assurdo, teatro dell’

Trasformata in un’etichetta, la definizione ebbe successo soprattutto per il suo carattere ambiguo, che serviva a dar nome a una sensibilità comune, nel corso degli anni ’50, a un crescente numero di drammaturghi. Nessuno degli autori in questione accettò mai di rientrare nell’ambito di un gruppo o di una scuola, ma l’etichetta venne ugualmente applicata nel campo della critica e del giornalismo teatrale, fino a diventare una categoria interpretativa. A teatro si può parlare di `assurdo’ riferendosi al valore linguistico più corrente del termine: qualcosa che è contrario alla razionalità, al senso comune e all’evidenza. Di questo `assurdo’ la storia dello spettacolo offre costanti esempi, poiché si tratta di uno dei principali meccanismi dell’effetto comico. Lo si trova nella commedia plautina, nelle situazioni della Commedia dell’Arte, nelle serate del circo ottocentesco, ed è sommamente `assurda’ la patafisica di Alfred Jarry, nonché l’antipsicologia del suo Padre Ubu. Si parla invece di `assurdo’ in un senso più specifico riferendosi all’elaborazione che ne dà la filosofia esistenzialista (si vedano le considerazioni di Jean-Paul Sartre negli anni ’30 e il riflesso che più tardi ne offre Albert Camus nei romanzi, nel teatro e nella saggistica). Questo orizzonte di pensiero influenza la crescita di un gruppo di drammaturghi di prevalente lingua francese, che potrebbe coinvolgere anche Tardieu, Vian e, più tardi, Arrabal o Pinget. Quando, all’inizio degli anni ’50, si esaurisce la spinta politica dell’immediato dopoguerra, e le trasformazioni delle classi sociali e il processo di decolonizzazione alterano il quadro dei valori costituiti, nei drammaturghi più sensibili le formule della mimesi realistica perdono rapidamente significato, e la realtà espressa nei loro lavori diventa illeggibile secondo schemi tradizionali, e quindi `assurda’. È un percorso che si può immaginare rappresentato e delimitato da testi come La cantatrice calva di Ionesco (1950) e Aspettando Godot di Beckett (1953), fino a Terra di nessuno di Pinter (1975). Esistono tra i lavori di questi autori e di quelli a loro associati delle linee di convergenza: in primo luogo un uso apparentemente illogico e non comunicativo del linguaggio. I personaggi che lo adottano sembrano vivere in situazioni astoriche, sciolte da precisi riferimenti geografici e vincoli temporali. Essi non sanno esprimere una direzione di vita poiché sfugge loro il senso dell’esistenza, fatto che li pone in una situazione di immobilità. Il movimento drammatico, nei testi di cui sono protagonisti, non ha ragione d’essere. Ognuno degli autori citati utilizza tuttavia una diversa strategia dell’assurdo, da quella nichilista che azzera e deride i significati del testo (Ionesco) a quella strutturale, che esprime una disintegrazione delle relazioni interpersonali (Beckett), fino a quella verbale in cui il linguaggio e i suoi vuoti creano da soli effetti di incoerenza logica (Pinter). Il tempo ha fatto il proprio dovere, restituendo oggi singolarità a ciò che una certa prospettiva storica tendeva, negli anni ’60, a omologare. Così è stata ridimensionata la scrittura di Ionesco, restituito a un più congeniale ruolo di scandalista e parodista brillante, acuto rivelatore della fragilità del linguaggio umano. Beckett si è meritato invece il titolo di grande e ostinato cantore della tragicommedia dell’uomo del Novecento («niente è più buffo dell’infelicità» dice un personaggio di Finale di partita ) e della sua totale perdita della speranza. Dopo aver esercitato l’orecchio nel catturare l’aggressività della parola, Pinter ha smascherato il ruolo politico del linguaggio, appoggiandosi sempre più spesso a istanze civili. Genet – lo ha confessato candidamente lo stesso Esslin – è entrato nel gruppo degli autori dell’a. per ragioni strettamente editoriali: un autore allora così scandaloso avrebbe giovato alle vendite del volume. Accanto alle istanze politiche di matrice brechtiana, a quelle del realismo psicologico e dello sperimentalismo linguistico, le istanze del t. dell’a. hanno rappresentato per un quarto di secolo una delle grandi tentazioni del teatro del Novecento.