sistema stanislavskiano

Il sistema stanislavskiano fu esposto dal regista Konstantin Stanislavskij in due saggi (Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio) e in molti appunti, note, articoli. Secondo Stanislavskij l’attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli, se sottomette alla volontà l’apparato fisico. Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il `se’, da cui parte tutto il processo creativo: il `se’ è la condizione fittizia in cui l’attore deve agire per rappresentare. La finzione, introiettata, provoca una reazione reale, che realizza lo scopo prefisso, contenuto nel `se’. Dunque il `se’ è un’ipotesi di lavoro su un avvenimento supposto: obbliga l’attore a reagire con un’azione reale a una circostanza immaginaria.

Altro concetto, le ‘circostanze date’: sono l’intreccio, i fatti, gli avvenimenti, l’epoca, il momento, il luogo dell’azione e quello che noi come interpreti aggiungiamo sia come interpretazione sia come allestimento (scenografie, luci, suoni, rumori). Il `se’ e le `circostanze date’ sono l’uno il complemento delle altre: il `se’ dà l’avvio all’azione, le `circostanze date’ la completano, la giustificano. L’immaginazione è in questo senso elemento fondamentale del mestiere dell’attore, perché l’autore raramente indica in modo completo le situazioni in cui vivono i suoi personaggi. Le didascalie e le indicazioni devono essere completate dall’attore, visualizzate con estrema precisione. L’insieme di queste visualizzazioni, che devono essere ininterrotte (una specie di film da proiettare continuamente sullo schemo interiore dell’attore), costituisce la `linea’ del personaggio. Altro elemento fondamentale, l’attenzione. Per evitare distrazioni l’attore deve esercitare l’attenzione, concentrandosi su singoli oggetti in scena (`oggetti-punto’), fino ai quattro `cerchi di attenzione’ (piccolo, medio, grande, massimo): partendo da una zona limitata (un tavolo con i suoi oggetti) l’attore deve arrivare a comprendere tutto lo spazio scenico, ma appena i contorni del cerchio si confondono bisogna immediatamente restringere il cerchio, limitandolo agli oggetti che sono a portata dell’attenzione visiva dell’attore.

La teoria dei `cerchi’ è connessa con quella della `solitudine in pubblico’: l’attore deve saper raggiungere, pur in presenza di centinaia di spettatori, un assoluto isolamento. Uno dei nemici più implacabili dell’attore nell’esercizio del suo mestiere è la tensione o contrazione muscolare, che può manifestarsi in un punto qualsiasi del corpo: corde vocali, con conseguente raucedine, abbassamento di voce, gambe, mani, soprattutto viso che si contorce in smorfie, gonfiori, tic ecc.; la lotta a questo difetto deve essere costante, non solo durante gli spettacoli ma anche fuori scena, nella vita normale. Un concetto fondamentale del s. è quello della `memoria’. Esiste una `memoria esteriore’, che permette all’attore di ripetere meccanicamente una scena ben riuscita, e una ben più importante `memoria emotiva’, che lo aiuta a portare in scena la propria riserva di emozioni; dunque quanto più la `memoria emotiva’ sarà ampia, forte, tanto più ricca e completa sarà la sua creazione. Perciò fondamentale per l’attore è creare delle `riserve’, ossia ampliare la sfera delle emozioni attraverso letture, ricordi, viaggi, visite a musei, e soprattutto con incessanti rapporti con i propri simili. Per arrivare al personaggio l’attore deve ottenere, come si è detto, una `linea ininterrotta’, lavorare con ricordi, situazioni immaginate, sogni, partendo dalla cosiddetta `toilette dell’anima’ (rilassamento muscolare, creazione di un piccolo cerchio di attenzione, ripasso dei `se’ e delle `circostanze date’, concentrazione sul tema principale).

