Savi

Dopo gli studi artistici, Carlo Savi lavora dapprima come scenografo realizzatore; nel 1968, inizia una carriera indipendente, sviluppando uno stile analitico che predilige i significati più che la ricostruzione ambientale. I suoi interessi, sebbene comprendano il teatro di prosa (I nuovi pagani di N. Saponaro, regia di R. Bernardi, Roma, Teatro Quirino, 1970; Interrogatorio all’Avana di Henzesberger, regia di A. Negrin, Milano, Piccolo Teatro, 1972), si orientano in particolare verso quello d’opera: numerosissimi gli allestimenti di rilievo, tra i quali quelli per la Piccola Scala di Milano (La morte dell’aria di G. Petrassi, regia di A. Diaz, 1971; Andata e ritorno di P. Hindemith, regia di V. Bertinetti, 1973; La favola di Orfeo di A. Casella, regia di F. Crivelli, 1975; L’opera del mendicante di Britten, regia di F. Crivelli, 1977). Fortunati anche l’ Arcadia in Brenta di Galuppi (regia di G. Belledi, Parma, Teatro Regio, 1980), giocata in uno spazio quasi metafisico, con un malinconico orizzonte disseminato di obelischi, sedie ed altalene; Il barbiere di Siviglia di Rossini (regia di G. Belledi, Parma, Teatro Regio, 1983), dove burattineschi personaggi dai candidi costumi si aggirano sul palco in disarmo tra vecchie cassapanche e antiche macchinerie come in un cantiere di memorie; la Semiramide di Rossini (regia di F. Ambrosini, Parma, Teatro Regio, 1985), dai costumi statuari e simbolici che si stagliano con accesi controluci sul rosso della scena; e la più recente Giovanna d’Arco di Verdi (regia di F. Crivelli, Verona, Teatro Filarmonico, 1988).

Bosquet

Thierry Bosquet inizia la sua carriera lavorando per la lirica e per la danza fin dal 1955 al Teatro Volant di Bruxelles, e poi realizzando diversi spettacoli anche per il Théâtre Royal de la Monnaie. Il suo linguaggio creativo è di forte ispirazione fantastica: per la Manon di Massenet (regia di S. Sequi, 1964) rievoca decorazioni di arredo tardo rococò; per Il flauto magico di Mozart (regia di C. Graham, 1966), immagina velluti, sculture e costumi metà Ottocento dalle ampie gonne femminili a balze di merletto; e per Il conte Ory di Rossini (regia di A. Berch, 1967) inserisce abiti corposi ed appariscenti in una campagna da miniatura gotica, illuminata da soli a raggi d’oro da broccato barocco. Importante è l’incontro con Béjart, per il quale lavora dal 1974, in una Traviata ambientata in un démi-monde sfolgorante di lumi e orpelli, con dame in abiti a strascico, boa di struzzo e pennacchi di airone; nel 1975 elabora il Notre Faust di Béjart e nel 1978 risolve La vie parisienne di Offenbach con atmosfere che rievocano con ironia le mode della Parigi del Secondo impero. Nonostante la sua carriera sia legata di preferenza ai teatri di Bruxelles, l’artista belga opera con successo in Europa, in Francia, Germania ed Italia (nel 1968 a Monaco elabora l’ Orfeo di Monteverdi; nel 1973 per il Teatro alla Scala di Milano cura le scene ed i costumi di Mathilde ou l’Amour Fou , un balletto su musica di Wagner).

