottesloe) del South Bank; tra le produzioni si ricordano i successi ottenuti con Tamerlano il Grande di Marlowe (per l’inaugurazione dell’Olivier Theatre, 1976), Tradimenti di Pinter (1978), l’adattamento della Fattoria degli animali di Orwell (1984).

Peter Hall conclude il suo mandato al National nel 1988 – passando lo scettro a Richard Eyre – con un ciclo di tardi testi shakespeariani ( Il racconto d’inverno, Cimbelino e La tempesta), che porterà poi in tournée in Russia, Giappone e Grecia. Fonda quindi la Peter Hall Company, in associazione con Duncan Weldon; vi rimane fino al 1991, quando Jeffrey Archer gli offre il London Playhouse come sede stabile per la sua compagnia: occasione di breve durata, che lo vede peregrinare in seguito da un teatro all’altro, ritrovandosi nel 1997 all’Old Vic, prima sede del National Theatre negli anni ’70. Tra le produzioni della compagnia non si possono dimenticare l’allestimento inaugurale (1988) di Orpheus Descending di T. Williams con Vanessa Redgrave, Il mercante di Venezia con Dustin Hoffman (1989) e L’anitra selvatica di Ibsen (1990). Nel 1992 torna a lavorare alla Rsc mettendo in scena Tutto è bene quel che finisce bene allo Swan Theatre di Stratford (aperto nel 1986) e The Gift of the Gorgon di Peter Shaffer (Barbican Pit, 1993).

Bianco

Federico Bianco partecipa nel 1990 a festival quali la Zanzara d’oro e il premio Charlot. È stato inoltre leader del gruppo di rock demenziale Jimmy Joe and the Pepper Brothers. Esordisce nel 1991 con lo spettacolo Intimorite i moderati , seguito da L’arte di perseguitarsi (1992), Doppio da burla (1995) e Avrei bisogno di una controfigura (1996), monologhi che raccontano storie ordinarie di un ragazzo qualunque.

Anni

Anna Anni si forma all’Accademia di belle arti di Firenze, compagna di corso di D. Donati e P. Tosi con cui lavorerà anche nel cinema. Dal 1954 instaura una fertile collaborazione con il regista F. Zeffirelli; tra le numerose produzioni ricordiamo: La favola di Orfeo di Casella (Settimane musicali senesi 1959), Alcina di H&aulm;ndel (Venezia, La Fenice 1960), Cavalleria rusticana di Mascagni (Scala 1981) e Turandot di Puccini (Scala 1983), Maria Stuarda di Schiller (Firenze 1983), Carmen di Bizet (Arena di Verona 1995). Lavora con importanti registi come M. Bolognini e S. Sequi, per produzioni al Covent Garden di Londra, al Maggio musicale fiorentino, per la Fondazione Gulbenkian, a Lisbona. Particolarmente felice è la sua collaborazione per i costumi dei balletti allestiti dalla coppia Fracci-Menegatti, tra cui Le baiser de la fée di Stravinskij (Scala 1975), Don Chisciotte di Minkus (Firenze 1984). Abile disegnatrice, riflette nei suoi bozzetti di costume la sensibilità verso gli accostamenti cromatici. La conoscenza del taglio storico, abbinata a una minuziosa ricerca del particolare, rendono i suoi costumi emblemi di preziose evocazioni storiche.

Di Maio

Il suo lavoro d’esordio è Core ‘e zingara , risalente al 1947. Successivamente alternò alle sceneggiate e alle farse lavori più impegnati. Divenne celebre negli anni ’60 anche grazie alla televisione, dove alcuni famosi attori interpretarono le sue commedie. Per una ventina d’anni collaborò con la compagnia di L. Conte al Teatro Sannazzaro di Napoli. Tra le commedie di questo periodo vanno ricordate: La fortuna ha messo gli occhiali , Il morto sta bene in salute e l’adattamento in lingua partenopea di alcuni testi classici del teatro greco e latino.

Lerici

Roberto Lerici esordisce come autore negli anni ’60, all’interno della nuova avanguardia teatrale italiana, legandosi in particolare al nome di Carmelo Bene (La storia di Sawney Bean, 1964) e di Carlo Quartucci con Il lavoro teatrale (Venezia, Biennale 1969), Il gioco dei quattro cantoni (1966) e Majakovskij e compagni alla rivoluzione d’Ottobre (1967). Il decennio successivo è segnato dall’intenso lavoro con Antonio Salines e da opere come L’educazione parlamentare (1972) e Pranzo di famiglia (1973); mentre nel 1976 torna, con Romeo e Giulietta, alla collaborazione con Carmelo Bene. Quindi l’incontro con Aldo Trionfo, regista a lui congeniale per attitudini stilistiche e scelte culturali, che allestisce con la compagnia Teatro di Roma la sua commedia L’usuraio e la sposa bambina (1981). Negli anni Ottanta Lerici, che cura anche diversi adattamenti di opere di autori stranieri come Calderón, F. Wedekind, E. Labiche e N. Simon, approda al teatro brillante, realizzando un felice sodalizio artistico con l’attore G. Proietti, per il quale scrive A me gli occhi please, Come mi piace (1983) e Leggero leggero , pur non abbandonando, nel contempo, attraverso la rinnovata collaborazione con Quartucci, la via della ricerca: sono di questo periodo infatti i testi Didone (1982), Uscite (1982) e Funerale (Kassel 1982). L’ultimo anno, infine, è caratterizzato dal suo lavoro per Lucia Poli Vuoto di scena, da Cyrano de Bergerac per Salines, dall’adattamento di Appartamento al Plaza di N. Simon per G. Tedeschi e dalla stesura, a quattro mani con G. Nanni, di Alberto Moravia : a ulteriore conferma di una scrittura che, dallo sperimentalismo degli inizi al repertorio brillante e poi ancora alla ricerca, si qualifica a tutti gli effetti per la notevole versatilità.

Cirque d’Hiver

Costruito dall’architetto Charles Hittorf come Cirque Napoléon nel 1852, il Cirque d’Hiver è oggi monumento storico: l’unico circo stabile ancora in piedi a Parigi, a simboleggiare l’età imperiale del circo, quando, a cavallo tra i due secoli, la capitale francese vantava una decina di questi edifici. Capace di oltre duemila posti, di notevole valore architettonico e di moderna concezione (un palcoscenico accanto alla pista, che può trasformarsi in piscina) è inizialmente diretto da Dejan, che qui consacra negli anni ’20 i clown Fratellini. Nel 1934 l’edificio è acquistato dalla famiglia circense Bouglione, che ne rilancia i fasti negli anni ’50 e ’60. Oggi, sempre di proprietà Bouglione, ospita concerti o grandi eventi e, più raramente, spettacoli circensi.

Hansberry

Si rivelò con Un grappolo di sole (A Raisin in the Sun, 1959), prima commedia di un’autrice nera rappresentata con successo a Broadway con la regia di un nero. Vi si raccontava, in una struttura drammaturgica convenzionale, di una famiglia della piccola borghesia di colore che andava ad abitare in un quartiere bianco, e dei problemi personali e sociali che questa scelta comportava. Se ne apprezzò soprattutto la sincerità e l’impegno, qualità che si ritrovarono nel successivo L’insegna nella vetrina di Sidney Brustein (The Sign in Sidney Brustein’s Window, 1964), su un gruppo di intellettuali bianchi del Greenwich Village.

Barraca, La

Fu creato, con gli auspici del governo repubblicano, nel 1932 da Federico García Lorca e Eduardo Ugarte, con la collaborazione dei pittori Benjamín Palencia e José Caballero. Suo scopo era quello di portare spettacoli di teatro classico alle popolazioni che, vivendo lontano dai grossi centri, non avevano accesso ai teatri. La prima messa in scena, che comprendeva due farse di Cervantes, ebbe luogo nella stessa estate del 1932 a Burgo de Osuna. In generale le rappresentazioni avvenivano d’estate, durante le vacanze universitarie. L’attività del gruppo fu interrotta dallo scoppio della guerra civile nel 1936. Il repertorio comprendeva principalmente teatro classico spagnolo: egloghe di Juan de la Encina, farse di Lope de Rueda e Cervantes, La vita è sogno e Il gran teatro del mondo di Calderón, Fuentovejuna di Lope de Vega, L’ingannatore di Siviglia di Tirso de Molina; unica eccezione La storia di un soldato di Ramuz con musica di Stravinskij.

