sistema stanislavskiano

Il sistema stanislavskiano fu esposto dal regista Konstantin Stanislavskij in due saggi (Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio) e in molti appunti, note, articoli. Secondo Stanislavskij l’attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli, se sottomette alla volontà l’apparato fisico. Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il `se’, da cui parte tutto il processo creativo: il `se’ è la condizione fittizia in cui l’attore deve agire per rappresentare. La finzione, introiettata, provoca una reazione reale, che realizza lo scopo prefisso, contenuto nel `se’. Dunque il `se’ è un’ipotesi di lavoro su un avvenimento supposto: obbliga l’attore a reagire con un’azione reale a una circostanza immaginaria.

Altro concetto, le ‘circostanze date’: sono l’intreccio, i fatti, gli avvenimenti, l’epoca, il momento, il luogo dell’azione e quello che noi come interpreti aggiungiamo sia come interpretazione sia come allestimento (scenografie, luci, suoni, rumori). Il `se’ e le `circostanze date’ sono l’uno il complemento delle altre: il `se’ dà l’avvio all’azione, le `circostanze date’ la completano, la giustificano. L’immaginazione è in questo senso elemento fondamentale del mestiere dell’attore, perché l’autore raramente indica in modo completo le situazioni in cui vivono i suoi personaggi. Le didascalie e le indicazioni devono essere completate dall’attore, visualizzate con estrema precisione. L’insieme di queste visualizzazioni, che devono essere ininterrotte (una specie di film da proiettare continuamente sullo schemo interiore dell’attore), costituisce la `linea’ del personaggio. Altro elemento fondamentale, l’attenzione. Per evitare distrazioni l’attore deve esercitare l’attenzione, concentrandosi su singoli oggetti in scena (`oggetti-punto’), fino ai quattro `cerchi di attenzione’ (piccolo, medio, grande, massimo): partendo da una zona limitata (un tavolo con i suoi oggetti) l’attore deve arrivare a comprendere tutto lo spazio scenico, ma appena i contorni del cerchio si confondono bisogna immediatamente restringere il cerchio, limitandolo agli oggetti che sono a portata dell’attenzione visiva dell’attore.

La teoria dei `cerchi’ è connessa con quella della `solitudine in pubblico’: l’attore deve saper raggiungere, pur in presenza di centinaia di spettatori, un assoluto isolamento. Uno dei nemici più implacabili dell’attore nell’esercizio del suo mestiere è la tensione o contrazione muscolare, che può manifestarsi in un punto qualsiasi del corpo: corde vocali, con conseguente raucedine, abbassamento di voce, gambe, mani, soprattutto viso che si contorce in smorfie, gonfiori, tic ecc.; la lotta a questo difetto deve essere costante, non solo durante gli spettacoli ma anche fuori scena, nella vita normale. Un concetto fondamentale del s. è quello della `memoria’. Esiste una `memoria esteriore’, che permette all’attore di ripetere meccanicamente una scena ben riuscita, e una ben più importante `memoria emotiva’, che lo aiuta a portare in scena la propria riserva di emozioni; dunque quanto più la `memoria emotiva’ sarà ampia, forte, tanto più ricca e completa sarà la sua creazione. Perciò fondamentale per l’attore è creare delle `riserve’, ossia ampliare la sfera delle emozioni attraverso letture, ricordi, viaggi, visite a musei, e soprattutto con incessanti rapporti con i propri simili. Per arrivare al personaggio l’attore deve ottenere, come si è detto, una `linea ininterrotta’, lavorare con ricordi, situazioni immaginate, sogni, partendo dalla cosiddetta `toilette dell’anima’ (rilassamento muscolare, creazione di un piccolo cerchio di attenzione, ripasso dei `se’ e delle `circostanze date’, concentrazione sul tema principale).

Il tema principale deve essere presente per tutta la durata dello spettacolo a tutti gli interpreti, ognuno dei quali lo filtra attraverso il proprio io, lo assimila attraverso la propria sensibilità: i `se’ e le `circostanze date’ assumono un senso solo quando trovano la loro relazione con il tema principale. Uno dei punti nevralgici del sistema è il `tempo-ritmo’: ogni nostra azione, passione, sensazione, nella vita come sulla scena, è regolata da un tempo-ritmo, a cui di solito non prestiamo attenzione. L’attore invece deve sviluppare al massimo un metronomo interiore, che lo aiuta a sentire intuitivamente in modo esatto quello che dice e fa in scena. Molti testi teatrali hanno diversi tempi-ritmi combinati insieme (i personaggi cechoviani hanno spesso ritmi esteriori lentissimi e ritmi interiori agitatissimi). Due sono per Stanislavskij i grandi processi che sono alla base dell’interpretazione: quello di personificazione e quello di reviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare, per poi proseguire con lo sviluppo dell’espressività fisica (ginnastica, danza acrobatica, scherma, lotta, boxe), la plastica, l’impostazione della voce (respiro, canto), la dizione (studio della fonetica, dell’intonazione), logica e coerenza delle azioni fisiche, caratterizzazione esteriore. Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell’immaginazione (il `se’, le `circostanze date’) e prosegue con la divisione del testo in sezioni (all’interno delle quali vengono identificati i `compiti’ da eseguire), con lo sviluppo dell’attenzione, l’eliminazione dei cliché, l’identificazione del tempo-ritmo.