Il tema principale deve essere presente per tutta la durata dello spettacolo a tutti gli interpreti, ognuno dei quali lo filtra attraverso il proprio io, lo assimila attraverso la propria sensibilità: i `se’ e le `circostanze date’ assumono un senso solo quando trovano la loro relazione con il tema principale. Uno dei punti nevralgici del sistema è il `tempo-ritmo’: ogni nostra azione, passione, sensazione, nella vita come sulla scena, è regolata da un tempo-ritmo, a cui di solito non prestiamo attenzione. L’attore invece deve sviluppare al massimo un metronomo interiore, che lo aiuta a sentire intuitivamente in modo esatto quello che dice e fa in scena. Molti testi teatrali hanno diversi tempi-ritmi combinati insieme (i personaggi cechoviani hanno spesso ritmi esteriori lentissimi e ritmi interiori agitatissimi). Due sono per Stanislavskij i grandi processi che sono alla base dell’interpretazione: quello di personificazione e quello di reviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare, per poi proseguire con lo sviluppo dell’espressività fisica (ginnastica, danza acrobatica, scherma, lotta, boxe), la plastica, l’impostazione della voce (respiro, canto), la dizione (studio della fonetica, dell’intonazione), logica e coerenza delle azioni fisiche, caratterizzazione esteriore. Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell’immaginazione (il `se’, le `circostanze date’) e prosegue con la divisione del testo in sezioni (all’interno delle quali vengono identificati i `compiti’ da eseguire), con lo sviluppo dell’attenzione, l’eliminazione dei cliché, l’identificazione del tempo-ritmo.

La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è rivissuto in modo autentico resta inerte, meccanico, inespressivo. Ma non basta che la reviviscenza sia autentica; deve essere in perfetta consonanza con la personificazione. Talora avviene infatti che l’attore abbia una reviviscenza profonda, ma la deformi con una personificazione grossolana, dovuta a un apparato fisico non allenato, incapace di trasmettere quello che l’attore sente. Non c’è attore che crei per ispirazione divina: più l’attore ha talento, più si preoccupa della tecnica soprattutto interiore. Il s. non è un metodo di recitazione, è un allenamento, attraverso cui si può raggiungere la creazione. Per quanto riguarda la seconda parte del s., la creazione del personaggio, Stanislavskij indica tre tappe: 1) la conoscenza (prima lettura, in cui l’attore deve lasciar affiorare immagini, ricordi, pensieri, associazioni; analisi in tre direzioni: approfondimento del testo, ricerca di suggerimenti non contenuti nel testo ma deducibili da accenni o da altri materiali, lavoro di `contatto’ tra mondo interiore dell’attore e del personaggio); 2) la reviviscenza, sollecitata dai compiti (sia meccanici sia razionali sia emozionali); 3) la personificazione.

Negli ultimi anni Stanislavskij rivoluziona questo schema tripartito per dare la precedenza, nella costruzione del personaggio, alle ‘azioni fisiche’: consiglia di riprodurre l’intreccio esteriore, episodio per episodio, con semplici azioni fisiche, evitando i compiti troppo difficili, ricercando la logica e la coerenza a partire dal gesto. Non più dunque una lettura approfondita del testo, ma una serie di gesti (relativi a una condizione data) che sollecitano la giusta reazione interiore: non è infatti possibile agire all’unisono col personaggio e sentire in dissonanza con esso. Solo quando si raggiunge la sensazione di `essere’ nel personaggio si può affrontare lo studio più dettagliato del testo. In conclusione si può affermare che l’importanza del s. sta soprattutto nel fatto che per la prima volta il processo creativo dell’attore viene sottoposto a un’analisi rigorosa da parte di un competente, attore lui stesso, capace di utilizzare nella sua analisi alcuni principi della moderna psicologia: ancor oggi in Europa e in America qualsiasi teoria del lavoro dell’attore fa riferimento ai lavori di Stanislavskij.