Bussotti

Osserva Roland Barthes che un manoscritto di Silvano Bussotti è già un’opera d’arte totale: in lui il teatro (il concerto) comincia a germinare fin dall’apparato iconografico che ha il compito di trasmetterne il programma. Per Silvano Bussotti l’opera musicale scritta, ben lungi dall’esaurirsi nelle potenzialità di un prodotto, è infatti un momento di un’ operazione sinestetica, insieme acustica, visiva e gestuale, che prelude ai sinuosi labirinti del suo teatro. Compositore, regista, scenografo e costumista tra i più originali comparsi sulla scena dell’avanguardia italiana negli ultimi decenni, Silvano Bussotti ha sempre coltivato un proprio mondo musicale di concentrata intensità autobiografica, nutrito di ossessioni, desideri e pulsioni sensuali debordanti – una visione liberatoria ed estetizzante dell’erotismo campeggia al centro di tutto il suo progetto artistico – che deflagrano spazialmente a partire dal suo segno grafico. Gli spartiti di due dei Five Piano Pieces for David Tudor (1959), ad esempio, saranno materiali per i siparietti di Oggetto amato (1975), `mitologie danzate’ con coreografia di Amedeo Amodio; mentre la gestualità dei Tableaux vivants per due pianoforti (1964) funge da cartone preparatorio per il `mistero da camera’ La passion selon Sade (1965); o ancora, le pianistiche Novelletta (1973) e Brillante (1975) verranno poi rielaborate in versione ballettistica. Nella Passion , in particolare, Silvano Bussotti attinge forse al più alto livello del suo sperimentalismo, nell’assoluta ambivalenza dei ruoli di esecutori e attori, nel continuo trascolorare delle azioni dall’esecuzione strumentale alla finzione scenica o all’happening vero e proprio.

A partire dagli anni ’70 la fucina del `Bussottioperaballet’, sigla sotto la quale il compositore ama far rientrare ogni suo lavoro teatrale, ha prodotto circa venti titoli tra opere (delle quali ricordiamo Lorenzaccio, 1972, Nottetempo, 1976, L’ispirazione, 1988) e balletti. Quest’ultimo versante è particolarmente ricco; spiccano Raramente (Biennale di Venezia 1971, coreografia di Aurelio Milloss), Le bal Miró (1981, coreografia di Joseph Russillo, scene e costumi di Miró), Cristallo di rocca (Scala 1983) e Nuit de faune (1990-91), denominato ‘concerti con figure’. Già direttore di La Fenice di Venezia (1976-77) e della Biennale Musica (1991-93), sin dagli anni ’60 Silvano Bussotti ha affiancato all’impegno per le regie, le scene e i costumi di quasi tutti i propri spettacoli, un’assidua presenza nel campo della musica di scena (da Beckett a Hofmannsthal, alcune collaborazioni con Carmelo Bene) e soprattutto della regia, sia per balletti d’altri autori sia per il teatro d’opera (dal 1974 in poi, per le scene e i costumi si è avvalso in prevalenza della collaborazione di Tono Zancanaro). Anche quest’ultima e non secondaria branca della sua attività appartiene e si fonde con il ridondante gusto figurativo del suo teatro. Se la sua musica è pervasa da una poetica che elegge il frammento prezioso e la citazione dotta a sistema, analogamente l’invenzione visiva attinge ai toni del fantastico e del fiabesco per contagiarli con un’ostentazione compiaciuta di sfarzo ed eccessività che gioca a sfiorare il kitsch, ma che definire `barocca’ sarebbe limitativo. L’intento di B. è invece quello di riguadagnare al proprio narcisistico quanto nobile gesto, in una lucidità che si direbbe quasi ‘neo-rinascimentale’ nei suoi momenti migliori, la perduta pienezza interdisciplinare e totale del fare artistico.

Ratto

L’esordio di Gianni Ratto con Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1945) gli consente di stringere un intenso rapporto con Strehler, che lo introduce al nascente Piccolo Teatro di Milano; fino al 1953, la sua attività si identifica con la vicenda artistica del teatro milanese, e la partecipazione costante ed attenta gli permette di sviluppare una notevole sensibilità interpretativa: tra i molti, si ricordano gli allestimenti per L’albergo dei poveri di Gor’kij (1947), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (1947), Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (1953). Dal 1954 vive e lavora in Brasile come scenografo (Cesare e Cleopatra di Shakespeare, regia di Z. Ziembinski, San Paolo, 1963; Riccardo III di Shakespeare, regia di A. Filho, San Paolo, 1975; La vita di Galileo di Brecht, regia di C. Nunes, 1989) e come regista citiamo gli ultimi lavori Don Giovanni di Mozart (Rio de Janeiro, 1980), Incontri clandestini di T. Williams (San Paolo, 1982) e Rigoletto di Verdi (1991).