La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è rivissuto in modo autentico resta inerte, meccanico, inespressivo. Ma non basta che la reviviscenza sia autentica; deve essere in perfetta consonanza con la personificazione. Talora avviene infatti che l’attore abbia una reviviscenza profonda, ma la deformi con una personificazione grossolana, dovuta a un apparato fisico non allenato, incapace di trasmettere quello che l’attore sente. Non c’è attore che crei per ispirazione divina: più l’attore ha talento, più si preoccupa della tecnica soprattutto interiore. Il s. non è un metodo di recitazione, è un allenamento, attraverso cui si può raggiungere la creazione. Per quanto riguarda la seconda parte del s., la creazione del personaggio, Stanislavskij indica tre tappe: 1) la conoscenza (prima lettura, in cui l’attore deve lasciar affiorare immagini, ricordi, pensieri, associazioni; analisi in tre direzioni: approfondimento del testo, ricerca di suggerimenti non contenuti nel testo ma deducibili da accenni o da altri materiali, lavoro di `contatto’ tra mondo interiore dell’attore e del personaggio); 2) la reviviscenza, sollecitata dai compiti (sia meccanici sia razionali sia emozionali); 3) la personificazione.

Negli ultimi anni Stanislavskij rivoluziona questo schema tripartito per dare la precedenza, nella costruzione del personaggio, alle ‘azioni fisiche’: consiglia di riprodurre l’intreccio esteriore, episodio per episodio, con semplici azioni fisiche, evitando i compiti troppo difficili, ricercando la logica e la coerenza a partire dal gesto. Non più dunque una lettura approfondita del testo, ma una serie di gesti (relativi a una condizione data) che sollecitano la giusta reazione interiore: non è infatti possibile agire all’unisono col personaggio e sentire in dissonanza con esso. Solo quando si raggiunge la sensazione di `essere’ nel personaggio si può affrontare lo studio più dettagliato del testo. In conclusione si può affermare che l’importanza del s. sta soprattutto nel fatto che per la prima volta il processo creativo dell’attore viene sottoposto a un’analisi rigorosa da parte di un competente, attore lui stesso, capace di utilizzare nella sua analisi alcuni principi della moderna psicologia: ancor oggi in Europa e in America qualsiasi teoria del lavoro dell’attore fa riferimento ai lavori di Stanislavskij.

Stanislavskij

Figlio di un facoltoso industriale, Konstantin Sergeevic Stanislavskij frequenta fin dall’infanzia teatri e circhi moscoviti; inoltre sia nella tenuta di Ljubimovka, vicino a Mosca, sia nella casa di città, la famiglia possiede due teatrini privati dove Stanislavskij con i fratelli organizza spettacoli amatoriali, soprattutto operette e vaudeville. Nasce così il ‘circolo Alekseev’, molto apprezzato nella buona società moscovita, dove comincia la lunga carriera di Stanislavskij attore e regista dilettante: una carriera lunghissima, più che ventennale, che dura dal 1877 (inaugurazione del teatrino di Ljubimovka) fino al 1898 (apertura del Teatro d’Arte). Frequenta per breve tempo la scuola d’arte drammatica dei teatri imperiali, prende lezioni di canto da F. Komissarzevskij, ma capisce presto che la vera scuola sono le tavole del palcoscenico e partecipa perciò molto attivamente a spettacoli filodrammatici in circoli e associazioni diverse, scegliendosi lo pseudonimo di Stanislavskij.

Nel 1888 con il regista Fedorov, il cantante Komissarzevskij e il pittore F. Sollogub fonda la ‘Società d’arte e di letteratura’, che è insieme club di amatori delle arti, scuola e circolo filodrammatico: Stanislavskij interpreta alcuni ruoli molto importanti (il Barone ne Il cavaliere avaro di Puškin, Sotenville in Georges Dandin di Molière, Ananij Jakovlev in Amaro destino di Pisemskij, Ferdinando in Amore e raggiro di Schiller, Paratov in Senza dote di Ostrovskij e Otello). Fra le attrici scritturate c’è la giovane Lilina, che diventa sua moglie nel 1889 e gli rimarrà accanto tutta la vita, interpretando ruoli di primo piano in molti spettacoli da lui diretti. Oltre che interprete sempre più apprezzato da critica e pubblico, Stanislavskij è anche regista: grande interesse suscita I frutti dell’istruzione di L. Tolstoj (1891), dove viene approfondito con coraggio il tema sociale (ne scrive entusiasta un critico che di lì a poco si unirà a Stanislavskij nell’impresa del Teatro d’Arte, Vladimir Nemirovic-Dancenko), a cui seguono Uriel Acosta di Gutzkow (1895), Otello di Shakespeare (1896), Senza dote di Ostrovskij, L’ebreo polacco di Erckmann (1896), La campana sommersa di Hauptmann (1898).

