Joppolo

Narratore, poeta, saggista, pittore, singolare figura di intellettuale antifascista, Beniamino Joppolo condannò gli atteggiamenti repressivi della società; collaborò alla rivista “Corrente” e partecipò intensamente alla vita culturale milanese degli anni ’40. I suoi toni, spesso diretti e violenti, lo avvicinano allo stile espressionista. Per il teatro scrisse: L’ultima stazione (1941), Domani parleremo di te (1943), La tazza di caffè (1960), Le acque (1963) e La tana (rappresentata postuma nel 1973). Da I soldati conquistatori (o I carabinieri , 1949) trasse spunto Godard per il film I carabinieri del 1963.

Bernanos

Intellettuale cattolico impegnato socialmente e politicamente, Georges Bernanos entra giovanissimo nel giornalismo – carriera che non abbandonerà mai definitivamente – e esordisce come romanziere, nel 1926 in modo clamoroso con Sotto il sole di Satana , cui fece seguire molti anni dopo una sorta di seguito, Nuova storia di Mouchette (1937). Ma il suo capolavoro rimane Diario di un curato di campagna (1935), che ha avuto, tra l’altro, due versioni cinematografiche (Bresson e Pialat). Per il teatro è autore di un solo testo ma di grande valore, Dialoghi delle Carmelitane (Dialogues des carmélites). Si trattava, in origine, di dialoghi per un film ideato da R.P. Brüchberger e P. Agostini sulla base di un racconto di Gertrud von Le Fort, L’ultima al patibolo (Die Letzte am Schafott). Completati nel 1948, i dialoghi saranno rifiutati dal cinema – almeno in un primo momento – ma pubblicati nel 1949 da Albert Béguin; otterranno un grande successo a teatro. Considerati da parte della critica il capolavoro di Georges Bernanos, i Dialoghi appaiono dominati dalla figura di suor Blanche de la Force. Essere fragile e di viva sensibilità, spinta da una temerarietà cieca cui si sovrappongono paure insane, suor Blanche costituisce forse il più alto esempio di analisi psicologica dell’opera di Georges Bernanos. Ma questo personaggio appare anche portatore di alcune istanze simboliche, vere e proprie ossessioni per l’autore, come l’affrontarsi di redenzione e caduta, di fede e dubbio, il trionfo della grazia sulla paura. Infine, l’esempio di Blanche rappresenta sul piano politico una certa visione della storia: il risveglio dell’onore di fronte agli abusi dei rivoluzionari. Emerge in questo luogo l’ideologia monarchica di B., la sua convinzione che elidere i privilegi di nascita implichi di rimando l’indebolirsi dei valori sociali e religiosi. I Dialoghi conobbero nel 1957 una versione musicale ad opera di F. Poulenc, e nel 1960 una cinematografica a cura di Brüchberger e Agostini, cui si deve il progetto originario: tuttavia, spogliato del suo significato spirituale per interessarsi essenzialmente agli aspetti storici, il testo di B. non sembra emergere pienamente da questo trattamento per il grande schermo. Tre sono state in Italia le realizzazioni teatrali: nel 1952 quella diretta da Orazio Costa, nel 1988 quella di Luca Ronconi e nel 1995 quella di Fabio Battistini.

Przybyszewski

Accanto a Wyspianski, Stanislaw Przybyszewski è una delle figure più importanti del Modernismo polacco (Mloda Polska). Effettua studi di architettura, medicina e biologia a Berlino, dove viene a contatto con l’opera di Nietzsche, sotto la cui influenza scrive Zur Psychologie des Individuums. Chopin und Nietzsche (1892). A Berlino conosce Ola Hansson, e Strindberg, che si riferirà a lui come a «quel geniale polacco», e il pittore norvegese Edward Munch, la cui più celebre opera gli ispirerà il romanzo Il grido (Krzyk, 1917). Nella scrittura teatrale Przybyszewski debutta nel 1897 col dramma Per fortuna (Das grosse Glück, versione polacca: Dla szczescia, 1898).

Nel 1898 si trasferisce a Cracovia e inizia a dirigere la rivista “Zycie”, dove pubblica – oltre ai propri drammi Il vello d’oro (Zlote runo) e Ospiti (Goscie, 1901) – anche due opere di Wyspianski, La Varsavienne e Anatema . La sua attività di drammaturgo prosegue con La madre (Matka) e Neve (Snieg, 1903), Fiaba eterna (Odwieczna basnia) e La promessa nuziale (Sluby, 1906), quella di teorico del teatro ha inizio nel 1905 con uno studio Sul dramma e la scena (O dramacie i scenie), vera poetica di un teatro che sia espressione e riproduzione immediata – priva di nessi logici – di sentimenti, sogni, visioni, impressioni, dove il dramma non sia altro che «una sorta di stenogramma che l’attore stesso, se è artista, deve decifrare e a misura della sua individualità riprodurre o ricreare».

Tra i drammi successivamente pubblicati e rappresentati, Il festino della vita (Gody zycia, 1909), L’abisso (Topiel, 1912), La città (Miasto, 1927), Il vendicatore (Msciciel, 1927). Al centro delle pièces di P. sono i tragici esiti del conflitto tra le pulsioni erotiche e le convenzioni morali: in Neve in una progressione maeterlinckiana la protagonista va incontro al suo destino, il suicidio causato dalla perdita dell’amore del marito, mentre gli Ospiti non sono altro che i rimorsi di coscienza. Se nella tragedia classica l’individuo era un giocattolo nelle mani degli dei, nel dramma moderno per Przybyszewski l’uomo è in balìa dei propri istinti. Le influenze di Maeterlinck, Ibsen e Strindberg permisero a Przybyszewski di introdurre nel dramma polacco importanti novità, quali la sostituzione dell’intreccio con l’analisi psicologica dei personaggi, il ricorso alla funzione drammaturgica del dialogo, l’impiego dell’esposizione strutturata degli antefatti al posto dell’azione.