Quartucci

Figlio d’arte, Carlo Quartucci giunge a Roma alla fine degli anni ’50 per studiare architettura, pittura, cinema, ma i suoi interessi si volgono presto al linguaggio teatrale e al suo rinnovamento. Nel 1959 esordisce come regista, scenografo, attore in Aspettando Godot di Beckett; seguono gli allestimenti di C’era folla al castello di J. Tardieu (1960), Le sedie di Ionesco (1961), Finale di partita di Beckett (1963). Quartucci rifiuta subito l’impostazione naturalistica e sperimenta audacemente le possibilità sceniche di un uso astratto e formalizzato della parola come “comunicazione ritmica e fonetica”; considera la scenografia “architettura scenica del gesto” che interagisce con l’attore, il testo come spazio di lavoro. Arricchisce quindi la sua ricerca sulla lingua della scena con altri mezzi espressivi (cinema, video, nastro magnetico, radio, fotografia): così in Cartoteca di T. Rózewicz (1965) con studenti e gente di strada, nel collage La mucca parla a Pasquale (1966) con gli operai dell’Italsider di Genova, e in Zip Lap Lip Vap Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam alle prese con la società contemporanea da un testo di G. Scabia (Biennale di Venezia 1965) con dieci maschere e i suoi attori (tra gli altri L. de Berardinis, R. Sudano, C. Remondi).

Zip, primo tentativo di scrittura scenica a più mani, provoca il primo scontro tra artisti della sperimentazione e sostenitori della tradizione in Italia e segna il tentativo di collaborazione tra sperimentazione (Teatro studio di Quartucci) e teatro pubblico (lo Stabile di Genova diretto da Squarzina). Dopo il dispositivo scenico per stadi e piazze Majakovskij e compagni alla rivoluzione d’Ottobre (1967), I testimoni di Rózewicz (1968), il teatro in campo magnetico (l’opera radiofonica Pantagruele , 1969) ed elettronico ( Don Chisciotte per la televisione, 1970), e Il lavoro teatrale di R. Lerici (Biennale di Venezia 1969), nel 1972 ha inizio l’esperienza di `Camion’. Il termine indica nome del gruppo, mezzo di trasporto, luogo della performance, esigenza di lavoro collettivo e di rendere il pubblico partner attivo. Un decennio di eventi, che vedono l’importante contributo dell’attrice e coautrice Carla Tatò, e trovano testimonianza nei film per la tv Borgatacamion , Robinson Crusoe e Nora Helmer .

Del 1980 è Opera, trilogia teatrale e cinematografica. Nel 1981 Quartucci raduna a Genazzano (Roma) diversi artisti visivi, musicisti, scrittori, cineasti, e dà vita con C. Tatò, J. Kounellis, G. Paolini, R. Lerici, G. Celant, R. Fuchs al progetto artistico `La zattera di Babele’; obiettivo è una nuova lingua della scena attraverso l’interagire delle arti. Nascono così le creazioni, portate in tournée europee, Comédie italienne (1981), Didone e Funerale (1982). A Berlino nel 1984 sviluppa il progetto su Kleist e la sua Pentesilea con Canzone per Pentesilea (musiche di Giovanna Marini; già allestito a Bologna nel 1983), Rosenfest Fragment XXX e Nach Themiscyra (Vienna 1986).

Dal 1986 il progetto ‘Zattera di Babele’ si trasferisce a Erice in Sicilia, dove nasce il festival `Le giornate delle arti’, laboratorio permanente sui diversi linguaggi artistici. Nascono per le regie di Quartucci La favola del figlio cambiato (1987) e I giganti della montagna (1989) di Pirandello; Primo amore , `sinfonia scenica’ da atti unici di Beckett (1989); Il giardino di Samarcanda (presso il restaurato teatro Gebel Hamed, 1990); Tamerlano il Grande di Marlowe (Berlino 1991); Antigone di Sofocle, nell’adattamento di Brecht (Segesta 1991); Macbeth di Shakespeare (1992; seguito da Il cerchio d’oro dei Macbeth , `studio per un teatro scenico video-elettronico’, 1993); Ager sanguinis (1995) e Medea (1989 e ’98) di A. Pes. Nel 1998 nascono i progetti Il cerchio d’oro del potere e La favola dell’usignolo , che coinvolgeranno Quartucci e gli artisti di `La zattera di Babele’ fino al 2001.