Strasberg

Dopo aver lavorato come aiuto regista per la Theatre Guild, Lee Israel Strasberg fu nel 1931 uno dei fondatori del Group Theatre, per il quale diresse fino al 1936 (quando dissensi personali e artistici ne determinarono l’allontanamento) quasi tutti gli spettacoli, ottenendo particolare successo con la messinscena di Uomini in bianco di S. Kingsley (1933) e del musical Johnny Johnson di K. Weill (1936). Ma la sua vera carriera iniziò nel 1951, con la nomina a direttore artistico dell’Actors Studio. Qui ebbe modo di mettere in pratica la sua personale versione del sistema di Stanislavskij, il cosiddetto ‘metodo‘ fondato più sul lavoro dell’attore su se stesso che sulla costruzione del personaggio, con esercizi che tendevano a mettere in risalto la verità delle emozioni a parziale scapito delle tecniche espressive. Produsse così interpreti a proprio agio in quei drammi (e soprattutto in quei film) che permettevano loro di lavorare sulle proprie nevrosi personali, come dimostrò nel 1963 il tentativo di costituire una compagnia permanente dell’Actors Studio, con molti dei suoi allievi più famosi; tentativo che si concluse nel giro di un anno, con una infelice ripresa delle Tre sorelle di Cechov che lo stesso Strasberg aveva diretto.

Bulgakov

Laureatosi in medicina a Kiev, Michail Afanas’evic Bulgakov inizia la sua attività letteraria negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre (a cui aderisce con molte perplessità) con articoli, feuilletton, brevi racconti satirici sulla nuova realtà ancora molto confusa. Trasferitosi a Mosca, abbandona la medicina per dedicarsi interamente alla letteratura: pur continuando l’attività pubblicistica, scrive il primo romanzo, La guardia bianca (1924), sul drammatico periodo che precede la presa di potere dei bolscevichi a Kiev nel 1918. Del romanzo, su richiesta di Stanislavskij, fa una riduzione teatrale, I giorni dei Turbin (1926), messa in scena al Teatro d’Arte tra molte difficoltà dovute a continui veti della censura, irritata dal tono troppo nostalgico dei protagonisti nei confronti del regime zarista.

L’enorme successo dello spettacolo spinge Bulgakov a continuare l’attività drammaturgica: del 1926 è la commedia L’appartamento di Zoja (Teatro Vachtangov), satira dei ‘nuovi ricchi’ del periodo della NEP (Nuova Politica Economica), del 1927 è La fuga, dramma sull’esodo dei controrivoluzionari verso Costantinopoli, del 1928 L’isola purpurea, contro lo strapotere dei censori teatrali. La reazione dei burocrati di partito è immediata, violenta: uno dopo l’altro i testi di Bulgakov vengono vietati e tolti dal repertorio dei teatri. Nel 1930 Bulgakov scrive una lettera direttamente a Stalin, dove fa presente la sua disperata situazione di ‘emigrato interno’, l’impossibilità di proseguire il suo lavoro di scrittore. Ottiene un posto di collaboratore al Teatro d’Arte, dove lavora dal 1930 fino alla morte come consulente letterario e aiuto regista. All’interno del Teatro d’Arte continua la sua attività di drammaturgo in due direzioni: da un lato riduzioni teatrali di opere letterarie (Anime morte di Gogol’, Don Chisciotte di Cervantes, Guerra e pace di Tolstoj), dall’altro opere originali la cui messa in scena tuttavia avviene molti anni dopo la morte dell’autore (La cabala dei bigotti, le cui prove durano per anni, finché lo spettacolo, mutilato, va in scena nel 1936 per poche repliche e viene subito vietato; Gli ultimi giorni, sulla morte di Puskin 1934-35; Ivan Vasil’evic 1935-36; Beatitudine 1934; Adamo ed Eva 1936).

regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

MCHAT

MCHAT (Moskovskij Chudozestvennyj Akademiceskij Teatr, Teatro Accademico d’Arte) è il teatro fondato a Mosca nel 1898 da Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko, tuttora esistente. Dopo uno storico incontro, avvenuto il 21 giugno 1897, il drammaturgo e pedagogo Vladimir Nemirovic-Dancenko e l’attore e regista Konstantin Stanislavskij decidono di fondare insieme un nuovo teatro su basi completamente diverse da quelle consolidate nei teatri del tempo: il Teatro d’Arte è uno dei primi tentativi di rinnovamento delle strutture in senso moderno nella storia del teatro europeo. Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko decidono di rivoluzionare non solo la routine della messinscena (introducono lunghi periodi di prove, scene e costumi appositamente preparati per ogni singolo spettacolo, collaborazione costante con scenografi, sarti, tecnici, trovarobe, con la ferma volontà di creare un collettivo affiatato e duraturo, aboliscono la distinzione tra attori di maggior o minor importanza, le serate d’onore, le musiche d’intrattenimento all’inizio e negli intervalli, i ringraziamenti ad ogni atto), ma di dare un ruolo determinante a due figure fino allora sottovalutate: il regista (che assume fin dall’inizio un peso determinante nella preparazione dello spettacolo, grazie anche alla decisione di Stanislavskij di preparare indicazioni di regia scritte per ogni battuta del testo, in modo da evitare ogni approssimazione) e il direttore del repertorio (Nemirovic-Dancenko, scrittore e amico di scrittori, imposta il repertorio su autori contemporanei di forte presa sul pubblico, come Cechov e Gor’kij). Vorrebbero anche fare un teatro `popolare’, ossia aprirlo a un pubblico il più ampio possibile ma questo viene loro vietato dalle autorità, che temono un indirizzo politico troppo liberale. La compagnia è composta da allievi della scuola teatrale dove insegna Nemirovic-Dancenko e da colleghi della compagnia in cui già lavora Stanislavskij; come sede viene scelto il vecchio edificio del teatro Ermitaz (solo nel 1902, con l’aiuto finanziario del mecenate Mamontov, verrà costruita dal famoso architetto Sechtel’ una nuova sede, dotata di attrezzature all’avanguardia per quei tempi e tuttora in funzione).

Lo spettacolo inaugurale è Lo zar Fedor Ioannovic di Tolstoj (14 ottobre 1898), che suscita grande interesse per la forza dell’interpretazione, la ricchezza di scene e costumi, la precisione naturalistica dell’insieme. Pochi mesi dopo la drammaturgia contemporanea trionfa con Il gabbiano di Cechov: il pubblico scopre un nuovo modo di recitare, interiore, intenso, che lo coinvolge e lo stimola. Fino al 1905 il Teatro d’Arte diventa un punto di ritrovo dell’intelligencija progressista, che si riconosce nelle scelte di repertorio e nell’impostazione degli spettacoli: diventano autentici eventi non solo i nuovi testi di Cechov (Zio Vanja , 1899; Tre sorelle , 1901; Il giardino dei ciliegi , 1904), ma gli aggressivi drammi del giovane Gor’kij, scoperto e incoraggiato da Nemirovic-Dancenko (Piccoli borghesi e Bassifondi , entrambi del 1902, I figli del sole 1905) e del vecchio ma ancora battagliero Tolstoj (La potenza delle tenebre 1902). Accanto ai compatrioti, due contemporanei ormai consacrati: Hauptmann (La campana sommersa , 1898; Il carrettiere Henschel e Anime solitarie , 1899; Michael Kramer 1901) e Ibsen (Hedda Gabler 1899, Quando noi morti ci destiamo e Un nemico del popolo , 1900; L’anitra selvatica , 1901; Le colonne della società , 1903; Spettri , 1905; Brand in occasione della morte dell’autore nel 1906). A partire dal 1905 Gor’kij si allontana per contrasti ideologici e il teatro si apre allo stile `convenzionale’ e alla drammaturgia simbolista (Maeterlinck con I ciechi , 1904, L’uccellino azzurro , 1908; Hamsun con Il dramma della vita , 1907; Andreev con La vita dell’uomo , 1907; Anatema , 1909; Ekaterina Ivanova , 1912; Il pensiero 1914) e a un regista lontano dalla tradizione realista come Gordon Craig (Amleto di Shakespeare nel 1910, regia in collaborazione con Stanislavskij). Ma ben presto i due direttori si rendono conto che la vera vocazione del teatro sta nella ricerca approfondita di un rigoroso realismo psicologico: lo conferma il ritorno ai classici, con alcuni spettacoli riuscitissimi (Boris Godunov di Puškin, 1907; Un mese in campagna , 1909, e Pane altrui , 1912, di Turgenev, I fratelli Karamazov , 1910; Nikolaj Stavrogin (I demoni) , 1913, e Il villaggio di Stepancikovo , 1917, da Dostoevskij, Anche il più saggio ci casca di Ostrovskij, 1910; Il malato immaginario di Molière, 1913; La locandiera di Goldoni, 1914).