Kazan

Emigrato bambino negli Usa, Elia Kazan si formò come attore nel Group Theatre e firmò la sua prima regia nel 1938. Gli si dovettero, oltre a numerosi film di rilievo, alcune delle prime più importanti degli anni ’40 e ’50, dalla Famiglia Antropus – di Wilder a Tutti miei figli , Morte di un commesso viaggiatore e Dopo la caduta di Miller, a Un tram chiamato desiderio e La gatta sul tetto che scotta di Williams. Nel 1947 fu tra i fondatori dell’Actors Studio e dal 1962 al ’65 diresse a New York un teatro stabile, il Lincoln Center, dove affrontò per la prima volta un testo del passato (I lunatici di Middleton e Rowley), con esiti disastrosi. I suoi migliori spettacoli, spesso interpretati da attori da lui stesso formati e portati al successo, erano caratterizzati da una sorta di esasperato naturalismo, che si fondava sulla tensione emotiva e su un forte magnetismo sessuale. Si proponeva, come egli stesso ebbe a dichiarare, di tradurre le psicologie in comportamenti. Chiusa la carriera di regista scrisse, con alterna fortuna, alcuni romanzi e pubblicò nel 1988 un’interessante autobiografia.

Morra

Nella stagione 1981-82 Gigio Morra è con la compagnia Granteatro in L’uomo la bestia e la virtù di Pirandello con la regia di C. Cecchi. In seguito, comincia a collaborare con il regista e drammaturgo A. Savelli, recitando al Festival internazionale di teatro di Sitges (Spagna) nello spettacolo Il convitato di pietra, ovvero Don Giovanni e il suo servo Pulcinella , testo dello stesso Savelli. Sempre con Savelli: L’amore delle tre melarance di V. Cerami (1985), in cui interpreta il ruolo di Pasquariello; Lumie di Sicilia-Cecé due atti unici di Pirandello (1989), dove M. fornisce un’esemplare doppia interpretazione e Figaro, o le disavventure di un barbiere napoletano (1989), riscrittura `napoletana’ dell’opera di Beaumarchais. L’anno dopo recita in Anfitrione , insieme a M. Rigillo, P. Pitagora e con la regia di L. De Fusco. Più di recente, ha lavorato in Teatro Excelsior di V. Cerami (1993), con M. Ranieri e la regia di M. Scaparro. Al cinema ricordiamo la sua partecipazione in Sogni d’oro di Nanni Moretti (1981), in cui ricopriva il ruolo del becero regista rivale di Michele Apicella.

Degli Esposti

Interprete unica nel panorama teatrale italiano, definita da Eduardo De Filippo «questa è ‘o verbo nuovo» dopo che la vide recitare in Molly, cara (1979, l’ultimo monologo dell’ Ulisse di Joyce) diretta da I. Bassignano, che la consacrò al successo come la più particolare e significativa attrice nell’ambito dell’avanguardia. Con il suo viso scomposto e di una espressività singolare, quasi una maschera cubista, e un modo di stare in scena da duellante, è una figura di svolta nella classica galleria di interpreti della femminilità. Respinta all’Accademia, si afferma come prima attrice al Teatro stabile dell’Aquila ne La figlia di Iorio e in Antonio e Cleopatra ; ma i suoi esordi sono con Calenda, Proietti e Gazzolo al Teatro dei 101, dove tra l’altro interpreta un ruolo maschile in Dieci minuti a Buffalo di G. Grass. Con Molly, cara torna alle scene dopo due anni di pausa; seguono l’ Elettra di Hofmannsthal e Rosmersholm di Ibsen (1980, regia di M. Castri). Nello stesso anno esce anche il romanzo Storia di Piera di Dacia Maraini, che racconta la sua infanzia tragica. Lavora con E. Job, in Assolo di L. Codignola e La più forte di Strindberg. È con C. Bene nell’ Adelchi . In televisione appare con V. Cortese (nella parte della Duse) in Pas d’oubli pour mon coeur . E lavora anche con J. Beck del Living Theatre. Recita ne Lo zoo di vetro di Tennesse Williams. Uno spettacolo importante è Madre Coraggio con la regia di Calenda, con cui interpreta anche La musica dei ciechi e Prometeo (1994). In Stabat Mater di Antonio Tarantino, con la regia di Cherif, è una sorta di Madonna dei bassifondi (1995). Infine, nel 1996, è la travolgente interprete di Una indimenticabile serata di A. Campanile dove, diretta da Calenda, rivela la sua vis comica e surreale. Nel cinema ha lavorato con grandi registi: M. Ferreri in Storia di Piera , Il futuro è donna , G. Mees in La coda del diavolo , con cui vinse il Nastro d’argento, N. Moretti in Sogni d’oro , L. Wertmüller in Scherzo di luna e Metalmeccanico e parrucchiera… , i fratelli Taviani in Sotto il segno dello scorpione e Pasolini in Medea .

Tani

Come pubblicista Gino Tani ha collaborato con “Il Messaggero”, dove negli anni ’50 ha istituito la prima critica italiana di danza, e curato la sezione danza dell’ Enciclopedia dello Spettacolo . Decano della critica nazionale, si è dedicato anche alla saggistica, pubblicando numerosi testi di analisi critica e storica: Cinquant’anni di opera e balletto in Italia (1954), Il Balletto del Maggio Musicale Fiorentino e l’opera di Aurel Milloss (1977) e la completa e poderosa Storia della Danza dalle origini ai giorni nostri (1983). Postumo è uscito il suo Compendio storico estetico su la Danza e il Balletto (1995).

Sabbatini

Pronipote della Ristori e figlio di attori, Enrico S. ed Enrichetta Rissone. Debuttò nel 1899, affiancando E. Novelli. Nella sua carriera affrontò generi diversi, riscuotendo un particolare successo nel 1925 interpretando Gutibli di Forzano. Nello stesso anno, con la compagnia Pavlova, cominciò l’attività di direttore artistico, che svolse per quasi trent’anni. Al cinema debuttò nel 1914, partecipando al film Amore senza stima .

Hamlisch

Precocemente portato per la musica, Marvin Hamlisch impara bambino a suonare il pianoforte e a sette anni diventa il più giovane studente ammesso alla Juilliard School. Scrive in quegli anni una canzone (“Travelin’ Man”) poi incisa da Liza Minnelli – amica di gioventù – per il suo album Liza, Liza . H. prosegue gli studi al Queen’s College, mentre è pianista, accompagnatore e arrangiatore in concerti e tournée teatrali per la Minnelli, nonché per Ann-Margret, Joel Grey, Groucho Marx (col quale incide il disco An Evening with Groucho, registrato alla Carnegie Hall). Compone canzoni: nel 1965 “Sunshine, Lollipops and Rainbow”, eseguita da Lesley Gore, si piazza tra gli hit dell’anno; nel 1966 un altro suo motivo è incluso nel film Sky Party di Alan Rafkin. Nel 1968 comincia a comporre per il cinema – con Un uomo a nudo (The Swimmer) di Frank Perry – e da allora, influenzato dal jazz e ricorrendo per lo più a piccole formazioni, lavora sistematicamente per Hollywood, componendo canzoni e partiture per un gran numero di film. Tra i suoi esiti più notevoli quelli, spiritosi e `mimetici’, per due film di Woody Allen, Prendi i soldi e scappa (1969) e Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), e i suoi interventi per il genere commedia. H. punteggia le vicende con canzoni sofisticate e motivi arguti, ma anche con più pungenti definizioni per storie amare sotto l’aspetto leggero: è il caso di Salvate la tigre di John G. Avildsen (1973), di Come eravamo di Sydney Pollack (1973: Oscar per il miglior commento musicale e per la migliore canzone, “The Way We Were”), di Il prigioniero della Seconda Strada di Melvin Frank (1975).

Tipico della sua personalità l’ondeggiare fra queste due dimensioni: mentre decisamente brillanti sono i suoi arrangiamenti della musica di Scott Joplin per La stangata di George Roy Hill (1973), è capace di musica dolorosamente impegnata in film come La scelta di Sophie di Alan J. Pakula (1982) e Città amara – Fat City di John Huston (1972). Notevoli i suoi adattamenti di Pachelbel, compositore barocco tedesco, in Gente comune di Robert Redford (1980), i suoi richiami a Debussy in Paura d’amare di Garry Marshall (1991), il suo lavoro (in collaborazione con Billy May) per il musical `triste’ Pennies From Heaven di Herbert Ross (1981). Dal 1975, intanto, H. si dedica anche al teatro musicale; il suo debutto in questo campo è il musical A Chorus Line , scritto e diretto da Michael Bennett: racconta dall’interno i sacrifici, le gioie, i piccoli drammi di un gruppo di cantanti-ballerini selezionati per uno spettacolo di rivista. Rappresentato nel 1975 allo Schubert Theatre di New York con Kelly Bishop e Pamela Blair, raggiunge le 6.137 repliche; inoltre riceve il premio Pulitzer, il Tony Award e il Premio dei critici drammatici di New York. Il cd con la colonna sonora dello spettacolo vende una quantità enorme di copie. A Chorus Line è rappresentato con successo anche in Italia, e conosce la via dello schermo nel 1985 ad opera di Richard Attenborough.