Convinto assertore della poetica simbolica, Przybyszewski intese concretizzare le proiezioni di rimorsi, presentimenti, stati d’animo secondo un principio di verosimiglianza realistica, in persone autentiche: in Per fortuna Zdzarski rappresenta la coscienza. L’importanza di Przybyszewski è soprattutto legata all’impatto esercitato dalle sue idee e dalla sua concreta attività organizzativa culturale sulla società polacca dei primi del secolo: come drammaturgo ha goduto di un certo successo soprattutto in Russia, grazie alle inscenizzazioni e agli adattamenti cinematografici di Vs. Mejerchol’d, ma è stato ben presto dimenticato a favore di Wyspianski.

Gombrowicz

Witold Gombrowicz studia giurisprudenza all’università di Varsavia, in seguito filosofia ed economia a Parigi. Tornato a Varsavia, collabora a riviste letterarie come critico. Nel 1939 lo scoppio della guerra lo sorprende in Argentina, dove rimane fino al 1963, per risiedere in seguito a Berlino, Parigi e Vence. L’attività drammaturgica di Witold Gombrowicz è strettamente legata a quella di scrittore di romanzi come Ferdydurke (1937) e Bakakaj (1957), incentrati sul tema dello smascheramento dei modelli di comportamento sociale, o come Pornografia (1960), dove il protagonista-narratore si assume esplicitamente una funzione registica. Autore affascinato da ciò che accade tra gli uomini, dai problemi della forma e della immaturità, Witold Gombrowicz sembra essere stato naturalmente predestinato alla scrittura dialogica e teatrale: «tutta la mia opera artistica – è lui stesso a spiegarlo – tanto i romanzi quanto i racconti, è teatro. In ognuna delle mie opere è possibile trovare un regista che organizza l’azione, i miei personaggi indossano maschere, il mio modo grottesco di espressione assume una certa plasticità». D’altra parte, il carattere demistificatorio della sua Weltanschauung, l’attenzione maniacale per i cerimoniali e i rituali formalizzanti l’esistenza umana non potevano che spingerlo verso le forme teatrali più convenzionali: la farsa e l’operetta.

«Se ho voluto affrontare una forma così leggera è stato per controbilanciarla e perfezionarla con la serietà e il dolore», è la spiegazione dello stesso Witold Gombrowicz Ivona, principessa di Borgogna, pubblicata su “Skamander” nel 1938 e rappresentata nel 1958, è un’opera a tesi che sembra anticipare l’esistenzialismo sartriano. La comparsa di Ivona alla corte reale è un apologia sul «desiderio di uccidere il ridicolo che vive in noi» (J. Pomianowski). La pièce è strettamente legata ai postulati filosofici di Witold Gombrowicz, per il quale la vita fluisce tra gli estremi di una forma sclerotizzata e agonizzante da una parte e di un caos informe dall’altra, e dove l’unico fattore progressivo è l’immaturità, una `inferiorità’ carica di energia, qui rappresentata da Ivona, `elemento di contraddizione’ con la sua sgraziata goffaggine. Il matrimonio (1957, rappresentato nel 1974) è stato concepito come una trascrizione di un sogno e insieme una parodia delle tragedie shakespeariane: la pièce ha una struttura onirica dove il piano più alto del linguaggio si contamina con il lessico più volgare, e nell’ambito della trama gli avvenimenti più triviali si intrecciano ad accadimenti mortalmente seri. Eventi e personaggi sono caratterizzati da un’esibita artificialità. Nelle stesse parole dell’autore «tutte queste persone recitano sempre», tutti fingono di essere se stessi e mentono per dire la verità, mossi dall’unico – inconfessato – desiderio di dominare. Ogni cultura, infatti, non è altro che un insieme di rituali che hanno lo scopo di formalizzare in una messa in scena la lotta per la sopravvivenza.

Dopo aver così ferocemente tratteggiato l’obbligo socio-culturale delle convenzioni, in Operetta (1969) Witold Gombrowicz celebra l’apoteosi della nudità, simbolo di verità, sincerità, semplicità. Deciso a trasmettere attraverso la pochezza intellettuale dell’operetta il pathos della storia, Witold Gombrowicz descrive in Operetta nient’altro che l’apocalisse, il crollo del vecchio mondo, la rivoluzione, l’insorgere di un mondo nuovo e terribile. Da un punto di vista della personale filosofia di Witold Gombrowicz («non credo in una filosofia non erotica, in un pensiero che si libera dal sesso»), si tratta della fine di un percorso: alla sostituzione della convenzionalità della forma con la nudità da segni e orpelli corrisponde il trionfo, a lungo negato, del giovane sul vecchio, dell’universale sul nazionale, del sogno sull’ideologia. Anticipatrice dell’esistenzialismo, l’opera teatrale di  Gombrowicz se ne distanzia per l’esibito scetticismo e un certo anarchismo, ma soprattutto per la forma espressiva, per il suo carattere parodistico, per il suo senso del grottesco e dell’umorismo, che ne hanno decretato un successo pressoché ininterrotto sulle scene di tutto il mondo.

Maeterlinck

Maurice Maeterlinck è con Van Lerberghe Verharen e Rodenbach uno dei più imporanti rappresentanti della cultura simbolista belga. Nel 1899 pubblica la raccolta di poesie Serres chaudes , vera e propria ‘icona’ del simbolismo e va in scena La principessa Malena (Princesse Maleine), la prima di una serie di pièces che fanno di M. uno dei più significativi esponenti del teatro simbolista di area francofona. Il suo teatro cerca di riproporre – utilizzando i mezzi caratteristici della rappresentazione – la capacità di evocazione della poesia, sfruttando i silenzi, e la semplicità del décor, per `suggerire’ e `mostrare’ piuttosto che per `descrivere’ e `raccontare’. Le sue opere sono dunque dense di mistero: personaggi evanescenti e rispondenti ai topoi del simbolismo (algide principesse, artisti misteriosi, mistici, ecc.), ambientazioni feeriche, linguaggio dalle cadenze incantatorie. In questa linea si inseriscono oltre a La principessa Malena del 1889, L’intrusa (L’intruse, 1890) e I ciechi (Les aveugles, 1891). Del 1892 è invece la sua opera più nota, Pélleas et Mélisande che, grazie alla più tarda versione musicale di Debussy, riuscirà a conservare una fama che le altre opere non hanno più. In un’ambientazione medievale, Maeterlinck evoca le forze imperscrutabili della vita: la fatalità e la morte. Pelléas e Mélisande, personaggi dall’origine misteriosa – quasi stupiti di essere vivi – sono sedotti da forze sconosciute che prendono la forma di un amore disperato e impossibile. La morte è in agguato e un’atmosfera di ineluttabilità aleggia su tutti i personaggi del dramma: un vero incubo simbolista in cui il non detto coincide con la cecità dell’esistenza umana, la sua disperata mancanza di senso. Negli ultimi anni della sua vita, Maeterlink stempererà i toni cupi e incantati della sua prima produzione per avvicinarsi a una maggior semplicità tematica – sovente d’ispirazione bucolica, come testimonia Aglavine et Selisette (1896) – cui corrisponde tuttavia una ancor maggiore rarefazione del linguaggio secondo i parametri stilistico-retorici dell’ormai affermata ‘scuola’ simbolista. La sua relazione con l’attrice Georgette Leblanc – che sarà l’interprete di gran parte delle sue opere – non è forse estranea alla maggior serenità che contraddistingue opere come Monna Vanna (1902) e Joyzelle (1903). Le ultime opere per il teatro di Maeterlinck furono scritte durante la seconda guerra mondiale, ma mai pubblicate né messe in scena.