Tuttavia Stanislavskij, sempre in cerca di verifiche e di nuove prospettive, apre nel 1912 il 1 Studio (a cui pochi anni dopo si aggiungeranno il 2 e il 3 ), dove con giovani collaboratori e attori, sperimenta tecniche registiche diverse da quelle ormai consolidate nel teatro. La rivoluzione d’Ottobre coglie di sorpresa il teatro, considerato sino al 1917 una tra le più riuscite istituzioni della borghesia progressista: Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko accettano il nuovo regime ma non riescono ad adattare alla nuova situazione politica e culturale il repertorio. Per alcuni anni il teatro attraversa un periodo di crisi: attaccato dalla critica militante, deriso dalle avanguardie, continua senza mutamenti con il suo tradizionale repertorio. Nel 1922-24, dopo due nuove regie di scarso successo (Caino di Byron, 1920 e Il revisore di Gogol’, 1921) Stanislavskij compie, con parte della compagnia, una trionfale tournée in Europa e America portando i maggiori successi prerivoluzionari ma aumentando il prestigio del teatro. Al ritorno, con cautela (non firma gli spettacoli, li fa dirigere da giovani registi con la sua supervisione), Stanislavskij si apre al repertorio sovietico con uno spettacolo che ottiene grande successo e viene definito « Il gabbiano della nuova era»: I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926). Seguono Il treno blindato 14-69 di Visnevskij (1927), I dissipatori e La quadratura del cerchio di Kataev (1928), Untilovsk di Leonov (1928), Il blocco di V. Ivanov (1929), La paura di Afinogenov (1931), Il pane di Kirson (1931), Ljubov’ Jarovaja di Trenev (1936), La terra di Virta (1937). Contemporaneamente continuano le messinscene di classici, certamente più riuscite rispetto a quelle degli autori sovietici: Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol (1932), che sono le due ultime grandi regie di Stanislavskij, L’uragano di Ostrovskij (1934), Tra la gente (1933), Egor Bulycov e altri (1934) e Nemici (1935) di Gor’kij, riavvicinatosi al teatro dopo molti anni grazie agli sforzi di Nemirovic-Dancenko, Resurrezione (1930) e Anna Karenina (1937) da Tolstoj, Che disgrazia l’ingegno di Griboedov (1938) e Tre sorelle di Cechov (1940), tutte regie esemplari di Nemirovic-Dancenko, che rimane, dopo la scomparsa di Stanislavskij nel 1938, a capo del teatro fino alla morte nel 1943.