Il secondo exploit di Broadway è They’re Playing Our Song (1979): libretto di Neil Simon, versi di Carole Bayer Sager, interpreti Robert Klein e Lucie Arnaz. Mille repliche a New York, più le recite londinesi; il musical, che racconta la burrascosa relazione fra due autori di canzoni, arriva anche in Italia col titolo Stanno suonando la nostra canzone . Del 1983 è Jean Seberg (versi di Christopher Adler), ispirato alla vita tormentata dell’attrice americana suicidatasi quattro anni prima, rappresentato solo a Londra; del 1987 è Smile (versi di Howard Ashman) che si risolve in un fiasco. Esito impari alle attese ha anche The Goodbye Girl (testo di Neil Simon), rappresentato a Broadway nel 1993, per il quale H. è affiancato da un altro compositore, David Zippel. H. si occupa anche di televisione e ha scritto un’autobiografia intitolata The Way I Were . La sua produzione è vulcanica e interessa tutti i generi musicali, compresa la composizione di brani da concerto (come The Anatomy of Peace , da lui stesso diretto in Europa a capo della London Symphony Orchestra). La sua vena è copiosa ed elegante, capace di melodie sentimentali e salottiere, ma anche di qualche zampata drammatica; in ogni caso, nel campo della musica teatrale non ha più saputo eguagliare lo straordinario successo del suo debutto.

Cenzato

Giovanni Cenzato fu direttore dell'”Arena” di Verona e, dal 1922, redattore al “Corriere della sera”. Cominciò a scrivere per il teatro nel 1910 e il suo repertorio comprende, oltre a lavori in italiano, molte commedie in dialetto veneto e milanese. Per la loro facilità di comprensione e per gli accenti sentimentali che le caratterizzavano, le sue opere ebbero notevole successo tra il grande pubblico. Fra i testi di Cenzato si ricordano Ho perduto mio marito (1934), Il ladro sono io! (1937), Il marito non è necessario (1947).

Tondelli

Oltre ad essere stato uno dei più interessanti e amati narratori degli anni Ottanta (Altri libertini, 1980; Rimini, 1985; Camere separate, 1989) Pier Vittorio Tondelli è stato un ottimo osservatore del nuovo teatro. Fu tra i primi ad occuparsi di gruppi come Raffaello Sanzio, Crypton, Magazzini, Falso Movimento e a capire il gioco di contaminazioni tra il teatro e la musica, il fumetto e il video e di come tutto questo movimento fosse rielaborato e restituito sulla scena, basta leggere la raccolta dei suoi articoli Un week-end postmoderno. Per il teatro ha scritto un solo testo, Dinner party, messo in scena da Piero Maccarinelli nel 1994.

Laing

Dopo gli studi con Margaret Craske e Marie Lambert a Londra e Olga Préobrajenska a Parigi, Hugh Laing ha fatto parte dal 1932 del Ballet Club londinese (poi diventato Ballet Rambert). Ha creato numerosi ruoli in balletti di Ashton, Howard e De Valois e soprattutto di Antony Tudor, fra i quali Jardin aux lilas (1936), Dark Elegies (1937) e, per il London Ballet (diretto dallo stesso Tudor), Judgment of Paris e Gala Performance (1938). Nel 1939 ha accompagnato Tudor negli Usa dove si è stabilito, entrando nel 1940 nel Ballet Theatre (oggi American Ballet Theatre). Lì ha danzato i balletti classici e di Fokine, Massine e De Mille, e ha creato nuovi ruoli per Tudor, fra i quali Romeo nel suo Romeo e Giulietta su musica di Delius (1943). Trasferitosi al New York City Ballet nel 1950, ha creato fra l’altro il ruolo centrale del Poeta in Illuminations di Ashton. In seguito si è dedicato alla fotografia.

Galdieri

Figlio del poeta Rocco, Michele Galdieri ne ereditò la delicata vena crepuscolare; i suoi copioni furono sempre abilmente intessuti di satira e sentimentalismo. Esordì con successo a Napoli nel 1925 (aveva appena 23 anni) con L’Italia senza sole . Due anni dopo, scrisse La rivista che non piacerà (titolo audace) esaltando la qualità dei fratelli Eduardo, Titina e Peppino De Filippo. A lui si sono affidati i più grandi interpreti: Totò e Anna Magnani, Odoardo Spadaro e Lucy D’Albert, Wanda Osiris e Carlo Dapporto, Renato Rascel e Nino Taranto, Aldo Fabrizi e Paola Borboni. Alcuni titoli: Strade (1932), E se ti dice va… tranquillo vai (1937); Mani in tasca, naso al vento (1940); L’Orlando curioso (1942); Volumineide (1943); Che ti se messo in testa? (1944); Imputati, alziamoci! (1945); Bada che ti mangio (1949); Chi è di scena (1954); La gioia (1963) segna il ritorno alla rivista `pura’, con Dapporto maliardo e gran raccontatore di barzellette in passerella nel sottofinale, che conta su Gianni Agus `spalla’ ideale e sulla soubrette Silvana Blasi reduce dalle Folies Bergère: nello spettacolo, a quadri staccati, (in controtendenza alle coeve commedie musicali ormai di gran successo, firmate Garinei & Giovannini), c’è `Agostino’ che rifà il Peppone di Guareschi, c’è Monsieur Verdoux, c’è l’anticlericale Gioachino Belli che scende dal piedistallo per dire bene, in versi, del Papa buono appena scomparso. La carriera di G. si conclude con I trionfi (1964-65), l’ultima grande rivista tradizionale, ancora con Dapporto insuperabile nel suo `Agostino’ (qui investigatore privato) e con Miranda Martino cantante-soubrette. Rivista curiosamente coetanea di un altro tentativo di restaurazione, Febbre azzurra 1965 di Amendola per Macario, con carico, `spalla’, soubrette e stuolo di girls e boys, quando su altre ribalte s’era già affermato il cabaret di Parenti-Fo-Durano o dei Gobbi, oppure commedie ormai poco musicali come Il giorno della tartaruga , di Magni-Franciosa-Garinei-Giovannini con Rascel e Delia Scala unici interpreti, tre ore di dispute coniugali con un impianto esplicitamente boulevardier.

Successo costante, dunque, quello di G., ma assai rilevante si considera l’apporto di Michele Galdieri alla storia della rivista del tempo di guerra. Gli si riconosce il ruolo di «vero creatore della grande tradizione della rivista italiana, a struttura totalmente `aperta’, a quadri staccati, quindi estranea all’influenza dell’operetta e del musical». Michele Galdieri seppe creare, come lo stesso Michele Galdieri ebbe a teorizzare, «con notevole estro e fantasia uno stile poi imitatissimo», che si reggeva su tre elementi costitutivi fondamentali: la coreografia, il sentimento, la satira. Dei tre elementi, quello della satira fu certamente predominante in tempi di censura assai attenta. «Cave canem Galdieri. Non grida, non si avventa. Ti accarezza, ti illude con parole di miele poi quando meno te lo saresti aspettato, ti ha morso con denti aguzzi. Ha spruzzato profumo e vi ha mescolato vetriolo…». Così scrisse Leopoldo Zurlo, il funzionario responsabile della censura teatrale dal 1931 al 1943. Onore al merito di un autore che seppe far ridere con allusioni satiriche sul regime fascista. In Disse una volta un biglietto da mille (1939-41), la formidabile accoppiata Totò-Anna Magnani (la struggente scenetta della “Fioraia del Pincio”) seppe argutamente sfottere il regime. “In pieno 1942 – come ricorda il figlio di Michele Galdieri, Eugenio – egli poté far risuonare in scena per centinaia di sere, a Roma, da un oscuro vestito da `pazzarello’, il grido: `Popolo, po’, è asciuto pazzo `o patrone!”‘. Altro aspetto importante della personalità artistica di Michele Galdieri, quello del talent-scout. Wanda Osiris ricordava: «Era un umorista finissimo, era regista, scriveva i testi, si occupava di tutto. Lavorare nella sua compagnia sarebbe stato un buon lancio per me. Mi misi subito a studiare come lui mi consigliava: impostai la voce con un maestro di canto, e andai a lezione di ballo da Gisa Geert». Nella rivista E se ti dice va, tanquillo vai (1937), la Osiris era la vedette, o come si diceva in gergo, `la primadonna di spolvero’, ossia non attrice né comica, ma personaggio che fa scena. E per l’occasione, la Osiris si dipinse tutta di marrone, in tempi in cui la tintarella integrale era desueta e i raggi Uva ignoti. Tra tutte le scene ideate, Michele Galdieri preferiva, a ragione, quella interpretata da Anna Magnani in “Chi è di scena?” (1954). Un’entrata a effetto: durante un quadro raffinato, tutto vezzi e moine da Commedia dell’Arte risciacquata nell’Arcadia, c’era l’ulro lancinante di una sirena e Nannarella che irrompeva di corsa scapigliata e urlante, una pirandelliana Figliastra dei Sei personaggi che «stanca dell’immobilità impostale dall’autore scese nella vita diventando donna da marciapiede». In 75 copioni, Galdieri seppe tracciare i lineamenti di un genere teatrale, la rivista, che ha divertito le platee più composite in quaranta stagioni irripetibili.