Nel 1890 è in tournée a Mosca la compagnia tedesca del duca di Meiningen: Stanislavskij è colpito dalla ferrea disciplina ottenuta dal regista nel lavoro con gli attori, dalla perfezione delle scene di massa, dalla ricercatezza di ambienti e costumi, tutti elementi che Stanislavskij cerca di introdurre nel suo lavoro. Una svolta nella vita di Stanislavskij segna l’ormai leggendario incontro con il critico Nemirovic-Dancenko del 21 giugno 1897: in un colloquio durato quindici ore pongono le basi della futura collaborazione e tracciano le linee del loro programma. Viene decisa la fondazione del Teatro d’Arte, con una compagnia formata da elementi della Scuola dove insegna Nemirovic (I. Moskvin, O. Knipper, Vs. Mejerchol’d ecc.) e da attori della Società guidata da  (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem ecc.). Precise sono le competenze: Nemirovic, scrittore e amico di scrittori, si assume il compito di guidare il nuovo teatro nelle scelte di repertorio; Stanislavskij, più esperto in campo registico, ha la responsabilità del settore artistico.

Ogni consuetudine, in atto da decenni nei maggiori teatri russi, viene rivoluzionata: priorità della figura del regista nei confronti della compagnia; nessuna distinzione tra ruoli («Oggi Amleto, domani comparsa, ma sempre allo stesso livello artistico»); lunghi periodi di prove (invece delle quattro, cinque tradizionali), prima a tavolino poi in scena, con dettagliata disamina del testo, dell’ambiente culturale dell’autore, del periodo storico ecc.; accurata preparazione di scenografie e costumi studiati per ogni singolo spettacolo, al posto di inerti fondali e costumi di repertorio; abolizione della musica generica in apertura di spettacolo e negli intervalli; collaborazione stretta e continua tra tutti i collaboratori allo spettacolo («L’autore, l’attore, il pittore, il sarto, l’operaio devono servire all’unico fine posto dall’autore alla base della sua opera»). Stanislavskij, per facilitare e insieme rendere più rigoroso il lavoro degli attori, prepara per ogni spettacolo note precise a ogni singola battuta, con i movimenti di chi la pronuncia e di chi la ascolta, e indicazione di intonazione: i suoi copioni di regia, oggi in gran parte pubblicati, testimoniano la straordinaria cura e intelligenza del lavoro preparatorio per ogni spettacolo.

Il Teatro d’Arte si inaugura il 14 ottobre 1898 con Lo zar Fëdor Ioannovic di A. Tolstoj, che suscita meraviglia per la precisione naturalistica, la ricchezza di scene e costumi, l’intensità d’interpretazione dell’intera compagnia. Il primo testo di argomento contemporaneo (e anche il primo in cui Stanislavskij e Nemirovic collaborano alla regia) è Il gabbiano di Cechov: Nemirovic riesce a vincere le resistenze dell’autore (due anni prima era stata un fiasco al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo) e lo spettacolo nella nuova edizione ottiene un trionfo, diventa simbolo della rivoluzione operata dal Teatro d’Arte. Da allora tutti i nuovi lavori di Cechov vanno in scena al Teatro d’Arte con immutato successo: Zio Vanja (1899), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904). Nella sua autobiografia S. divide le regie dei primi anni in diverse linee: la linea storica (La morte di Ivan il Terribile di A. Tolstoj, 1899; lavori di Shakespeare, Hauptmann), la linea della fantasia (La fanciulla di neve di Ostrovskij, 1900; L’uccellino azzurro di Maeterlinck, 1908), la linea del simbolismo e dell’impressionismo ( L’anitra selvatica , 1901 e Spettri , 1905 di Ibsen; Il dramma della vita di Hamsun, 1907; La vita dell’uomo di Andreev, 1907), la linea dell’intuizione e del sentimento (oltre ai lavori di Cechov, Un mese in campagna , 1909 e i vaudeville, 1912, di Turgenev), la linea social-politica (soprattutto i lavori di Gor’kij: Piccoli borghesi e Bassifondi , 1902 e I figli del sole , 1905).

