Tokyo Ballet

La compagnia Tokyo Ballet (già Cajkovskij Memorial Ballet) nasce dalla prima scuola di danza accademica, il Tokyo Ballet Gakko, fondata nel 1960 da Koichi Hayashi. Nel 1964 scuola e compagnia vengono riorganizzate da Tadatsugu Sasaki, che insiste su insegnanti e metodi didattici russi ma apre anche al contemporaneo, imprimendo alla formazione un taglio internazionale. All’inizio del nuovo corso troviamo ancora Il lago dei cigni e la Giselle allestita nel 1966 da Ol’ga Tarasova, del Bol’šoj di Mosca. Due anni più tardi Maja Plissetskaja e Nikolaj Fadeecev appaiono come guest , inaugurando la stagione, mai chiusa, dell’ospitalità ai grandi ballerini occidentali: da Natalia Bessmertnova a Michail Lavrovskij, e da Alicia Alonso a Margot Fonteyn a Ghislaine Thesmar. Lo scambio oriente-occidente favorisce la maturazione artistica della compagnia. Nel 1969 il coreografo Michel Descombey crea Mandala (musica di Toshiro Mayuzumi) e Saracenia (musica di Bartók).

Nel 1972 il cubano Alberto Alonso riprende la sua Carmen , che fa serata in abbinamento con Salomè di Béjart. Subito dopo a Tokyo e Osaka viene varato un Festival internazionale del balletto. E la preistoria diventa storia. Nel repertorio del Tokyo Ballet entrano creazioni di Attilio Labis, Harald Lander, Félix Blaska, George Balanchine. Nel 1978, anno del quindicesimo compleanno della compagnia, Aleksej Varlamov trasforma in balletto (Princess Kaguya) un’antica leggenda nipponica. Le celebrazioni del ventennale corteggiano Maurice Béjart, che rimane abbagliato e definisce ‘insuperabili’ i ragazzi di Sasaki: nascono The Kabuki (1986), Bugaku (1988), M-Mishima (1993), mentre John Neumeier dedica ai giapponesi Seven Haiku of the Moon , i `sette haiku della luna’ che esaltano l’aforisma poetico dell’haiku. Crollati molti miti e sbiadita la fama dei paludati complessi statunitensi, il Tokyo Ballet si propone oggi come una delle più stimolanti realtà del panorama coreutico mondiale. Imbattibili e infaticabili emulatori, i danzatori giapponesi sono riusciti ad appropriarsi di una tecnica che la cultura europea e segnatamente franco-italiana aveva codificato a proprio uso e consumo; cioè per altre gambe, altre braccia, altra capacità introspettiva. Sono riusciti a vincere ogni ostacolo, anche fisiologico, per farsi depositari di una perfetta `danse d’école’ declinata in senso virtuosistico. Il fatto ha meritato ai singoli premi e riconoscimenti ambiti, come il Prix de Lausanne.

Tuttavia, quando ci siamo trovati davanti a quei ballerini alle prese con tutù di mussola e coroncine fiorite ci siamo domandati perché. Perché essere costretti a nascondere lo splendore degli occhi a mandorla e l’impatto delle linee concentrate e aguzze. Se infatti quelli del Tokyo Ballet hanno saputo sfidare ogni logica per impadronirsi della tecnica accademica, essi non hanno potuto, e non potranno mai, coglierne anche la poetica che la motiva e l’estetica che la regge. Così, ancora una volta, c’è voluto Béjart. Che ha abbracciato Tokyo, il Tokyo, le fedi, le filosofie, le culture. Ha colto i dualismi che lacerano le coscienze: l’anima poetica e l’anima guerriera, l’anima nostalgica e quella americanizzata; il sogno e la ferocia, la spiritualità estatica e la fisicità dirompente. Ai nuovi compagni di viaggio Maurice ha consegnato la violenza della ‘Russia pagana’ del Sacre, le principesse di Kurosawa e le cortigiane di Utamaro. La riconosciuta connotazione lessicale del Tokyo Ballet è oggi il classico-moderno.