Piaf

Figlia di artisti (la madre è una canzonettista e il padre un acrobata), Édith Piaf è solo una ragazzina quando comincia a esibirsi con il padre per le strade di Parigi. Nel 1932, a quindici anni, è scoperta dall’impresario L. Leplée che rimane colpito dalla sua straordinaria potenza vocale e la scrittura per il suo cabaret Gerny’s. Qui la Piaf, presentata come môme (passerotto) in ragione della sua corporatura esile, si esibisce in qualità di cantante con crescente successo. In seguito cambia il suo nome d’arte con quello di Édith in memoria di Édith Cavell, uccisa dai tedeschi. Nel 1936 ottiene con la canzone “L’Étranger” scritta da M. Mannot il più importante ricoscimento discografico francese (Grand prix du disque). Morto Leplée, la Piaf crea insieme al musicista R. Asso alcuni dei suoi pezzi più celebri che costituiscono stabilmente il suo repertorio e la confermano fra le grandi del panorama musicale internazionale: “Le Grand Voyage du pauvre nègre”, “Elle frequentait la rue Pigalle” e “Mon Légionnaire”, fino alle leggendarie “La vie en rose”, “Milord”, “Je ne regrette rien”. Canta – come se «si strappasse l’anima dal petto»(Cocteau) – il mondo dei bistrot , degli artisti di piazza, gli amori appassionati, la solitudine, la poesia, la disperazione.

Artista eccessiva, carismatica, ribelle, intensa, dai mille amori e dalle altrettante leggende: la sua voce aspra e potente diventa la voix-boulevard , emblema di una Francia affascinante e sofferente. Grande scopritrice di talenti, Piaf contribuisce a lanciare, fra gli altri, Aznavour, Montand, Constantine. Il pubblico gremisce i teatri dove si esibisce la `nana nera’, stregato dal suo talento ineguagliabile e dalle sue strepitose canzoni-storie, e negli ultimi anni, quando la P. è ormai intossicata dai barbiturici e fisicamente malandata («se non canto muoio prima» rispondeva sempre a quanti la pregavano di risparmiarsi), quasi si aspetta di vederla crollare in scena e lì morire, come Molière. Da ricordare ancora le sue interpretazioni teatrali e cinematografiche. Nel 1940, Cocteau scrive per lei la pièce Le bel indifférent , e nel 1951 calca nuovamente le scene nella P’tite Lili di Achard. Al cinema, recita in La garçonne (1936), in Montmartre sur Seine (1941) e in altre pellicole dove canta e appare nella parte di se stessa. Nel 1958, P. pubblica le sue memorie dal titolo Au bal de la change . Permane il mistero sul luogo della sua morte. Pare sia avvenuta a Cannes il 10 ottobre del 1963, ma il suo decesso è registrato il giorno successivo nella capitale francese. La leggenda narra che l’ultimo marito di Edith, Théo Sarapo, abbia nottetempo trasportato illegalmente il cadavere perché soltanto lì poteva morire la voce di Parigi.

Lander

Formatosi alla scuola del balletto Reale Danese con Hans Beck, Christian Christiansen e Gustav Uhlendorff, nel 1923 Harald Lander è entrato nell’omonima compagnia come danzatore di carattere. Di quello stesso Corpo di Ballo è stato direttore dal 1930 al 1950, periodo durante il quale ha intrapreso il fondamentale recupero dell’opera e dello stile del coreografo ottocentesco August Bournonville. Contemporaneamente ha contribuito a rinsaldare il repertorio con sue creazioni, tra le quali si ricordano La sirenetta (1936), The Denmark Ballet (1939) e soprattutto il virtuosistico Etudes (1948), autentico pezzo di bravura per l’intero corpo di ballo, destinato in seguito a venir rappresentato da molte compagnie internazionali, tra le quali quella della Scala. Lasciata la Danimarca a causa di un disaccordo con la direzione del Balletto Reale Danese, ha assunto la direzione della scuola di Ballo dell’Opéra di Parigi nel 1956-57 e dal 1959 al 1963; negli stessi anni ha continuato il suo lavoro di riproduttore di balletti di Bournonville e di coreografo, collaborando con l’Opéra di Parigi ( Concerto aux étoiles , musica di Bartók, 1956) e il London Festival Ballet (Vita eterna , musica di Dvorák, 1958). Rientrato a Copenaghen, nel 1962, ha creato le coreografie di Les victoires de l’amour di Lully e ha continuato l’attività fino alla sua scomparsa. Personalità centrale nella storia del balletto danese del ‘900, ha contribuito in maniera determinante al rilancio internazionale della sua tradizione didattica e coreutica, anche grazie al festival del Balletto reale danese da lui fondato nel 1950.

Vilar

Jean Vilar nasce da una famiglia di commercianti. A ventun anni si iscrive all’Atelier di C. Dullin e successivamente, negli anni ’40, crea `La compagnie des sept’. Queste esperienze lo porteranno a fondare, nel 1947, il Festival di Avignone (che dirigerà fino alla morte) e a guidare, dal 1951 al 1963, il Teatro di Chaillot diventato Teatro Nazional Popolare (teatro che, sull’esempio del Piccolo, vuole essere considerato non uno svago, ma qualcosa di necessario «come il gas e la luce»). Queste due attività, accanto al suo lavoro di attore e di regista, cambieranno radicalmente la vita teatrale francese.

Democratico, popolare Vilar si adopera per strappare il teatro al suo ambito borghese cambiando orari, prezzi e trasformando sempre di più Chaillot da una sala a una casa abitata da artisti, aperta a una società che cambia. Di qui l’idea, che ritroviamo anche fra i punti cardine della fondazione del Piccolo, di un teatro d’arte accessibile a tutti e, dunque, attento a un pubblico popolare che è favorito dalla politica dei prezzi e degli abbonamenti. Del resto, la definizione `teatro popolare’ ritorna continuamente negli scritti di Vilar, ispirati a un’altissima moralità, come la sua vita.

Tutto questo si definisce nella scelta di un repertorio concentrato soprattutto sui grandi classici da Corneille (Cid, 1949 e 1951) a Molière (memorabili le sue interpretazioni dei personaggi di Don Giovanni e di Arpagone nell’ Avaro, 1952), da Shakespeare (Riccardo II, 1953; Macbeth, 1954) a, Kleist (Il principe di Homburg, 1951), fino a Hugo (Ruy Blas, 1954), avendo spesso come compagno d’avventura e come interprete ideale quel grandissimo attore che è G. Philipe. Soprattutto, rinnova l’approccio a un classico scomodo come Marivaux (esemplare in questo senso Il trionfo dell’amore , 1955), togliendolo per sempre alle sue finte levigatezze e recuperandolo nella sua chiave `nera’.

Ma Vilar non è stato solamente regista e interprete di classici. Ha infatti firmato e interpretato opere della drammaturgia moderna (Strindberg, ma anche Cechov e Pirandello) e contemporanea (Brecht, per esempio, di cui mette in scena Madre Coraggio , 1951 e La resistibile ascesa di Arturo Ui , 1960) nei quali lo spettatore potesse vedere rispecchiati i suoi problemi. Qualcuno ha definito questa esigenza, questa tensione che ha permeato tutta la sua vita di teatrante, un’illusione. Se così è stato si è però trattato di un’illusione che ha dato linfa al teatro. Eppure anche un artista di così alta moralità non passa immune attraverso l’uragano del maggio ’68 quando gli studenti contestano il Festival di Avignone, come del resto tutte le istituzioni, culturali e no, di Francia. Amareggiato e deluso, non rinuncia però a battersi, fino all’ultimo, per le sue idee.