Olesa

I primi versi e feuilleton satirici di Jurij Karlovic Olesa escono a partire dal 1922 sulla rivista dei ferrovieri “Il fischietto” (“Gudok”), a cui collaborano scrittori come Bulgakov, Il’f e Petrov; ottiene grande popolarità con i romanzi Tre grassoni (scritto nel 1924 e pubblicato nel 1928) e Invidia (1927), dove non nasconde una divertita polemica nei confronti del nuovo sistema sovietico e dai quali fa subito due applaudite riduzioni teatrali (Tre grassoni nel 1930 per il Teatro d’Arte di Mosca e La congiura dei sentimenti , tratto da Invidia , nel 1929 al teatro Vachtangov). Lontano dall’ottimismo di gran parte della produzione sovietica è il successivo lavoro teatrale, L’elenco delle benemerenze (1931), con la regia di Mejerchol’d, reduce dai non meno controversi allestimenti di La cimice (1929) e Il bagno (1930) di Majakovskij. Emarginato dalla critica ufficiale, O. fu arrestato e costretto al silenzio: sopravvissuto al lager, si occupò di traduzioni e sceneggiature cinematografiche.

Jarry

Romanziere, saggista, Alfred Jarry è noto soprattutto come il creatore della maschera grottesca del `padre Ubu’ nell’Ubu re ; alla sua visionarietà sovvertitrice e incandescente si ispirò Antonin Artaud, che nel 1926 fondò il Teatro Alfred Jarry. Della propria vita di letterato, consumatore di assenzio, appassionato di sport e fondamentale misogino creò un mito, disegnandosi a caratteri semplificati e caricaturali. Di famiglia cattolica, formatosi tra le suggestioni di Bergson e quelle del simbolismo di Mallarmé e Rimbaud, Jarry condivide con gli amici del gruppo ‘Mercure de France’ l’estetismo decadentista e lo stile aulico simbolista, ma se ne distingue per un vivo spirito comico che coglie la realtà attraverso una cifra caricaturale estrema, mista di humour irridente e paradossale e di logica bruciante e cavillosa. La visionarietà di Jarry si nutre da un lato di un bagaglio sacrilego e blasfemo di simboli magico-poetici, in parte provenienti dalla tradizione cattolica, in parte sviluppati attraverso una vasta erudizione decadentista, di cui è debitore all’amico Remy de Gourmont; dall’altra di un rigore astratto, quasi cubista, che seziona la realtà in composizioni rigide di gesti e parole astratte, che rivelano tutta la loro artificiosa assurdità.

Costruita come una marionetta mostruosa è la figura dell’Ubu re, che Jarry introdusse già nel suo primo dramma, Cesare Anticristo (César-Antéchrist, 1895), e sviluppò nel suo capolavoro Ubu re (Ubu roi, 1896), per poi riprenderlo e moltiplicarlo nelle successive scritture a lui dedicate: Ubu Cocu , Ubu incatenato (Ubu enchaîné), Ubu sulla collina (Ubu sur la butte), Almanacco del padre Ubu (Almanach du père Ubu). Ubu è un personaggio abnorme, che rivela in una dimensione grottesca e surreale la sconcertante nudità del meccanismo dittatoriale e totalitario, in cui la dimensione eroica e persino quella oscura del principe machiavellico scompaiono, per svelare tutta la vacuità infantile e feroce della violenza dei rapporti di potere. L’angosciosa solitudine, la feroce materialità, l’imponderabile assurdità della vita umana trovano risposta in J. in una visione insieme anarchica e solipsistica, di cui la patafisica o «scienza delle soluzioni immaginarie» costituisce l’elaborazione teorica. Esposta dapprima nell’articolo Être et vivre (1894), poi in Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico (Gestes et opinions du docteur Faustroll, pataphysicien), attraverso una scrittura plastica, carnale, concreta, la `visione divergente’ della patafisica rivela la dualità assurda del mondo, in cui i contrari convivono in un caleidoscopio di azioni rituali, svuotate di ogni riferimento a un Senso ulteriore. Intessuti di riferimenti autobiografici, composti in una tessitura linguistica che intreccia gergo, latinismi, specialismi, illuminati da accensioni metaforiche e surreali, incisi nel profilo netto del disegno satirico, i numerosi altri scritti di Jarry – da I minuti di sabbia. Memoriale (Les minutes de sable. Mémorial, 1894) ai romanzi L’amore assoluto (L’amour absolu, 1899), Messalina (Messaline, 1901) e Il supermaschio (Le surmâle, 1902), agli scritti giornalistici Speculations e Gestes – rivelano una fondamentale teatralità di visione, nutrita di fisicità, simbolo e gusto divertito della dissezione e del montaggio.

