televisivo, teatro

Il teatro televisivo o teleteatro è il connubio tra due pratiche discorsive differenti: il teatro e la tv sono mezzi di comunicazione e di espressione profondamente diversi tra loro, sia a livello di linguaggio, sia a livello di strutture drammaturgiche. Questo connubio, peralto proprio perché costituito da elementi eterogenei, si dimostra spesso capace di offrire prodotti di considerevole valore espressivo. Una trasmissione televisiva non può riprodurre il ‘magico rapporto’ che esiste in teatro tra gli attori sul palcoscenico e gli spettatori davanti a loro, però è assai utile come `memoria elettronica’ in quanto documenta eventi spettacolari di per se stessi effimeri e irripetibili.

Inoltre la tv possiede potenzialità creative autonome, grazie alle quali il dato teatrale viene rielaborato, reinterpretato e messo in scena all’interno di un palinsesto e attraverso un dispositivo elettronico che condizionano la fruizione dello spettatore. D’altra parte il linguaggio della messinscena teatrale non viene necessariamente asservito al mezzo video, ma spesso finisce per condizionarlo, tanto da costituire addirittura la base espressiva di molti spettacoli televisivi, il punto di riferimento della strategia comunicativa dell’informazione e dell’intrattenimento. Soprattutto nei suoi primi anni di vita, la televisione è stata quasi una `figlia’ del teatro, perché lo ha assunto come suo modello linguistico, comunicativo e culturale. In Italia la prima serata di trasmissioni ufficiali della Rai (il 3 gennaio 1954) presentò in `prima serata’ una commedia di Goldoni, L’osteria della posta, diretta da Franco Enriquez; in seguito, per molto tempo il palinsesto dedicò agli spettacoli di prosa un rilievo particolare in ragione di una progettualità culturale, didattica e ricreativa.

La ‘maniera teatrale‘ si impose nei programmi televisivi degli anni ’50 e ’60 come strumento ideale attraverso il quale il pubblico veniva istruito, informato e divertito, secondo un preciso progetto di formazione culturale delle masse. Dello stesso progetto facevano parte anche i romanzi sceneggiati, i quali si fondavano su impianti scenografici, schemi recitativi e drammaturgici tipici della tradizione del palcoscenico. Negli Usa i network hanno prodotto, fin dai primi anni della loro attività, molti eccellenti teledrammi scritti appositamente per la tv, per lo più con ripresa in diretta da studio. Autori come Paddy Chayefsky hanno svolto un attento studio sul ruolo dei mezzi tecnici ed espressivi della tv al servizio dell’azione scenica. Anche in Gran Bretagna gli adattamenti di testi teatrali sono stati meno numerosi dei teledrammi, scritti spesso da grandi personalità come Osborne, Pinter, Owen, Arden. In Italia invece sono scarsi gli esempi memorabili di teledrammaturgia, proprio perché si è sempre preferito puntare su testi in qualche modo già accolti dalla cultura scolastica e popolare.

La storia del nostro teatro televisivo è dunque legata non al nome degli autori dei testi, ma soprattutto a quello dei registi che hanno elaborato un proprio modo originale di leggere e interpretare testi teatrali, romanzi e racconti: in più di quindici anni Anton Giulio Majano, Sandro Bolchi, Silverio Blasi, Daniele D’Anza, Vittorio Cottafavi, Guglielmo Morandi e altri hanno codificato il linguaggio del t.t. realizzando opere di pregio, ma riducendo talora l’immagine ad un ruolo di sudditanza rispetto alla parola. Per primi Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina e Ugo Gregoretti hanno intuito che la traduzione televisiva dell’evento teatrale deve tenere conto della specificità della tv in quanto mezzo stesso di `scrittura’ dello spettacolo.

La `svolta’ decisiva arriva negli anni ’70, quando i maggiori registi del teatro di ricerca dell’epoca (Luca Ronconi, Carmelo Bene, Carlo Quartucci) sperimentano un rapporto del tutto nuovo tra il loro lavoro scenico e la televisione. Essi inventano un modo originale di usare le inquadrature, i movimenti delle telecamere, gli effetti speciali elettronici, i microfoni e la presa diretta, realizzando spettacoli solo in funzione del mezzo elettronico e delle sue caratteristiche drammaturgiche. Contemporaneamente a queste notevoli sperimentazioni, le trasmissioni televisive di prosa diventano meno frequenti. Le ragioni del diminuito interesse della Rai per il teatro sono dovute soprattutto a motivazioni d’ordine economico: la concorrenza con le televisioni private porta a privilegiare gli schemi spettacolari del cinema e della pubblicità, più graditi dal grande pubblico.

In questi ultimi anni stiamo peraltro assistendo ad un nuovo interesse per il teatro televisivo in tutta Europa, come dimostrato dalle trasmissioni franco-tedesche di Arte; in Italia la Rai torna a dedicare spazio a questo tipo di spettacolo, alternando prodotti convenzionali ad altri in qualche modo innovativi e stimolanti. È discutibile il fatto che il t.t. sia un vero e proprio `genere’, in base ad una `griglia’ attiva sul piano dei contenuti e sulla struttura formale. Non pare possibile individuare tassonomie utili a `catalogare’ le varie opere teleteatrali in categorie definite secondo precisi principi semantici. Sono stati talora proposti criteri di classificazione in base al tipo di testo drammaturgico, al luogo ove vengono effettuate le riprese televisive, al livello di comunicazione e di fruizione in cui il prodotto video si inserisce. Sono state distinte le forme `pure’ di teleteatro (trasmissioni in diretta, adattamenti, traduzioni), quelle derivate (programmi di fiction, di informazione, di intrattenimento con modello teatrale), quelle miste (originali televisivi). È facile però dimostrare che in molti casi non è assolutamente possibile definire con univocità il materiale audiovisivo secondo i principi sopra accennati, perché numerose sono le contaminazioni e le interferenze tra un modello e l’altro.