Sassu

Dopo aver aderito al movimento futurista, la pittura di Aligi Sassu si evolve verso l’espressionismo con opere caratterizzate da un utilizzo fauve del colore. Nel dopoguerra partecipa alla fondazione del movimento Corrente, in opposizione alla cultura ufficiale. Dagli anni ’60, oltre a essere impegnato come illustratore, realizza le sue prime scenografie riportando in teatro il suo violento cromatismo e il lirismo della sua iconografia. Per il teatro ha realizzato scenografie e costumi per Il muro del silenzio (1961) al Teatro del Convegno di Milano, La giara (1962), balletto con coreografia di Luciana Novaro alla Scala, Cavalleria rusticana (1972) all’Arena di Verona, I vespri siciliani (1973), con Maria Callas e Giuseppe Di Stefano, al Teatro Regio di Torino, Carmen (1980) all’Arena di Verona e Canto generale (1983) al Teatro Comunale di Savona, di cui realizzò, oltre alle scene e ai costumi, anche le coreografie.

Veronesi

In sintonia con le proposte delle avanguardie razionaliste europee, dal Costruttivismo al Bauhaus, nel 1934 Luigi Veronesi espose, su sollecitazione di A.G. Bragaglia, due figurini in una mostra di scenografia a Milano. Da allora ideò vari lavori sperimentali rimasti allo stadio di progetti, ad esempio, per Balletto di G.F. Malipiero introdusse l’effetto bidimensionale con la proiezione di un film astratto sugli elementi scenici. Tra i lavori realizzati ricordiamo: Minnie la candida di R. Malipiero (1942), Histoire du soldat di Stravinskij (1981), Josephlegende di Strauss (1982) e Lieb und Leid su musiche di Mahler (1983).

Akimov

Dopo aver frequentato a Pietrogrado la scuola per scenografi diretta da M. Dobuzinskij e A. Jakovlev, Nikolaj Pavlovic Akimov lavora in vari teatri di Pietrogrado (dal 1924 Leningrado) firmando scenografie di grande originalità e di nitida precisione. Nel 1929 debutta nella regia con un dissacrante e contestatissimo Amleto (Teatro Vachtangov a Mosca), ricco di soluzioni grottesche e inattese. Dal 1935 al 1949 dirige a Leningrado il Teatro della Commedia, orientandosi verso un repertorio di qualità, con intelligente equilibrio tra classici e contemporanei (La dodicesima notte di Shakespeare, 1938; Il cane sul pagliaio di Lope de Vega, 1939; L’ombra di Švarc, 1940; L’isola della pace di Petrov, 1947). Dal 1951 al 1954 dirige il Teatro Lensovet, per poi tornare nel 1955 al Teatro della Commedia che dirige fino alla morte, continuando, accanto al lavoro di regista, quello di scenografo e di disegnatore (i suoi affiches sono nei maggiori musei teatrali della Russia): i suoi spettacoli hanno uno stile inconfondibile, dove la leggerezza si fonde con l’intelligenza e l’ironia; le sue scelte di repertorio, in anni di pesante reazione e di grigia uniformità, si segnalano per coraggioso anticonformismo (le ripetute messinscene di un autore emarginato come Švarc, o le riprese, sorprendenti per freschezza e attualità, di classici come Cechov, Suchovo-Kobylin, Saltykov-Šcedrin).

Neher

Allievo di A. Roller, dopo gli studi artistici Caspar Neher esordisce nel 1923 all’Opera di Berlino (dove conosce L. Jessner, con cui elabora nel 1927 un polemico e antimilitaristico Amleto di Shakespeare, con scene fuori dal tempo e costumi contemporanei e dimessi), facendo coincidere la sua attività giovanile con le esperienze più mature di alcuni tra i maggiori registi tedeschi. Con E. Engel ( Knock di J. Romains e Coriolano di Shakespeare: Berlino 1925) si occupa dei primi allestimenti delle opere di Brecht (celebre quello per L’opera da tre soldi , Berlino 1928): la sua capacità di conciliare clima drammatico ed essenzialità di mezzi caratterizza Nella giungla delle città (Berlino 1924), Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Lipsia 1930), L’anima buona di Sezuan (Monaco 1955); e Il signor Puntila e il suo servo Matti , La madre e Il precettore (con la regia dello stesso Brecht, Berlino 1950). Dedicatosi anche al teatro d’opera, lavora ad Amburgo (un angoscioso Macbeth di Verdi, immerso in cupe e immense foreste, 1942), a Vienna ( Ifigenia in Aulide di Gluck, con settecenteschi fondalini di tela e preziosi costumi dorati; 1942, regia di O.F.Schuh), alla Scala ( Parsifal di Wagner, 1948), al San Carlo di Napoli (celebre il Wozzeck di Berg, con la regia di E. Engel, 1953) e a Salisburgo ( Jedermann di Hofmannsthal, 1952; Don Carlos di Verdi, con la regia di G. Gründgens, 1959).