De Monticelli

Figlio di attori, Roberto De Monticelli era cresciuto – non solo metaforicamente – nei camerini dei teatri, acquisendo con la passione per il palcoscenico un orecchio eccezionalmente sensibile alle intonazioni della voce e alle sfumature dell’interpretazione. Formatosi come cronista a “Italia libera” e al “Tempo di Milano” e come redattore di costume e di cultura a “Epoca” – dove era approdato alla critica drammatica sostituendo, dapprima temporaneamente poi stabilmente, Ferdinando Palmieri – era quindi divenuto titolare della rubrica teatrale su “La patria”, dal 1956 su “Il giorno” e infine, dal 1974, sul “Corriere della Sera”, in quella che ancora era vista come la prestigiosa `cattedra’ di Renato Simoni. Dotato di una scrittura insieme incisiva e copiosamente densa di immagini, di un’innata competenza e di una inesauribile curiosità per le vicende della scena, ha saputo essere come nessun altro un autorevole punto di riferimento, un acuto e puntuale osservatore di fenomeni e tendenze testimoniati con lucida tempestività anche al di là dei singoli giudizi. Per molti anni presidente dell’Associazione nazionale dei critici di teatro, ha svolto anche in questo ruolo una fondamentale funzione trainante, avviando un approfondimento etico e professionale della categoria e fornendo un sostanziale apporto alla crescita del teatro italiano del nostro tempo, specialmente per quanto riguarda il fronte degli Stabili, al quale si sentiva costituzionalmente più vicino. Animato da una profonda e sofferta vocazione letteraria, ha lasciato un solo romanzo, L’educazione teatrale. Di fatto però le sue recensioni, sempre meditatissime e frutto di una faticosa elaborazione stilistica, si compongono in uno straordinario racconto dei gusti e dei costumi del teatro in un’epoca di decisivi mutamenti, come quella compresa fra gli anni ’50 e ’80, e in un percorso niente affatto occasionale nella storia di un paese e di una società colti attraverso il filtro peculiare del teatro. Da un suo saggio critico è stato ricavato il monologo Signori, il teatro deve essere rauco, interpretato nel 1989 da Renzo Giovampietro.

Vargas Llosa

Tra i grandi narratori latinoamericani, Mario Vargas Llosa alterna romanzi di ampio respiro su temi sociali e storici legati alla realtà del suo paese, con altri di carattere piú intimista. Dedicatosi negli ultimi anni anche al teatro, senza ottenere lo stesso successo che accoglie regolarmente l’uscita di un suo nuovo romanzo, ha scritto La señorita de Tacna (1981), Kathie y el hipopótamo (1983) e La Chunga (1986), il suo testo teatrale più noto.

Baricco

Le atmosfere incantate, la vitalità e la ricchezza del narrare sono i cardini su cui ruotano i libri di Alessandro Baricco, il cui debutto nel mondo del teatro è avvenuto nel 1994 in occasione del festival di Asti con l’allestimento di Novecento (storia del pianista del Virginian, mai sceso dalla nave per tutta la sua vita) per la regia di Gabriele Vacis e l’interpretazione di Eugenio Allegri. A questa prova ha fatto seguito la lettura-recitazione (effettuata da Galatea Ranzi al Teatro Valle di Roma nel 1996) del suo racconto Seta e la messinscena di Totem , spettacolo in due serate sui classici della letteratura, della musica, del teatro e della pittura realizzato con Vacis (ha debuttato a Savigliano presso il Teatro Milanello nel 1997). Ancora nel 1997, per la regia di Luce Ronconi, al Teatro Argentina, è andata in scena la discussa parabola filosofica Davila Roa.

Witkiewicz

Figlio del pittore e critico d’arte Stanislaw Witkiewicz, Stanislaw Ignacy Witkiewicz studia all’Accademia di belle arti a Cracovia. Partecipa in qualità di disegnatore alla spedizione a Ceylon e in Australia del celebre antropologo polacco Bronislaw Malinowski (1914); durante la prima guerra mondiale presta servizio nell’esercito russo col grado di colonnello della guardia. Tra il 1918 e il ’22 partecipa alle attività dei `Formisti’, un gruppo di poeti e pittori residente a Cracovia. Witkiewicz si è accostato alla forma teatrale da teorico dell’estetica, in un quadro culturale di reazione antiromantica e antinaturalistica.

Negli anni tra il 1918 e il ’34 scrive trentacinque pièce teatrali (di cui più della metà è andata perduta), strettamente legate alle formulazioni teoriche contenute negli scritti critici Nuove forme in pittura e i fraintendimenti che ne conseguono (1919), Schizzi estetici (1922), Introduzione alla teoria della forma pura in teatro (1923). Per Witkiewicz la civiltà è entrata in una fase di livellamento e meccanizzazione capace di assicurare la felicità alle masse, ma anche la fine dell’arte, della religione, della filosofia. Nel campo dell’arte drammatica Witkiewicz ravvisa una delle vie d’uscita da questa situazione in un’opera il cui senso venga definito solo dalla struttura interiore, puramente scenica, e non dall’esigenza di una psicologia coerente o di un’azione conforme a principi vitali.

Witkiewicz fa un uso formalizzato e `metafisico‘ del teatro: nei suoi drammi rinuncia a qualsiasi verosimiglianza, volendo suscitare con la straordinarietà degli eventi rappresentati impressioni oniriche, stati di allucinazione. Il significato di un’opera teatrale per Witkiewicz non è conferito dal contenuto testuale, ma è veicolato dai suoni, dalle decorazioni, dai gesti compiuti sulla scena. Il comportamento dei personaggi è imprevedibile e crudele, le trame delle pièce si basano sulle loro ricerche sentimental-erotiche e su intrighi amorosi, sull’esibita volontà di rivoluzionare l’arte, la filosofia, la religione, di sperimentare il `mistero dell’esistenza’ e di crearsi una vita artificiale. Il dilemma della scelta tra realtà e apparenza è risolto teatralizzando la vita, nel modulo del teatro nel teatro e nella segmentazione del discorso dei personaggi. L’azione spesso ricorda un’improvvisazione collettiva, una rappresentazione carnevalesca.