Durante la guerra il teatro viene evacuato a Saratov, dove continua l’attività mettendo in scena opere di carattere propagandistico ( Il fronte di Kornejcuk, 1942; Gente russa di Simonov, 1943; Gli ufficiali della flotta di Kron, 1945). Nel dopoguerra il teatro attraversa un periodo di crisi dovuto alla scomparsa dei due direttori e alla difficoltà, nel periodo più duro della dittatura staliniana, di operare valide scelte di repertorio. Tra gli allievi di Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko, si distinguono I. Sudakov, N. Gorcakov, M. Kedrov, V. Stanicyn, B. Livanov, V. Bogomolov, che collaborano sia alle regie sia alla direzione artistica. Nei grigi anni ’50 continuano sia le messinscene di autori sovietici ( Giorni e notti di Simonov, 1947) sia le riprese di classici ( Zio Vanja di Cechov, 1947 e I frutti dell’istruzione di Tolstoj, 1951, due interessanti regie di Kedrov). Dopo la morte di Stalin, nel periodo del cosiddetto `disgelo’, c’è qualche segno di maggior coraggio nelle scelte di nuovi testi (La carrozza d’oro di Leonov, 1957; Fiori vivi di Pogodin, 1961; Gli amici e gli anni di Zorin, 1963). Si torna ai classici con entusiasmo (Maria Stuarda di Schiller, 1957; Racconto d’inverno di Shakespeare, 1958; I fratelli Karamazov , 1960). Nel 1970 diventa direttore del teatro Oleg Efremov, attore e regista, fondatore nel 1956 del Teatro Sovremennik, il più innovatore tra i teatri moscoviti poststaliniani. Negli anni ’70 e ’80 il repertorio del teatro si apre ad autori occidentali finora mai rappresentati in Urss (Shaw, Ionesco, Anouilh, Miller, Kilty) oltre a proseguire stimolanti riprese di classici (Cechov, Gor’kij, con qualche ricostruzione `storica’ di spettacoli dell’inizio secolo come L’uccellino azzurro di Maeterlinck) e interessanti proposte di autori russi delle ultime generazioni (A. Galin, L.S. Petruševskaja, M.M. Rošcin). A metà degli anni ’80 viene costruita una nuova grande sala dedicata a Gor’kij: così, a partire dal 1987, il teatro ha due sedi, quella storica dedicata a Cechov (di cui resta direttore Efremov) e la nuova (affidata all’attrice Tat’jana Doronina).

Vachtangov

Dopo aver frequentato la scuola teatrale di A. Adasev, dove insegna L. Sulerzickij, collaboratore di Stanislavskij, nel 1911 Evgenij Bogratjonovic Vachtangov viene assunto al Teatro d’Arte di Mosca e diventa uno dei più accesi sostenitori del `sistema’ di educazione dell’attore che Stanislavskij sta mettendo a punto. Nel 1912, per volere di Stanislavskij, viene fondato il Primo Studio, dove un gruppo di giovani, fra cui appunto Vachtangov, senza il peso di prove e spettacoli, può liberamente sperimentare i nuovi principi. Anima dello Studio è L. Sulerzickij, che impone agli allievi una ferrea disciplina e imposta il lavoro su basi rigidamente etiche: alla bravura antepone la correttezza e la generosità, alle doti artistiche quelle umane. Il lavoro si svolge in un’atmosfera severa e appassionata. In una stanza dell’appartamento in cui si svolgono le lezioni viene allestito un minuscolo palcoscenico, con il pubblico a pochi metri dagli attori.

I primi spettacoli (Il grillo nel focolare, tratto da un racconto di Dickens; Il diluvio di Berger; La dodicesima notte di Shakespeare) vedono Vachtangov impegnato più come attore che come regista e le sue interpretazoni si segnalano per intelligenza e originalità. A partire dal 1913 guida un gruppo di studenti che gli si rivolgono per consigli e per lezioni, spinti dalla comune passione per il teatro. Nonostante la diffidenza di Stanislavskij, sostenitore della professionalità e nemico di ogni dilettantismo, Vachtangov si lancia con entusiasmo nell’impresa, dimostrando una straordinaria vocazione pedagogica. I testi scelti per le prime esercitazioni, che diventano poi spettacoli, sono edificanti parabole come Il miracolo di sant’Antonio di Maeterlinck o raffinate ricerche sul ritmo e sul grottesco come Le nozze di Cechov.