Clavé

Per molti anni Antoni Clavé si dedica all’illustrazione di libri per l’infanzia. Nel 1946 conosce Boris Kochno che gli chiede di progettare le scene di Caprichos , balletto di Ana Nevada per i Ballets des Champs-Élysées; da allora la sua opera si divide fra l’illustrazione e la scenografia per il balletto (Carmen, 1949; Ballabile, 1950; Déuil en 24 heures di R. Petit). Le scene e i costumi per il balletto del film Il favoloso Andersen di Christian Vidor (1952; coreografia di R. Petit) costituiscono invece la sua unica esperienza cinematografica. Le scene da lui progettate sono caratterizzate da un’estrema semplicità ed economia di mezzi: delle corde, alcune sedie, una porta bastano talora a suggerire un luogo, uno spazio, una situazione.

Clerici

Laureatosi in architettura all’università di Roma, negli anni ’40 Fabrizio Clerici iniziò la sua carriera di pittore e disegnatore. Con l’allestimento di La professione della signora Warren di G.B. Shaw iniziò l’attività di scenografo al Teatro Nuovo di Milano (1947). Orpheus di Stravinskij è il suo primo lavoro per il teatro musicale (Venezia 1948, coreografia di A. Milloss). Seguiranno diversi allestimenti per l’opera: Didone e Enea di Purcell all’Opera di Roma (1949, regia di A. Lattuada), Armida di Lulli al Maggio musicale fiorentino (1950, regia di A. Milloss), Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi al festival di Strasburgo (1951, coreografia di B. Gallizia). Alla Scala con L. Squarzina allestisce Sogno di una notte di mezza estate di Britten (1961) e l’ Orontea di Cesti (Piccola Scala, 1961), mentre con V. Puecher monta Turandot di Busoni (1962) e Alì Babà di Cherubini (1963). Disegna scene e costumi per i balletti Le creature di Prometeo di Beethoven (Colonia 1963, coreografia di A. Milloss), Dedalo di Turchi (Maggio musicale 1972, coreografia di A. Milloss), Marsia di Dallapiccola (Palermo 1973, coreografia di U. Dell’Ara). Grande conoscitore della storia dell’arte e delle teorie prospettiche, predilige lo stile e il gusto del Settecento, del barocco e delle arti antiche orientali.

Savinio

«La prima volta che misi piede in un teatro, avevo sì e no cinque anni. Ciò avveniva a Volo, in quell’antica Jolco che vide salpare gli Argonauti alla conquista del vello d’oro». Fu precoce la fascinazione di Alberto Savinio per il teatro: quando lasciò ancora ragazzo la patria adottiva greca, salpando per l’Italia con il fratello Giorgio De Chirico, il sognato approdo era la conquista della scena teatrale. A questa meta affinò le armi di musica e teatro; e se la sua versatilità lo indusse a cimentarsi anche nelle vesti di pittore e scrittore, ottenendo solidi riconoscimenti postumi, nell’ambito della produzione di prosa e per la danza un processo di rivalutazione critica è tuttora in corso. Gli esordi di S. compositore avvennero nella Parigi di Apollinaire e dei Ballets Russes.