Ricorrenti i temi della decadenza, dello snaturamento e della formalizzazione dell’esistenza, gli interrogativi sul ruolo dell’arte e degli artisti nella civiltà del futuro: i personaggi delle commedie di Witkiewicz svolgono un ininterrotto discorso sul teatro. Solo alcuni i drammi che poterono essere pubblicati e messi in scena durante la vita dell’autore. In Metafisica del vitello a due teste (1921, rappresentato nel 1928), Tumor Cervelletti (1921), L’indipendenza dei triangoli (1921), Le bellocce e i bertuccioni (1922, rappresentato nel 1967) l’azione ha forma circolare, privando di ogni motivazione le peripezie dei personaggi: chi è stato ucciso nel primo atto torna sulla scena nel secondo. Tra le opere rappresentate tra le due guerre sono da ricordare Mister P. ovvero la balzanità tropicale (1926); La nuova liberazione (pubblicato nel 1922-23, rappresentato nel 1925), storia di un’iniziazione alla `sensazione metafisica’; Nel palazzetto (rappresentato nel 1923), piccolo capolavoro del grottesco derivante dalla contrapposizione tra realtà teatrale e realtà vissuta; La gallinella d’acqua (rappresentato nel 1922), dove i gesti più tragici si ripetono senza riuscire a incidere sulla realtà, in un grand-guignol insieme da incubo e ridicolo; Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (pubblicato nel 1923, rappresentato nel 1933), tentativo di trovare un’alternativa artificiale, immaginaria, al reiterarsi inconcludente di situazioni reali; Gian Matteo Carlo Rabbia (rappresentato nel 1925); Il folle e la monaca (pubblicato nel 1925, rappresentato nel 1926), esemplificazione del postulato che vuole che la follia sia il tratto distintivo della creatività artistica.

Dopo la seconda guerra mondiale e la parentesi della censura staliniana sono stati pubblicati e rappresentati per la prima volta alcuni tra i drammi più importanti di Witkiewicz: Loro (1963), dove a un regime tirannico che teorizza e pratica il livellamento sociale e la barbarie culturale si oppone un artista spinto alla connivenza col crimine dall’agnosticismo morale; La madre (1964), quadro di un universo in cui il genere umano è oramai allo sfacelo, «l’arte è moribonda, la religione è finita e la filosofia divora le proprie interiora»; La locomotiva impazzita (1965); Gyubal Wahazar (1966), il cui protagonista intende dedicarsi alla salvezza dell’umanità imponendo una propria personale dittatura; La sonata di Belzebù (pubblicato nel 1938, rappresentato nel 1966); nonché l’ultima opera dello scrittore, Ciabattini (1957), espressione di quel catastrofismo che non fu estraneo alla scelta di togliersi la vita al momento dell’aggressione sovietica alla Polonia (1939). Sulla scena le proposte della `forma pura’ si pongono a cavallo fra il Théâtre Alfred Jarry e Artaud: affine a quest’ultimo il pensiero rivolto a un’«oltranza che superi le contingenze della vita» (G. Poli).

La parola chiave in Witkiewicz è `insaziabilità‘ (titolo di un suo romanzo), estasi frustrata, verbigerazione, discorso straripante: l’autore-narratore si moltiplica in una moltitudine di personaggi, e a un minimo di azione scenica corrisponde un massimo di espansione verbale. Dal secondo dopoguerra a oggi i drammi di Witkiewicz, in cui non è difficile ravvisare un precursore del teatro di avanguardia, godono di un’inesausta fortuna scenica. Tra le messe in scena di maggior valore sono sicuramente da annoverare quelle di Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (1956), Nel palazzetto (1961), Il folle e la monaca (1963), La gallinella d’acqua (1967) e Le bellocce e i bertuccioni (1972) ad opera di Tadeusz Kantor.

Cocteau

Fin da giovanissimo Jean Cocteau frequentò i circoli letterari e artistici più in vista di Parigi, cosa che lo portò a intraprendere quell’avventura intellettuale che fece di lui una delle personalità più singolari di Francia per oltre mezzo secolo. Nell’attività febbrile che gli fece sperimentare quasi tutti i generi artistici, giocando spesso un ruolo di primissimo piano, non è probabilmente al teatro che Cocteau ha riservato il meglio di se stesso. E tuttavia il teatro, al pari del mondo della danza e del balletto, non ha mai cessato di affascinarlo: nella sua produzione ha via via saputo riflettere, a volte anche simultaneamente, tutte le mode letterarie del suo tempo ricco di ‘ismi’ e di avanguardie. Personalità più che mai poliedrica, ha affrontato il balletto collaborando con Diaghilev ed elaborando scenari, manifesti, soggetti per spettacoli che hanno fatto la storia del genere. Dopo Le Dieu bleu con Fokine (musica di R. Hahn, 1912), le polemiche esplosero con Parade (1917), balletto cubista e parodistico di cui aveva scritto il soggetto e di cui Satie e Picasso avevano fornito rispettivamente musica e scene. Con le sue originali scenografie riuscì anche a dar vita a una realtà poetica complessa, in cui elementi scenici quotidiani diventavano fiabeschi (Les mariés de la Tour Eiffel, 1921). In seguito contribuì al successo dei Ballets des Champs-Élysées, soprattutto con Le jeune homme et la mort (coreografia del giovane R. Petit, 1946), realizzando anche scene e costumi di molti balletti per l’Opéra, tra cui Phèdre (coreografia di S. Lifar, 1950).

Dopo il balletto venne il teatro, e Cocteau fu il primo in Francia a tentare di ritrovare e far rivivere lo spirito dell’antica tragedia greca e di stabilire analogie tra essa e la cultura moderna; di qui la rielaborazione di antichi miti in chiave contemporanea. All’adattamento fedele dell’ Antigone di Sofocle (1922) seguirono Roméo et Juliette (1924) e Orphée (1926), esercizi che gli permisero poi di trarre dall’ Edipo re elementi per La macchina infernale (La machine infernale), andato in scena nel 1934 alla Comédie des Champs-Élysées: pièce tra le sue più famose, in cui appunto si condensa tutta la storia di Edipo, con ammiccamenti al pubblico e sapienti anacronismi, che ne fanno un grande gioco letterario più che un vero viaggio alle origini della tragedia. In seguito C. si compiacque di accostarsi a tutti i generi, sfiorando sovente il ‘pastiche’. Ha tentato la féerie medievale con I cavalieri della tavola rotonda (Les chevaliers de la Table Ronde, 1937), il melodramma con I mostri sacri (Les monstres sacrès , 1940), la tragedia neoclassica in versi con Renaud et Armide (1943), il dramma neoromantico con L’aquila a due teste (L’aigle à deux têtes, 1946), che vide il trionfo di due mostri sacri della scena, Edwige Feuillère e Jean Marais, futuro compagno di Cocteau.