Murgi

Rebecca Murgi studia presso la London Contemporary School e il College of Arts Arnhem, frequentando in seguito numerosi stage e workshop con alcuni dei maggiori esponenti della danza contemporanea come Merce Cunningam, Martha Graham, Steve Paxton, James Saunders, Lisa Kraus. Come danzatrice e coreografa collabora con diversi artisti europei, come il Teatro Valdoca, Adriana Borriello, Iztok Kovac. Tra le sue coreografie, di cui è anche interprete, Magnum Miraculum (1995), vincitore del Concorso Internazionale Teatri in Scatola nel 1997 e Focus on L (1997), uno studio sulla meccanica del corpo in movimento, che prende spunto dai disegni di anatomia di Leonardo da Vinci.

Comotti

Roberto Comotti si forma all’Accademia di belle arti di Brera, dove attualmente insegna scenografia. Giovanissimo entra a far parte del `Teatro per i ragazzi’ dell’Angelicum di Milano; sul finire degli anni ’60, nell’ambito del recupero delle tradizioni popolari, elabora alcuni allestimenti per il teatro dialettale milanese (La gesetta del Pasquiroeu di Severino Pagani, regia di P. Mazzarella; Milano, Teatro Odeon, 1970). L’incontro con Walter Chiari segna il suo debutto nel teatro `leggero’: dal 1972 a oggi una costante attività lo porta a firmare numerosi progetti scenici per commedie e musical, a partire da Io con te, tu con me con W. Chiari e O. Vanoni (regia di Don Lurio, 1972). Collabora con numerosi attori e registi, tra cui Silverio Blasi per G.B. Show Pig Malione , con R. Montagnani (1992), Filippo Crivelli per Gigi di Lerner e Lowe, con E. Calindri (1995). Nei suoi progetti mette sempre in evidenza una nitida concezione architettonica, con notazioni di realismo (mai di maniera) dello spazio scenico. Concepisce la scena come un contenitore di parole, gesti, azioni, un involucro che non deve prevaricare il gesto ma suggerire l’azione.

Proietti

Dotato di grande estro e versatilità, di rara comunicativa e accattivante simpatia, Luigi Proietti inizia la sua attività nello spettacolo con Giancarlo Cobelli, conosciuto negli anni dell’università. Dopo qualche attività di cabaret (Can can degli italiani, La casa delle fate) lavora con il Teatro dei Centouno di Antonio Calenda e esordisce, nel 1966, con Direzione Memorie, di C. Augias. Negli ultimi anni ’60 lavora allo Stabile dell’Aquila (Coriolano, di Shakespeare; Dio Kurt di Moravia; Operetta di Gombrowicz), e nel 1974 è nella Cena delle beffe di S. Benelli, diretto da Carmelo Bene e in Le tigri di Mompracem di Ugo Gregoretti. Dal 1974 al 1976 riscuote notevole successo con lo spettacolo A me gli occhi (successivamente ripreso), e nel 1980 con La commedia di Gaetanaccio, scritta per lui da L. Magni, cui fanno seguito lavori come Caro Petrolini, Cirano (1980, con gli allievi della sua scuola di recitazione), Per amore e per diletto , I sette re di Roma, Kean. Nel 1966 esordisce come attore televisivo in “I grandi camaleonti” diretto da F. Zardi: particolarmente amato dal grande pubblico, gli impegni televisivi nella fiction, nella prosa e nel varietà sono stati, infatti, innumerevoli ( Missione Wiesenthal , La presidentessa , Figaro , Fatti e fattacci , Fregoli , Io a modo mio , Villa arzilla , Un figlio a metà , Il maresciallo Rocca ). Nel cinema ha lavorato, tra gli altri, con Lumet, Damiani, Monicelli, Lattuada.

videoteatro

La disponibilità sul mercato di nuove telecamere e sistemi di edizione dotati di alta qualità e di prezzo contenuto permette al teatro di ricerca degli anni ’80 e ’90 di sperimentare le nuove tecniche audiovisive sulla scena teatrale. La cultura multimediale stimola i teatranti ad esplorare le zone di confine tra i diversi linguaggi (videoteatro) e ad utilizzare il video in tutte le sue forme: come schermo sul palcoscenico, come articolazione dell’azione, come estensione dell’attore dentro e fuori lo spazio scenico. I più importanti fenomeni teatrali del periodo sentono l’esigenza di superare i limiti dello spettacolo tradizionale operando sulle sue potenzialità comunicative, immettendolo nell’ambito dei media elettronici. Dall’America sono state esportate in tutto il mondo le pratiche degli happening e della performance art, le esperienze di Fluxus, W. Kirby e B. Wilson; si è realizzata per la prima volta una completa omogeneizzazione tra varie pratiche estetiche, per cui l’artista può passare continuamente e con naturalezza da un medium all’altro (R. Ruiz, R. W. Fassbinder, ancora B. Wilson).

Il videoteatro non è dunque semplicemente la riscrittura elettronica di un testo teatrale, ma una forma di spettacolo autonoma, che reinventa il linguaggio della messinscena teatrale utilizzando strumenti elettronici, rivolgendosi ad un pubblico che non è quello tradizionale del teatro, né quello della televisione. Si cercano nuovi canali di distribuzione per prodotti che non sono più televisione, ma appunto video nelle sue molteplici potenzialità metalinguistiche e plurilinguistiche. Anche in Italia la cultura audiovisiva e multimediale di questi ultimi anni ha condotto molti artisti del teatro di ricerca a sperimentare in vario modo l’interazione tra il mezzo elettronico ed il palcoscenico, inventando un nuovo modo di concepire e di praticare la messinscena, per cui il teleschermo e il luogo teatrale spesso si sovrappongono, pur mantenendo ognuno la propria identità, si materializzano e si smaterializzano a vicenda, giocano e lottano tra loro. Il video si è imposto come mezzo creativo di progettazione (il diario intimo della preparazione degli spettacoli), di interazione con la presenza dell’attore (per cui lo spazio scenico si modella come la superficie bidimensionale di una scena-schermo) e di dilatazione spazio-temporale della scena (l’uso scenografico o interattivo del video sul palcoscenico), di trascrizione e di trasfigurazione dell’opera teatrale in altri linguaggi e dimensioni, infine di sintesi e di promozione produttivo-distributiva.

L’avanguardia di M. Martone, G. Barberio Corsetti, Magazzini Criminali, Studio Azzurro e altri, utilizza codici linguistici presi a prestito dai più vari linguaggi espressivi (non solo da quelli figurativi, gestuali, vocali, ma anche da quelli della pubblicità, del fumetto, del computer, del video appunto). Il mezzo elettronico è considerato un `luogo privilegiato’ perché permette di trasfigurare l’evento teatrale multimediale in altre più complesse dimensioni per cui la `scatola teatrale’ si frantuma in una serie di frames che si pongono l’uno dietro l’altro secondo una successione ritmica che ci offre la visione di un universo audiovisivo completamente immaginario, visionario, virtuale. L’uso del mezzo elettronico tiene conto del divenire tecnologico dell’arte ed in parte fa proprie le esperienze compiute nel campo della video-arte, per cui si fanno talvolta labili le distinzioni di presunti generi quali il videoteatro, la videoperformance, la videoscena, la videoinstallazione: esperienze difficilmente distinguibili in questo territorio linguistico di confine. Il videoteatrodunque non è un genere spettacolare, ma è integratore e assimilatore di vari modi e tecniche espressive, intermediario tra linguaggi scenici ed elettronica.

Noschese

Figlia d’arte del famoso imitatore Alighiero, Chiara Noschese frequenta il Laboratorio di esercitazioni sceniche di Gigi Proietti e già subito dopo il diploma compare in programmi televisivi come Ciao Week-end e Club 92 . Inizia nel frattempo una carriera cinematografica che la vede interprete di commedie come Condominio (1990), Le donne non vogliono più (1993), Io No Spik Inglish (1994) e Bruno aspetta in macchina (1996). In teatro incomincia a farsi notare in ruoli minori al fianco di Pino Micol, in Don Giovanni involontario di Vitaliano Brancati (1993), e Massimo De Francovich in Scuola romana di Enzo Siciliano (1994). Finalmente, nella commedia musicale Alleluja, brava gente di Garinei-Giovannini-Fiastri (1994), riesce a mettere in mostra appieno le sue capacità di esprimersi anche attraverso il canto, conquistando così il primo vero successo personale. Grazie a questo exploit ottiene il ruolo della protagonista in Il pianeta proibito – Shakespeare & rock’n roll (1995), versione italiana del musical inglese di Bob Carlton. Nel 1996 è Lina Lamont, l’egocentrica primattrice dall’insopportabile voce chioccia nel musical Cantando sotto la pioggia della Compagnia della Rancia, personaggio che le regala una vasta popolarità. Sullo schermo televisivo torna nelle fiction a episodi “Dio vede e provvede” di Enrico Oldoini (1996) e Linda e il brigadiere di Luca Manfredi (1997).