Dopo la rivoluzione d’Ottobre aderisce con slancio al nuovo regime e aumenta fortemente la sua attività pedagogica, in vari gruppi studenteschi e operai. Contemporaneamente, continua brillantemente la sua collaborazione con il Primo Studio, dove firma la regia di alcuni tra i più riusciti spettacoli del gruppo come Hedda Gabler di Ibsen (1920), trionfo del `metodo’ psicologico stanislavskiano, con la partecipazione straordinaria nel ruolo della protagonista di Ol’ga Knipper-Cechova, e Erik XIV di Strindberg (1921), dove riesce a trasmettere tutta l’angosciosa insicurezza degli anni rivoluzionari, grazie anche all’interpretazione allucinata che del sovrano dà Michail Cechov, nipote del grande scrittore. Con il maturare della sua prassi registica, si allontana dalla stretta osservanza del `sistema’: ai rigidi dettami del metodo psicologico sostituisce una più libera ricerca di teatralità, una più espressiva indagine sulla gestualità.

Chiamato dallo Studio teatrale ebraico Habima, dirige nel 1921 Il Dibbuk di An-ski in cui decide di utilizzare il testo in lingua ebraica antica, del tutto incomprensibile alla maggioranza del pubblico. Sempre per questo lavoro adotta per gli attori trucchi violenti e ritmi gestuali talora lenti talora sfrenati per esprimere l’intensa drammaticità della vicenda, che alterna misticismo e violenta polemica sociale. In questo periodo elabora nel suo Studio una messinscena di Principessa Turandot di Gozzi. Anche in questo spettacolo la prima preoccupazione è la libertà creativa dell’intero gruppo. Le scene sono costruite con materiali di recupero, i costumi fatti di stracci e oggetti casuali, la recitazione basata sull’improvvisazione, sulla libera espressione dell’indole di ciascun attore. L’effetto è sconvolgente: Gozzi sembra un autore contemporaneo, tanta è la scioltezza con cui viene letta l’antica fiaba. Gli interpreti utilizzano la loro acerba tecnica per esaltare l’invenzione e la fantasia e gli scenografi e costumisti si allontanano da ogni canone costituito.

Lo stesso Stanislavskij, così lontano, nella sua impostazione, da quel tipo di lavoro, applaude e si dichiara entusiasta. Con Vachtangov nasce una nuova linea di ricerca, che ha le sue radici nel `sistema’ e tuttavia si nutre di antiche tradizioni come quelle della Commedia dell’Arte. Minato da un male incurabile, Vachtangov muore poche settimane dopo la trionfale prima rappresentazione della sua Turandot, che rimane il suo testamento teatrale e la più perfetta e libera realizzazione del suo lungo cammino di regista.

Nemirovic-Dancenko

Fondatore con Stanislavskij del Teatro d’Arte di Mosca, Vladimir Ivanovic Nemirovic-Dancenko inizia come brillante e acuto critico teatrale su quotidiani e riviste (“La sveglia”, “L’artista”, “Il corriere russo”, “Novità del giorno”) e come scrittore di romanzi, racconti e drammi ( L’ultima volontà , 1888; Un nuovo affare , 1890; L’oro , 1895; Il prezzo della vita , 1896; Sogni , 1901: tutti rappresentati con grande successo ai teatri Aleksandrinskij e Malyj, con i migliori attori del tempo). Nel 1896 rifiuta il premio Griboedov per Il prezzo della vita , ritenendo ingiustamente sottovalutato il coevo Il gabbiano di Cechov. Dal 1891 al 1901 insegna alla Scuola musicale-drammatica moscovita, formando una generazione di attori di grande futuro, che di lì a poco chiamerà a far parte del suo teatro. Nel 1898 incontra l’attore e regista Stanislavskij, di cinque anni più giovane di lui: insieme progettano un teatro davvero rivoluzionario, dove ogni routine, ogni convenzione viene rifiutata. Studio attento, rigoroso del testo, lunghi periodi di prove (mesi, rispetto ai pochi giorni delle normali compagnie), estrema, dettagliatissima cura nella preparazione ed esecuzione di scene, costumi, oggetti (rispetto all’uso di materiali già pronti e generici), collaborazione continua con scenografi, costumisti, sarti, trovarobe, per un risultato globale di armonia ed equilibrio del tutto nuovo nel teatro del tempo. Al termine di un lungo, `storico’ colloquio, Nemirovic-Dancenko e Stanislavskij decidono la fondazione del Teatro d’Arte. La compagnia è composta in parte dai colleghi della precedente compagnia di Stanislavskij, in parte dai migliori allievi di Nemirovic-Dancenko: O. Knipper, Vs. Mejerchol’d, I. Il’inskij.