Una parte di rilievo, nella lunga lista di testi scritti per la scena, occupano ancora gli atti unici e i monologhi tra i quali, celeberrimo anche per i suoi vari adattamenti, La voix humaine (1930). Il capolavoro tuttavia – più che con le opere citate e con Bacchus (1952), creato in clima esistenzialista e in antagonismo a Sartre – doveva sfiorarlo con lo spietato quadro de I parenti terribili (Les parents terribles), dramma andato in scena con molto clamore nel 1938 e grande esempio di ‘pièce moderne’ collegata al Boulevard littéraire, che poi Anouilh illustrerà brillantemente. Cocteau fornì inoltre alcuni libretti d’opera: tra essi Le pauvre matelot di Milhaud (1927) e Oedipus Rex di Stravinskij (1927), dramma in cui una situazione da vaudeville sfocia in tragedia. Anche nel cinema, infine, di cui ebbe variamente a interessarsi, Cocteau confermò l’eclettismo del suo stile, diviso tra dadaismo e neoclassicismo, tra sperimentalismo e visionarietà; a ben testimoniare, Orfeo (1950).

Pavolini

Figlio del filologo Paolo Emilio Pavolini, Corrado Pavolini fondò nel 1919 con Primo Conti la rivista d’avanguardia “Il Centone” e nel 1922 “Lo Spettatore”. Dal 1925 al 1932 fu redattore de “Il Tevere”, diretto da Telesio Interlandi. Ha svolto un’intensa attività di regista radiofonico e teatrale all’Accademia d’arte drammatica di Firenze, di sceneggiatore cinematografico, oltre che di critico drammatico su “L’Italia letteraria” e su “Epoca”. A fianco di R. Simoni ha lavorato come regista, curando poi la messinscena di numerosi spettacoli per le compagnie di primo piano, fra cui quella di L. Adani, M. Benassi, E. Zareschi. Fra gli spettacoli da lui diretti, rilevanti sono L’annuncio a Maria di Claudel nel 1950 con la compagnia Torrieri-Carraro e Delitto all’isola delle capre di U. Betti recitato dalla compagnia Zareschi-Randone. Tra le sue opere si ricordano La croce del sud (1927, in collaborazione con Interlandi), La donna del poeta (1936), Il deserto tentato ( 1937), La figlia del diavolo (atto unico, 1954), Ciro (in collaborazione con Stefano Landi). Nel 1952-53 ha curato per l’editore Casini un ampio repertorio di testi scenici, Tutto il teatro di tutti i tempi. Con la sua traduzione è arrivata in Italia, nel 1950, l’opera teatrale di André Gide.

Fuentes

La narrativa di Carlos Fuentes, una delle maggiori della letteratura latinoamericana, si caratterizza per un disincantato pessismismo e per una presenza ossessiva del passato che si interseca in chiave mitica col presente (La regione più trasparente , 1958; La morte di Artemio Cruz , 1962). Questi elementi si ritrovano in parte anche nella sua più saltuaria produzione teatrale. Tra i testi più noti si possono ricordare: Il guercio è re (El tuerto es rey, 1971), interpretato da María Casares; Tutti i gatti sono grigi (Todos los gatos son pardos, 1971), sulla conquista del Messico; Orchidee alla luce della luna (Orquìdeas a la luz de la luna, 1988), messa in scena da Guillermo Heras al Centro Drammatico Nazionale di Madrid.

Montanelli

La capacità di decifrare la vita contemporanea con spirito anticonformista e freschezza espressiva sono i segni distintivi dell’Indro Montanelli giornalista e storico che si ritrovano anche nelle sue opere per il teatro. Da giovane fu un grande estimatore e frequentatore di riviste (fece anche una comparsata nella compagnia di Nanda Primavera). Al teatro si è avvicinato molto presto ( L’idolo è del 1937, Lo specchio della vanità venne messo in scena al Teatro Carignano nel 1942, L’illustre concittadino – scritto con M. Luciani – fu allestito al Teatro Excelsior di Milano nel 1949), ma i suoi testi principali sono stati scritti tra gli anni ’50 e ’60: Resisté (Teatro Olimpia, Milano, 1955), Cesare e Silla (Teatro delle Maschere, 1956), Viva la dinamite (Teatro Sant’Erasmo, 1960), I sogni muoiono all’alba (1960), Kibbutz (1961), Il petto e la coscia (Teatro di via Piacenza, Roma, 1964), Il vero generale Della Rovere (Teatro Sant’Erasmo, 1965, scritto insieme a V. Talarico). Quasi tutte le pièce sono strettamente legate a eventi (soprattutto politici) ben determinati; col passare del tempo molte di esse sono inevitabilmente diventate meno immediate e più lontane dalla sensibilità del pubblico, per cui, negli ultimi anni, le riprese si sono fatte sporadiche. Nel 1992, a cura di Arturo Corso, si è avuto l’allestimento di I sogni muoiono all’alba (di cui esiste anche una versione cinematografica), storie parallele di cinque inviati di giornali italiani sorpresi a Budapest dalla repressione comunista.

Pinget

La carriera teatrale di Robert Pinget è, per certi versi, paradossale. Le sue opere sono state rappresentate dai più importanti teatri francesi, e dalle compagnie più illustri, ma a intervalli così distanziati da non metterne appieno in luce la crescita drammaturgica. Inoltre la sua immagine di autore teatrale ha probabilmente sofferto della sua reputazione di romanziere: Pinget ha in effetti cercato di trasporre sulla scena i temi e le tecniche del Nouveau Roman, corrente letteraria di cui è stato, con Alain Robbe-Grillet e Nathalie Sarraute, uno dei protagonisti. Le prime pièces sono infatti riduzioni di altrettante opere in prosa: Lettera morta (Lettre morte, 1959) , La manovella (La manivelle, 1960). Con l’invenzione del personaggio di Mortin ne L’ipotesi (L’Hypothèse, 1961) e Inchiesta su Mortin (Autour de Mortin), trasmessa alla radio nel 1965, Pinget mette in scena lo scrittore assorto nelle nevrosi del processo creativo.