Fierro

Ha lavorato sia nel cinema che nel teatro, distinguendosi per le sue interpretazioni comiche con la compagnia di Nino Taranto, specie nelle commedie di Raffaele Viviani e di Giuseppe Marotta. Negli ultimi anni ha recitato con la compagnia di Paola Gassman e Ugo Pagliai. Altre interpretazioni in Delitto al vicariato (1980) di Agatha Christie con la Compagnia Teatrale Italiana, Le formicole rosse (1981) di Domenico Rea, Liolà (1983) di Luigi Pirandello con la regia di Nino Mangano.

Popov

Oleg Popov fu probabilmente l’artista russo che ha avuto maggior fortuna all’estero, dove la critica lo ha considerato a lungo il migliore clown del dopo guerra. Fra i pochi ad avere avuto nell’ex Unione Sovietica una carriera fulminea: nel 1950, lo stesso anno in cui si diploma alla Scuola del Circo di Mosca, viene insignito dell’importante titolo di Artista del Popolo dell’URSS. Dapprincipio è allievo di Karandash (v.), poi si afferma come solista creando il personaggio di un ragazzo allegro, attento all’umorismo moderno ma con precisi riferimenti ai protagonisti delle favole popolari russe, come Ivan lo sciocco. Viene definito un clown `solare’. La sua maschera ha un trucco leggero e il classico naso rosso. Il costume, in contrasto con l’allegria che scaturisce dai suoi numeri, è basato su toni bicromatici: giacca nera di velluto, camicia bianca con un fiocco al posto della cravatta, berretto a quadretti bianchi e neri, pantaloni stretti a righe, scarpe a punta. Unica nota di colore vistoso sono i calzini. P. è in possesso di solide tecniche circensi di base, soprattutto di acrobatica, giocoleria e funambolismo, che introduce nei propri inediti numeri comici ai quali riesce a donare buona organicità, anche perché aiutato da veri e propri drammaturghi nella concezione delle nuove creazioni. Queste sono soprattutto veloci intermezzi da porre fra un numero e l’altro dello spettacolo, a volte a tema, al quale partecipa. In seguito diviene regista e allestisce in patria pantomime circensi, come La storia del Pope e del suo servitore Balda ispirata a una favola di Puškin. Numerosissime le tournée all’estero. Nel 1981 gli viene conferito il Clown d’Oro al Festival di Montecarlo. Agli inizi degli anni ’90 si trasferisce in Germania dove gestisce un proprio complesso itinerante ospitante per lo più suoi connazionali. Molte le opere di divulgazione scritte, fra le quali un’autobiografia.

Rigano

Compiuti gli studi alla Scuola di Ballo dell’Opera di Roma con Attilia Radice, nel 1967 entra nel Corpo di Ballo del Teatro e nel 1973 è nominato primo ballerino. Qui interpreta tutti i ruoli del repertorio classico ( Lo schiaccianoci, Don Chisciotte ) e neoclassico ( Apollo di George Balanchine), segnalandosi come uno dei ballerini italiani più valenti della sua generazione. Lasciata l’Opera, ha assunto la direzione delle compagnie del Teatro Regio di Torino e del Teatro Verdi di Trieste e si è dedicato all’insegnamento e alla coreografia.

Saccomandi

Laureatosi in discipline dello spettacolo (Dams) all’università di Bologna, Gigi Saccomandi inizia la sua attività nel 1980. Collabora con alcuni tra i maggiori registi teatrali italiani: M. Castri, N. Garella, C. Lievi, G. Marini, P. Pizzi, L. Ronconi, S. Sequi, nei più importanti teatri europei (La Scala di Milano e la Fenice di Venezia; la Schaubühne di Berlino; la Staatsoper e il Burghtheater di Vienna; i principali teatri di prosa e d’opera italiani e quelli di Zurigo, Montecarlo, Ginevra, Berlino, Basilea, Madrid, Varsavia) e al Metropolitan di New York. Con la sua attività è stato determinante nell’istituire in Italia la figura professionale del light designer, basata finalmente su una solida formazione culturale e su evidenti doti artistiche trascurate in passato. Caratteristica principale della sua poetica è l’abilità con cui riesce a `raccontare’ attraverso la luce e un gusto estetico di ispirazione pittorica. Insegnante, per diversi anni, di illuminotecnica presso la Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’, ha realizzato progetti di illuminazione anche per mostre, monumenti e palazzi.

Manzoni

Dopo essersi formato in danza jazz e moderna con Renato Greco, Patrick King, Bob Curtis, Ivan Manzoni si perfeziona con Matt Mattox, nella cui compagnia danza nel 1987-88. Contemporaneamente si dedica all’insegnamento e alla ricerca, investigando il rapporto tra la danza jazz e le arti visive in lavori come Où se trouve le Louvre? (1990), Quintolesto in tre (1992), L’esempio del blu (1995), Materiali resistenti (1996).

Bissel

Formato alla National Academy of Dance di Champaign, alla North Carolina School of the Arts e alla School of American Ballet, Patrick Bissel è entrato a far parte del Boston Ballet (1975) e dell’American Ballet Theatre (1977), dove è diventato solista (1978) e primo ballerino (1979). Protagonista di The Tiller in the Fields di Tudor, ha interpretato Bayadère, Carmen, Coppélia, Don Chisciotte, Giselle, Schiaccianoci, La bella addormentata . Danseur noble di spicco sulla scena americana, si è distinto come interprete del grande repertorio.

Tetley

Allievo di Tudor e Hanya Holm, Glen Tetley danza a Broadway, con John Butler e Martha Graham (1957-1959), all’American Ballet Theatre e al Joffrey Ballet. Passa al Nederlands Dans Theater (1962), di cui diventa poi direttore artistico. Collabora strettamente anche con il Ballet Rambert inglese, con il Balletto di Stoccarda e con il National Ballet of Canada, di cui diventa consulente (1987). Come coreografo, è il primo negli Usa a praticare la fusione tra classico e moderno, come è evidente fin dal riuscito Pierrot Lunaire (1962). I suoi balletti vengono interpretati perciò anche da ballerini di formazione accademica come Rudolf Nureyev (Field Figures ).

Crea, tra l’altro, Tristan su musica di Henze (Opéra di Parigi, 1974), Le sacre du printemps (Opera di Monaco, 1974), The Tempest a serata intera (Ballet Rambert, 1979), Firebird (Royal Danish Ballet, 1982), Alice (National Ballet of Canada, 1986). L’Aterballetto negli anni ’80 prende in repertorio i suoi Mytical Hunters (Batsheva Dance Company, 1965), Voluntaries (Balletto di Stoccarda, 1973) e Greening (Balletto di Stoccarda, 1975) e gli commissiona poi The Dream Walk of the Shaman (1984). Alla Scala vengono riallestiti nel 1995, su invito di Elisabetta Terabust, già guest star dell’Aterballetto, Ricercare, Circles, su musica di Berio, e Embrace the Tiger and Return to Mountain (Ballet Rambert, 1968). La sua danza si distingue per la particolare atmosfera rituale, talvolta arcana, che permea uno stile di movimento sensuale, fluido e formalmente rigoroso.

Paone

Remigio Paone è stato, soprattutto e innanzi tutto, un innamorato del teatro, teatro musicale, rivista, varietà, tournée di grandi figure straniere o di jazzisti, teatro di prosa, dal più rassicurante alle imprese più spericolate, gestore di teatri, e anche se non ha scoperto certe star nostrane le ha aiutate a formarsi e a qualificarsi. Esordisce come giornalista, cronista parlamentare de “Il Mondo”, ma la sua passione per il teatro lo spinge a far parte di un gruppo di giovani (Compagnia degli Sciacalli) decisa a combattere il vecchio teatro e a sostenere Pirandello e il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia. Nel 1929 Sem Benelli lo fa diventare socio e capocomico della Benelliana, e nel 1930 produce il suo primo spettacolo La veglia dei lestofanti che altro non è se non L’opera da tre soldi di Brecht. Continua a occuparsi della Benelliana nel 1931 e nel ’32 e poi, nel ’34 fonda l’UNAD (Unione Nazionale Arte Drammatica) che diventerà l’UNAT, (Unione Nazionale Arte Teatrale), di cui Paone è direttore.