Nonostante le prime regie vengano firmate insieme, la divisione dei ruoli è molto precisa: Nemirovic-Dancenko si assume l’onere delle scelte letterarie, Stanislavskij della preparazione artistica degli attori. Entrambi discutono l’impostazione del testo, lavorano all’approfondimento del discorso dell’autore. È Nemirovic-Dancenko comunque che decide quali autori inserire nel repertorio e che riavvicina Cechov al teatro, ottenendo da lui non solo l’autorizzazione a riprendere Il gabbiano dopo l’insuccesso di due anni prima, ma l’esclusiva di tutti i lavori successivi, da Zio Vanja (1899) al Giardino dei ciliegi (1904); è lui che convince Gor’kij a scrivere per il teatro, che porta al successo i suoi primi lavori ( Piccoli borghesi e Bassifondi , 1902) e mette in scena (sempre con Stanislavskij) I figli del sole (1906), in aperta polemica con il mondo borghese e l’ intelligencija , passivi, incerti, assenti negli anni `caldi’ seguiti alla rivoluzione del 1905. La sua attività di regista si rende lentamente autonoma da Stanislavskij, dimostrando solida maturità con spettacoli come Quando noi morti ci destiamo di Ibsen (1900), Giulio Cesare di Shakespeare (1903), Le colonne della società (1903) e Rosmersholm (1908) di Ibsen, I fratelli Karamazov da Dostoevskij (1910), Il cadavere vivente di Tolstoj (1911), Pane altrui di Turgenev (1912), Nikolaj Stavrogin da I demoni di Dostoevskij (1913), La morte di Pazuchin di Saltykov-Scedrin (1914), Il convitato di pietra di Puškin (1915). Dopo la Rivoluzione d’ottobre, mentre Stanislavskij compie tournée all’estero con grande successo, Nemirovic-Dancenko riorganizza il teatro, dimostrandosi disponibile alla nuova realtà sovietica. Sempre più indipendente da Stanislavskij, di cui non condivide l’esasperata lentezza che le ricerche del `sistema’ impongono alla preparazione degli spettacoli, introduce nel repertorio del teatro, fino allora dominato dai classici, interessanti testi sovietici, come Pugacëvscina di Trenëv (1925), Il blocco di Vs. Ivanov (1929), Ljubov’ Jarovaja di Trenëv (1936). Accanto alla scoperta di nuovi talenti, Nemirovic-Dancenko coltiva i classici che sono certamente più affini alla sua personalità e di cui coglie con sempre maggior ampiezza la complessità: oltre a Gor’kij, di cui mette in scena i più recenti lavori (Egor Bulycëv e altri , 1934; Nemici, 1935), e a Cechov, di cui riprende con grande sensibilità e intelligenza Tre sorelle (1940), si dedica a Tolstoj (riduzione di Resurrezione, 1930 e Anna Karenina, 1937), Ostrovskij (L’uragano, 1934), Griboedov (Che disgrazia l’ingegno!, 1938). Regista di solido impianto realistico, di ampia cultura e di grande professionalità, mantiene costantemente una posizione di autorevole prestigio, tenendosi lontano sia da facili sperimentalismi sia dal grigiore della politica culturale di partito. Ottiene notevole successo anche come regista d’opera.