Nel 1905, insoddisfatto del sistema di lavoro fino allora attuato, pronto a tentare nuove vie ma convinto dell’impossibilità di sperimentarle in un teatro con spettacoli giornalieri, prove per tutto il giorno, bilancio rigidamente calcolato, fonda uno Studio (chiamato di via Povarskaja, dal nome della via dove ha sede) e chiama a dirigerlo un suo attore, divenuto regista lontano dal Teatro d’Arte, Vsevolod Mejerchol’d: con lui rivoluziona il sistema di prove, elimina la lettura a tavolino, va direttamente in scena e studia nuove soluzioni insieme agli attori, con improvvisazioni, ricerche sulla gestualità. La morte di Tintagiles di Maeterlinck, spettacolo che dovrebbe inaugurare lo Studio, non soddisfa Stanislavskij che decide di chiudere l’esperimento; ma la spinta verso un rinnovamento sia del metodo di lavoro sia del repertorio rimane.

Comincia in questi anni le prime ricerche sul `sistema’ (vedi sistema stanislavskiano): come far sì che la parte, ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori? Stanislavskij pone le basi di un nuovo lavoro dell’attore su se stesso e sulla parte; lavoro sia interiore, sulla psiche, sia esteriore, sulla gestualità. Intanto l’esperimento fallito dello Studio lascia tracce: Stanislavskij rivolge l’attenzione a un diverso tipo di testi, soprattutto simbolisti (Hamsun, Andreev), allontanandosi dall’eccessivo psicologismo e dal naturalismo delle messinscene cechoviane e gorkiane. Il tentativo di una maggiore `convenzionalità’ culmina nella messinscena dell’ Amleto, in collaborazione con il regista inglese Gordon Craig (1910): collaborazione difficile, perché all’astratta concezione di una scenografia geometrica (impostata su pannelli mobili) e di attori-marionette di Craig si contrappone l’idea stanislavskiana di una scena verosimile, abitata da attori in carne e ossa.

Nel 1912 riorganizza uno Studio (il Primo Studio del Teatro d’Arte) dove, con un gruppo di giovani attori e l’aiuto di un prezioso collaboratore, L. Sulerzickij, si mette a studiare il `sistema’, ad approfondire le ricerche su voce, movimento, rapporto tra testo e psiche dell’attore. La rivoluzione d’Ottobre cambia totalmente la situazione anzitutto economica di Stanislavskij: non è più il facoltoso figlio di un ricco industriale, deve guadagnarsi da vivere con il suo lavoro di attore e regista. Inoltre accettare la nuova situazione significa cambiare il repertorio, rinnovare gli autori, adeguarsi ai radicali mutamenti nel sistema di vita e di organizzazione del teatro. S. entra in crisi (e con lui il Teatro d’Arte): non riesce a uscire dal circolo chiuso dei classici; La dodicesima notte al Primo Studio (1917) ha successo ma non va certo nella direzione del rinnovamento che ci si aspetta, la messinscena di Caino di Byron (1920) è un mezzo fiasco, quella del Revisore di Gogol’ (1921) viene lodata soprattutto per l’interpretazione del protagonista Michail Cechov (nipote del drammaturgo). Gli organi di stampa dei bolscevichi attaccano il Teatro d’Arte, decrepito monumento del vecchio regime spazzato dalla rivoluzione.

Nel 1922-24 Stanislavskij con una parte della compagnia compie una trionfale tournée in Europa e in America, che riconferma anche in patria la credibilità del Teatro d’Arte; su richiesta di un editore americano scrive La mia vita nell’arte , ampia autobiografia dove parla già ampiamente del `sistema’. Al ritorno, dopo Cuore ardente di Ostrovskij (1926), S. si apre al repertorio sovietico, senza tuttavia esporsi in prima persona (fa firmare le regie a I. Sudakov); e ottiene due successi con I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926) e Il treno blindato 14-69 di Vs. Ivanov (1927), a cui seguono Untilovsk di Leonov (1928) e I dissipatori di Kataev (1928). Ma gli spettacoli che gli riescono meglio sono ancora i classici, Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol’, Attrici di talento e ammiratori di Ostrovskij (1933). Nel 1928, in seguito a un attacco cardiaco durante una replica di Tre sorelle , smette fino alla morte di recitare e si dedica completamente alle ricerche sul `sistema’ e a qualche regia ( Molière di Bulgakov, Tartufo di Molière), la cui lunghissima gestazione gli serve più per controllare gli esperimenti sull’attore che per approdare a un vero spettacolo. La dittatura staliniana lo trasforma in un rigido simbolo del realismo in teatro, forzatamente contrapponendolo a registi d’avanguardia come Mejerchol’d, accusati di formalismo, di deviazione dalle linee di partito. Nel 1937 conclude il primo volume del suo lavoro sull’attore, Il lavoro dell’attore su se stesso (che esce pochi mesi dopo la morte, alla fine del 1938), e ha pronta una gran quantità di materiali per il seguente, Il lavoro dell’attore sul personaggio .