Paone racconta di essere stato perseguitato dal fascismo che peraltro lo ha lasciato alla testa di una agenzia teatrale (l’UNAT) praticamente di stato, per parecchi anni. Nel 1938 però, Paone lascia l’UNAT e diventa esercente, in società con Angelo Rizzoli, del Teatro Nuovo a Milano: oltre al Nuovo ha gestito per dieci anni il Carignano di Torino e poi anche il Manzoni di Milano e il Quattro Fontane di Roma. La sua `ditta’, chiamata Errepì, produce sia riviste sia prosa: nel ’49 una compagnia Ruggeri-Gramatica, nel ’54 quella compagnia De Lullo-Falk-Buazzelli-Guarnieri che evolverà (con Romolo Valli al posto di Buazzelli) nella Compagnia dei Giovani. Paone organizza una memorabile tournée di Ruggeri a Londra nel ’53 e quella altrettanto memorabile di Gino Cervi a Parigi con il Cyrano de Bergerac ; nell’altro senso, fece venire in Italia l’Old Vic di Londra, e da Parigi la compagnia di Louis Jouvet, Edwige Feuillère, la Renaud-Barrault, il TNP di Jean Vilar e la Comédie-Française; e poi l’Opera di Pechino, Katherine Dunham, Joséphine Baker, Maurice Chevalier, Louis Armstrong e Duke Ellington; produsse nel 1950 Carosello Napoletano , per la regia di Ettore Giannini che fu un grande successo in Italia e all’estero.

Quanto alla rivista propriamente detta troviamo il nome di Paone produttore per infiniti spettacoli e numerose compagnie intitolate ai più grossi nomi del varietà: Totò, Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Renato Rascel, Nino Taranto, Billi e Riva ecc. Memorabile, nel 1945 quel Cantachiaro , con Anna Magnani che rivelò in un sol colpo gli autori Garinei e Giovannini e l’attrice Lea Padovani. Ma anche, nel 1949 una raffinata rivista di Biancoli, Falconi e Vergani, Quo vadis? interpretata da attori di prosa come Dina Galli e Enrico Viarisio che ripropose la grande Milly di ritorno dall’estero. Nel senso opposto, (lusso, fasto e Wanda Osiris), Festival del 1954, con Alberto Lionello, Nino Manfredi, Raffaele Pisu, Elio Pandolfi. Paone è presente nella creazione delle primissime commedie musicali italiane: Attanasio Cavallo vanesio (1952) e Alvaro piuttosto corsaro (1953) entrambe con Renato Rascel, entrambe di Garinei e Giovannini.

Babel’

Narratore tra i più stimolanti e innovatori del periodo postrivoluzionario, Isaak Emmanuilovic Babel’ diventa famoso con L’armata a cavallo, dove racconta in prima persona le esperienze della guerra civile. Al teatro arriva solo nel 1928 con Tramonto, che affonda le radici nel materiale autobiografico legato al mondo ebraico di Odessa, a cui sono dedicati i più complessi e suggestivi Racconti di Odessa. Seconda e ultima prova, il dramma Marija (1935), che si segnala per la colorita vivacità del linguaggio e l’asciutto disegno dei personaggi. Dopo l’arresto e la morte in un lager, per lungo tempo le sue opere sono state proibite in Unione Sovietica.

Donau Ballett

Fondata nel 1995 da Eva Shubert, la compagnia nasce con l’intento di “realizzare attraverso la danza uno scambio fra le culture del centro e dell’est Europa” ed è costituita di artisti (ballerini, coreografi e musicisti) provenienti da alcune istituzioni stabili dell’Europa centro-orientale: Balletto Nazionale della Croazia, Balletto Nazionale di Brno, Balletto di Bratislava, Opera di Stato Ungherese, Balletto di Györ, Opera Nazionale di Slovenia. La compagnia ha attualmente al suo attivo tre lavori originali: Dear Life (coreografia di Ted Brandsen su musiche di Lidia Zielinska), Venture unknown (coreografie di Krzyszof Pastor su musiche di István Márta) e Don’t look back (coreografie di Martino Müller), presentati in prima assoluta a Zagabria nel 1995 e portati in seguito in turnée in alcune città europee (in Italia il debutto è stato al festival “Bolzano Danza”, 1996).

Liska

Formatosi al conservatorio e scuola di Ballo del Teatro nazionale di Praga, Ivan Liska dopo un primo ingaggio nell’omonima compagnia, dal 1969 al 1974 fa parte del Balletto della Deutsche Oper am Rhein e dal 1974 al 1977 della Bayerische Staatsoper di Monaco, interpretandovi i maggiori ruoli del repertorio classico ( La bella addormentata ) e neoclassico ( Apollo ). Entrato nel 1977 nel Balletto di Amburgo come primo ballerino, ne diventa ben presto uno dei protagonisti di maggior spicco grazie alla virile bellezza, ma soprattutto per la magnetica personalità teatrale e l’interessante versatilità interpretativa, evidenziata da numerosi personaggi creati per lui da John Neumeier (Orlando in Mozart e Temi da `Come vi piace’ , 1985, Peer Gynt , 1989, Mozart in Fenster zu Mozart 1991, Odyssée 1995). Interprete di tutto il repertorio della compagnia anseatica, è noto al pubblico internazionale anche per la sua interpretazione del Triadische Ballet di Oskar Schlemmer coreografato da Gerhard Bohner; ha danzato inoltre come étoile ospite in Europa a fianco di Natalia Makarova. Lasciato il Balletto di Amburgo nel 1997, nel 1998 è stato nominato direttore della compagnia della Bayerische Staatsoper di Monaco.

Santospago

Studente di lettere, negli anni 1972-75 Stefano Santospago è uno dei soci fondatori (con Mario Prosperi, Giancarlo Sammartano, Amedeo Fago e altri) del primo Centro polivalente di Roma “Il Politecnico”, dove nella sezione teatrale ha le prime esperienze attoriali in spettacoli tratti da Beckett, Brecht, Ghelderode, Ginsberg. Debutta quindi allo Stabile di Genova diretto da A. Calenda in Lear di E. Bond e A piacer vostro di Shakespeare (1975-77); tra il 1977-78 è protagonista dello sceneggiato televisivo “Tre operai” diretto da F. Maselli, al quale ne seguono numerosi altri per le regie di Maiello, D’Anza, Missiroli, fino al recente giallo per la tv “Morte di una ragazza per bene”, con la regia di L. Perelli (1998).

Attore poliedrico, non riconducibile a un unico genere, ha dimostrato di essere in grado di passare con disinvoltura e padronanza dalla commedia musicale al testo classico. Da A piedi nudi nel parco di N. Simon (1982), A che servono gli uomini di Garinei e Giovannini (1987) a La locandiera di Goldoni, da Vinzenz di R. Musil, Herodias di R. Famigliari (Roma, Teatro del Vascello, regie di G. Nanni, 1989-90) a Shakespeare. È quindi Primo Ufficiale in Ulisse e la balena bianca di e con V. Gassman (1992) e, per le regie di M. Missiroli, Marcolfo in Nostra Dea di M. Bontempelli (1991), protagonista di La fastidiosa di F. Brusati (con A. Proclemer e G. Albertazzi, 1993) e Brocken Glass di A. Miller (con V. Moriconi e R. Herlitzka, 1994-95), di Nata ieri di G. Kanin, regia di G. Patroni Griffi (1997). Nel 1997-98, S. ha dato prova di grande maturità espressiva nell’articolata e applaudita interpretazione del protagonista maschile di Orgia di Pasolini, per la regia di M. Castri.

Guitry

Lucien Guitry esordisce molto giovane, sostenuto dal padre che affitta per lui una sala nel quartiere parigino di Saint-Denis. Entra a far parte della compagnia del Gymnase e quindi parte per una tournée con la Bernhardt in Inghilterra ( Ernani di Hugo e La signora dalle camelie di Dumas), poi passa al teatro Michajlovskij di San Pietroburgo. All’inizio del nuovo secolo la sua fama è all’apice: nel 1902 assume la direzione del teatro Renaissance di Parigi (ospita tra gli altri i lavori di Bernstein e Bataille), dove resta fino al 1910. Riprende allora le tournée internazionali (Sudamerica, Italia, Spagna). Dal 1919 inizia una proficua collaborazione col figlio Sacha che scrive appositamente per lui alcune pièce, per esaltarne le doti d’attore ( Pasteur ; Mon père avait raison ; Béranger ; Jacqueline ; Le lion et la poule ). Memorabili restano le sue interpretazioni di Molière: Tartufo (1923) e La scuola delle mogli (1924).