I suoi tre ultimi lavori Identité, Abel e Bela (1971) formano una trilogia e costituiscono l’apporto più originale di Pinget alla teoria e alla pratica del teatro `di ricerca’, espresso attraverso interessanti esperimenti di linguaggio e attraverso un ripensamento delle convenzioni sceniche (scene speculari riprodotte serialmente, inserzione di proiezioni cinematografiche, parodie di stili di comunicazione settoriali, come quello giornalistico, ecc.). Nel 1975, Pinget darà ancora vita al personaggio di Mortin in Paralchimie , opera che cerca di riprodurre sulla scena la vita inconscia del protagonista, i suoi fantasmi e le sue ossessioni in un patchwork di citazioni. L’ambizione del primo teatro di Pinget non è tanto psicologica quanto antropologica: è un ritratto dell’uomo universale, della sua passività e della sua aspirazione all’unità. Una vera e propria allegoria dell’essere che non esita a ricorrere al mito e al simbolo per acquisire maggior pregnanza e significazione.

Vergani

Orio Vergani mosse i suoi primi passi collaborando con le riviste “Cronache d’attualità” (diretta da Anton Giulio Bragaglia) e la “Fiera letteraria”. Successivamente divenne una delle più importanti firme del “Corriere della Sera” per cui lavorò sino alla morte. La passione per il teatro, pur risalendo alla giovinezza, non si mantenne costante nel corso della vita. Due, in particolare, sono le pièce degne di nota: Il vigliacco – rappresentata nel 1923 a Roma presso il Teatro Sperimentale di Guido Podrecca, zio di Vergani – e, soprattutto, Il cammino sulle acque, torbida vicenda familiare dai toni crepuscolari, in cui a farla da padrona è la sensazione che tutto nella vita sia insensato, dagli indispensabili obblighi sociali alla rovinosa incombenza dei ricordi.

Marinetti

Dopo i primi successi letterari a Parigi, con alcune raccolte di liriche modellate sulla poesia di Rimbaud e Verlaine, dopo l’attività letteraria, conclusasi col Manifesto del futurismo del 1909, dopo Mafarka il futurista (1910), La battaglia di Tripoli (1911), Il bombardamento di Adrianopoli (1913), Filippo Tommaso Marinetti intensificò l’attività teatrale (iniziata nel 1909 con Poupées élétriques ), non solo con una serie di Manifesti , ma anche con una cospicua produzione, che solo recentemente è stata raccolta in tre volumi da Giovanni Calendoli. I suoi lavori drammatici ebbero subito gli onori della scena: La donna è mobile fu rappresentata al Teatro Regio di Torino (1909) dalla compagnia Suvini-Zerboni; Le roi bombance al Théâtre de L’Oeuvre (1909); col titolo di Il re baldoria venne rappresentata soltanto nel 1929 in Italia al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia. Seguirono: Elettricità , Compagnia Betti-Masi (1915); Simultaneità , Compagnia Fumagalli (1922); Il tamburo africano (Teatro Verdi di Pisa, 1922); Bianco e rosso (Teatro degli Indipendenti, 1923); Prigionieri (Teatro di villa Ferrari, 1925); Fantocci elettrici (Teatro degli Indipendenti, 1925); Vulcano (Teatro d’Arte diretto da Luigi Pirandello, 1926); L’oceano del cuore (Teatro Argentina, 1927); Il suggeritore nudo (Teatro degli Indipendenti, 1929); Simultanina (Teatro Argentina, Compagnia Fontana-Benassi, 1931). Alcune di queste opere ebbero successo in Germania, Francia, Russia e Cecoslovacchia; ebbe grande risonanza la messinscena di Prigionieri (1933) al Teatro Wielki di Leopoli, regia di Z. Radulski. Poco nota è la sua attività di autore radiofonico; M. scrisse per la radio otto sintesi raccolte in: Sintesi radiofoniche e Violetta e gli aeroplani. La `teatralità’ di Marinetti va certamente intesa in senso lato, come forma di espressione e di comunicazione; doveva essere coerente con l’estetica futurista invocata nei Manifesti dedicati al teatro: Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911); Il teatro di varietà (1911); Il teatro futurista sintetico ; Scenografia e coreografia futurista (1915); La declamazione dinamica e sinottica (1916); Il teatro aereo futurista (1919); Il teatro della sorpresa (1921); Il teatro totale per le masse (1933). Dopo i clamori e gli scandali del primo decennio, il teatro di M., fra il disconoscimento della critica e il successo contrastato del pubblico, divenne un punto di riferimento per chi voleva sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi. La sua scrittura scenica si scontrò con quelli che erano stati i consueti parametri teatrali della tradizione di fine Ottocento e si avviò verso soluzioni ardite, che soltanto dagli anni ’60 il teatro italiano ha riscoperto, con il movimento delle avanguardie.

Nemirovic-Dancenko

Fondatore con Stanislavskij del Teatro d’Arte di Mosca, Vladimir Ivanovic Nemirovic-Dancenko inizia come brillante e acuto critico teatrale su quotidiani e riviste (“La sveglia”, “L’artista”, “Il corriere russo”, “Novità del giorno”) e come scrittore di romanzi, racconti e drammi ( L’ultima volontà , 1888; Un nuovo affare , 1890; L’oro , 1895; Il prezzo della vita , 1896; Sogni , 1901: tutti rappresentati con grande successo ai teatri Aleksandrinskij e Malyj, con i migliori attori del tempo). Nel 1896 rifiuta il premio Griboedov per Il prezzo della vita , ritenendo ingiustamente sottovalutato il coevo Il gabbiano di Cechov. Dal 1891 al 1901 insegna alla Scuola musicale-drammatica moscovita, formando una generazione di attori di grande futuro, che di lì a poco chiamerà a far parte del suo teatro. Nel 1898 incontra l’attore e regista Stanislavskij, di cinque anni più giovane di lui: insieme progettano un teatro davvero rivoluzionario, dove ogni routine, ogni convenzione viene rifiutata. Studio attento, rigoroso del testo, lunghi periodi di prove (mesi, rispetto ai pochi giorni delle normali compagnie), estrema, dettagliatissima cura nella preparazione ed esecuzione di scene, costumi, oggetti (rispetto all’uso di materiali già pronti e generici), collaborazione continua con scenografi, costumisti, sarti, trovarobe, per un risultato globale di armonia ed equilibrio del tutto nuovo nel teatro del tempo. Al termine di un lungo, `storico’ colloquio, Nemirovic-Dancenko e Stanislavskij decidono la fondazione del Teatro d’Arte. La compagnia è composta in parte dai colleghi della precedente compagnia di Stanislavskij, in parte dai migliori allievi di Nemirovic-Dancenko: O. Knipper, Vs. Mejerchol’d, I. Il’inskij.