Hopkins

Anthony Philip Hopkins ha iniziato la sua carriera alla Royal Academy of Dramatic Art (Rada), passando successivamente al National Theatre sotto la direzione di L. Olivier. Attore di forte talento, spesso paragonato a R. Burton (pure del Galles), ha interpretato numerosissimi ruoli, da re Claudio nell’ Amleto (1969) a Andrej nelle Tre sorelle (1969), ad Astrov in uno Zio Vanja (1970) per la televisione, da Edmund Kean in una serie tv (1978) a Otello per la Bbc (1981). È stato premiato per la parte di B. Hauptmann in Il caso del rapimento Lindbergh (The Lindbergh Kidnapping Case, 1976) e di Hitler in Bunker (The Bunker, 1981), entrambi per la televisione, e ha ricevuto l’Oscar come miglior attore protagonista per Il silenzio degli innocenti 1991).

Piovani

Musicista poliedrico che, sperimentando nuove soluzioni musicali, si divide tra teatro, televisione e cinema. Dal 1979 al 1984 Nicola Piovani collabora con la compagnia Pupi e Fresedde per gli spettacoli (tutti per la regia di A. Savelli) Canto della terra sospesa da Ruzante (1979), Affabulazione di P. P. Pasolini (1980), Il convitato di pietra, ovvero Don Giovanni e il suo servo Pulcinella di A. Savelli (1981), Lo sconosciuto chiamato Isabella di M. Morante (1982), L’amore delle tre melarance di V. Cerami (1984). Ha scritto inoltre musiche di scena per Pinocchio di Carlo Collodi (adattamento di T. Conte, 1995), Le cantate del fiore e del buffo e Canti di scena di V. Cerami (1996), Uomo e galantuomo di E. De Filippo, regia di L. De Filippo (1996). È autore delle colonne sonore di moltissimi film di importanti registi, tra cui F. Fellini per Ginger e Fred (1986), L’intervista (1987), La voce della luna (1989), N. Moretti per La messa è finita (1985), Palombella rossa , (1989), Caro Diario (1994); inoltre P. ha musicato Fiorile , dei fratelli Taviani (1993), La teta y la luna , di J.J. Bigas Luna (1994), L’uomo d’acqua dolce , di A. Albanese (1996), La vita è bella di R. Benigni (1997). P. ha anche scritto alcune canzoni per F. De Andrè.

Whitelaw

Billie Whitelaw comincia la sua carriera, ancora bambina, lavorando per la radio: viene presto notata e scritturata dalla Bbc di Manchester per un lavoro semiprofessionale in “Children’s Hour”. Tra le sue esperienze precoci va ricordato il breve periodo passato presso la compagnia del Bradford Civic Playhouse di J.B. Priestley, dove viene seguita dalla talent scout Esmé Church e inserita in un gruppo di giovanissimi esordienti, tra cui il futuro regista William Gaskill. Debutta in senso proprio in teatro nel 1948 a Leeds, nella compagnia di Harry Hanson (Denaro facile). Nel 1954 è alla Oxford Playhouse, diretta da Peter Hall insieme a Michael Bates, Derek Francis e Tony Church. I primi anni ’60 la vedono nella compagnia di Olivier all’Old Vic (allora sede del National Theatre), accanto a Edith Evans, Joan Plowright, Michael Redgrave, Rosemary Harris.

Nel 1964, per la regia di George Devine e al cospetto della silenziosa presenza dell’autore, interpreta il suo primo personaggio beckettiano in Commedia (Play). Nonostante le numerose apparizioni al National Theatre e con la Royal Shakespeare Company, è soprattutto nota come eccezionale interprete dei testi di Samuel Beckett: nessuno riuscì come lei a intendere e dominare le speciali qualità del suo teatro. Dieci anni dopo la prima collaborazione, con alle spalle numerosi successi, Anthony Page – su indicazione di Beckett – le offre la parte di Bocca (Mouth) in Non io (Not I), dramma che l’autore aveva scritto pensando espressamente alla sua presenza vocale. In seguito darà corpo e voce ad altri personaggi beckettiani, recitando in Passi (Footfalls, 1976), Giorni felici (1979), Dondolo (Rockaby, 1982) e Abbastanza (Enough, 1982). Nel 1987 fa la sua ultima apparizione in teatro nelle vesti di Martha nel dramma di Albee Chi ha paura di Virginia Woolf?.

Horovitz

Dopo la laurea a Harvard Israel Arthur Horowitz si trasferisce in Gran Bretagna, dove studia alla Royal Academy of Dramatic Arts (1961-63) e collabora con la Royal Shakespeare Company (1965); tornato negli Usa, diviene presto un fecondo autore di copioni per i teatri di Off-Off Broadway (tra gli altri, The Line al Café La Mama, 1967). Si rivela nel 1968 con l’atto unico Gli indiani vogliono il Bronx (The Indian Wants the Bronx), un thriller psicologico nel quale due giovani teppisti torturano un adulto emigrato dall’India, interpretato al debutto newyorkese da Al Pacino. I temi della violenza urbana e di ciò che di torbido si nasconde sotto la rispettabilità della classe media informano anche le sue opere successive (fra le quali il ciclo delle Wakefield Plays, 1974-79), quasi sempre di carattere realistico, ma con occasionali puntate verso l’assurdo. La prolifica attività di drammaturgo continua per tutti gli anni ’80 con testi aggressivi e di grande impatto (The Good Parts, 1982; Firebird at Dogtown, 1987): emerge per forza espressiva The Widow’s Blind Date , in cui si compie la vendetta di una donna stuprata.

Paoluzi

Gianfranco Paoluzi studia il repertorio classico con Alexander Minz, Georgina Parkinson, Stanley Williams e debutta nei Balletti di Susanna Egri nel 1975. Danza poi con il Cullberg Ballet, il Balletto Nazionale Olandese e il Ballet Rambert, dove nel 1979 è Ariel in The Tempest di Glen Tetley e Arlecchino in Waining Moon di Christopher Bruce. Dal 1981 al 1987 danza a New York con l’Eliot Feld Ballet e la compagnia di Martha Clarke, con la quale collabora alla coreografia di Vienna: Lusthaus (1986). Nel 1987 crea per il Balletto di Toscana Elysios e Musica sull’Acqua, seguiti da La giara (Torino, Teatro Regio 1989), Sport (MaggioDanza 1990), Le Città Invisibili e Maximiliana (Introdans 1993), Das Marienleben (MaggioDanza 1994). Nel 1997 dirige il Ballet Ausburg per il quale ha creato Casanova: icosameron. Coreografo di stile neoclassico è autore di una danza di accurata eleganza formale, in cui il linguaggio della danse d’école è influenzato dalle innovazioni della modern dance e rivisitato con sottile ironia.

Girotti

Massimo Girotti intraprende la carriera di attore cinematografico nel 1939 con Dora Nelson di Soldati ma ottiene i primi importanti riconoscimenti con l’interpretazione di Gino in Ossessione di Visconti (1943) che lo consacrerà come uno dei volti più noti del neorealismo. Nel 1945 esordisce sul palcoscenico recitando per Blasetti in Il tempo e la famiglia Conway di J. B. Priestley e ne La foresta pietrificata di R. Sherwood (1946). Successivamente prende parte ad alcuni spettacoli diretti da Visconti: nel 1946 è Razumihin in Delitto e castigo di Baty da Dostoevskij accanto a Benassi, Stoppa, De Lullo e Zeffirelli e nel 1949 è Aiace in Troilo e Cressida nella celebre messinscena ai Giardini di Boboli. Pur continuando l’attività cinematografica, nel 1950 entra nella compagnia Nazionale diretta da Salvini con la quale recita negli Straccioni di A. Caro per la regia di Salvini, in Peer Gynt di Ibsen diretto da Gassman e, l’anno seguente, in Yo, el Rey di B. Cicognani ancora con la regia di Salvini e in Detective story di S. Kingsley allestito da Squarzina. Dopo aver interpretato Ippolito di Euripide a Siracusa per la regia di Costa, lavora ancora con Visconti in Contessina Giulia di Strindberg (1957), formando una compagnia con Brignone e Ninchi e ne Il giardino dei ciliegi di Cechov con la compagnia del Teatro stabile della città di Roma diretta da V. Pandolfi. Della sua carriera cinematografica sono da ricordare Cronaca di un amore di Antonioni (1950), Senso di Visconti (1954), Teorema di Pasolini (1968) e Passione d’amore di Scola (1981).