Nonostante le prime regie vengano firmate insieme, la divisione dei ruoli è molto precisa: Nemirovic-Dancenko si assume l’onere delle scelte letterarie, Stanislavskij della preparazione artistica degli attori. Entrambi discutono l’impostazione del testo, lavorano all’approfondimento del discorso dell’autore. È Nemirovic-Dancenko comunque che decide quali autori inserire nel repertorio e che riavvicina Cechov al teatro, ottenendo da lui non solo l’autorizzazione a riprendere Il gabbiano dopo l’insuccesso di due anni prima, ma l’esclusiva di tutti i lavori successivi, da Zio Vanja (1899) al Giardino dei ciliegi (1904); è lui che convince Gor’kij a scrivere per il teatro, che porta al successo i suoi primi lavori ( Piccoli borghesi e Bassifondi , 1902) e mette in scena (sempre con Stanislavskij) I figli del sole (1906), in aperta polemica con il mondo borghese e l’ intelligencija , passivi, incerti, assenti negli anni `caldi’ seguiti alla rivoluzione del 1905. La sua attività di regista si rende lentamente autonoma da Stanislavskij, dimostrando solida maturità con spettacoli come Quando noi morti ci destiamo di Ibsen (1900), Giulio Cesare di Shakespeare (1903), Le colonne della società (1903) e Rosmersholm (1908) di Ibsen, I fratelli Karamazov da Dostoevskij (1910), Il cadavere vivente di Tolstoj (1911), Pane altrui di Turgenev (1912), Nikolaj Stavrogin da I demoni di Dostoevskij (1913), La morte di Pazuchin di Saltykov-Scedrin (1914), Il convitato di pietra di Puškin (1915). Dopo la Rivoluzione d’ottobre, mentre Stanislavskij compie tournée all’estero con grande successo, Nemirovic-Dancenko riorganizza il teatro, dimostrandosi disponibile alla nuova realtà sovietica. Sempre più indipendente da Stanislavskij, di cui non condivide l’esasperata lentezza che le ricerche del `sistema’ impongono alla preparazione degli spettacoli, introduce nel repertorio del teatro, fino allora dominato dai classici, interessanti testi sovietici, come Pugacëvscina di Trenëv (1925), Il blocco di Vs. Ivanov (1929), Ljubov’ Jarovaja di Trenëv (1936). Accanto alla scoperta di nuovi talenti, Nemirovic-Dancenko coltiva i classici che sono certamente più affini alla sua personalità e di cui coglie con sempre maggior ampiezza la complessità: oltre a Gor’kij, di cui mette in scena i più recenti lavori (Egor Bulycëv e altri , 1934; Nemici, 1935), e a Cechov, di cui riprende con grande sensibilità e intelligenza Tre sorelle (1940), si dedica a Tolstoj (riduzione di Resurrezione, 1930 e Anna Karenina, 1937), Ostrovskij (L’uragano, 1934), Griboedov (Che disgrazia l’ingegno!, 1938). Regista di solido impianto realistico, di ampia cultura e di grande professionalità, mantiene costantemente una posizione di autorevole prestigio, tenendosi lontano sia da facili sperimentalismi sia dal grigiore della politica culturale di partito. Ottiene notevole successo anche come regista d’opera.

Green

Di fede attolica profondamente influenzato dal senso di mistero trasmesso da tanta parte della cultura simbolista sulla quale si è formato, Julien Green trasfonde nella sua produzione teatrale la convinzione che gli uomini siano «i personaggi di un romanzo di cui non sempre riescono a capire il senso». Attraverso la scrittura, sia di romanzi che di opere per il teatro, Green si propone a sua volta di «trovare un senso»: segnale di questo percorso di ricerca sono le tre pièces Sud (1953), L’ennemi (1954), e L’ombre (1956). Di origine americana, Green appare ossessionato dal tema dello `straniero’, un individuo venuto dall’esterno a rompere un precario equilibrio, cui si accosta il tema-problema della ‘rivelazione’, ovvero l’impossibilità di `dire’, di rivelare un segreto. Due temi, questi, che trovano nel suo teatro una realizzazione evocativa e ricca di suggestione.

Capuana

Caposcuola del verismo italiano, Luigi Capuana rimase molto legato a Giovanni Verga. Iniziò la sua attività di drammaturgo con un testo di carattere risorgimentale, Garibaldi (1861); l’incontro con Martoglio fu determinante per la produzione in dialetto siciliano, anche se, qualche anno prima, la Compagnia stabile romana aveva messo in scena I ribelli (1908). Altri suoi testi sono Giacinta (1888), Serena (1899), Lu vampiru (1912); ma i successi furono Malia , con la compagnia Grasso-Aguglia (1895), Lu cavalieri Pidagna (compagnia Giovanni Grasso, 1911), Cumpanaticu (compagnia Angelo Musco, 1914), Quacquarà (compagnia Angelo Musco, 1916), tutti ancora presenti nel repertorio del Teatro stabile di Catania. Capuana era convinto che, per arrivare a un vero teatro nazionale, occorresse passare attraverso l’esperienza di un teatro regionale. Ciò gli fu possibile perché, sulla sua strada di commediografo, si imbatté in Martoglio, Grasso, Musco, un vero e proprio triumvirato del teatro dialettale. A C. dobbiamo molti interventi critici sulla letteratura; alquanto noto Gli ismi contemporanei , ma è molto importante Il teatro italiano contemporaneo (1872). Nel 1890 tradusse e fece conoscere La parigina di Becque che andò in scena, nello stesso anno, al Manzoni di Milano.