Tra il 1912 e il ’13 vi scrisse tre balletti: Deux amours dans la nuit (inedito, forse la sua migliore partitura), Persée (soggetto di Fokine; rappresentato a New York, Metropolitan, nel 1924) e La morte di Niobe (allestito a Roma nel 1925, con scene di De Chirico, al Teatro d’Arte diretto da Pirandello). Poi intervenne una lunghissima pausa nella produzione ballettistica, interrotta solo da Ballata delle stagioni (Venezia, La Fenice 1925) e da un ultimo titolo su commissione di Aurelio Milloss, Vita dell’uomo (Roma 1948, Scala 1951). Agli anni ’20 risale invece la prima prova teatrale, Capitan Ulisse (1925, rappresentata nel 1938), le cui gravi difficoltà di allestimento, e l’esito alquanto contrastato della `prima’, tennero S. lontano dal teatro per un altro decennio. Seguirono Il suo nome (1948), La famiglia Mastinu (1948), Alcesti di Samuele (Milano, Piccolo Teatro 1950, regia di Strehler) e Emma B. vedova Giocasta (Roma, Teatro Valle 1952, interprete Paola Borboni che lo incluse nelle sue serate di monologhi fino al 1958).

Episodico ma denso fu il contributo di Alberto Savinio alla critica teatrale, che esercitò tra il 1937 e il ’39 sul settimanale “Omnibus” diretto da Leo Longanesi (contributo ora raccolto in volume con il titolo Palchetti romani), e concentrata in pochi anni fu l’attività di regista, scenografo e costumista per il teatro d’opera. Accanto alle scene e ai costumi per Oedipus rex di Stravinskij e I racconti di Hoffmann di Offenbach (Scala 1948 e 1949), di particolare riuscita e assai apprezzato risultò l’allestimento dell’ Armida di Rossini, di cui firmò anche la regia (Firenze, Maggio musicale 1952), che segnò una tappa non marginale nell’evoluzione del gusto della messa in scena del teatro lirico in Italia. Tanto nel teatro che nel balletto, S. aspirò a un dinamico `teatro metafisico’, di clima strettamente affine e complementare a quello suscitato da De Chirico con la spazialità sospesa della sua pittura. Egli mirò a intessere un dialogo intriso di scetticismo tra gli archetipi della mitologia greca, rivisitati con ironia assieme tagliente e affettuosa, e l’anticonformismo più iconoclasta delle avanguardie.

Ricorrente nei suoi testi è il desiderio, che lo approssima a Cocteau, di far scendere le figure degli statuari miti greci dai loro piedistalli perché affrontino, come strani angeli caduti per sbaglio sulla terra, le angustie delle banalità borghesi e quotidiane del nostro tempo. Permeato di uno spirito surrealista da lui originalmente rivisto, il suo teatro si gioca tutto sull’abile montaggio di umori eterogenei. Ora si vena di una razionalistica nostalgia del mondo classico; ora si apre a riletture in chiave psicoanalitica (come nel monologo Emma B. vedova Giocasta, in questi anni riproposto con la regia di E. Marcucci da Valeria Moriconi); o ancora, è capace delle inaspettate cadenze di un malinconico esistenzialismo, il cui sguardo si posa a scrutare con vigile distacco tra le pieghe più dolorose della quotidianità.

Zuffi

Dopo aver vissuto fino al 1951 a Parigi dedicandosi alla pittura, Piero Zuffi decide di tornare in Italia grazie al fortuito incontro con Strehler, che gli affida l’allestimento di un Macbeth (Piccolo Teatro, 1951), con abiti corposi e pesanti che trasformano gli stessi attori in elementi scenici. È il primo episodio di una fortunata collaborazione che prosegue con Giulio Cesare (1952), dalle luminose scene ad arcate aperte. Affermatosi con uno stile architettonico, dalle strutture fisse che seguono l’azione con rapidi cambiamenti a vista, allarga la sua attività al teatro d’opera, curando per l’Arena di Verona un’Aida (1958) dal verticalismo strutturale, caratterizzata dalla presenza di un’enorme Sfinge, memoria di un Egitto divorato dalla sabbia e dissepolto; e un Lohengrin di Wagner (1963), dalla suggestiva foresta che si dilata a gradoni, con un intrico di radici e rami intrecciati. Stabilisce un legame particolarmente proficuo con il regista G. Albertazzi: di rilievo il baroccheggiante Antigone Lo Cascio di G. Gatti, 1963, dai pomposi interni ispirati ai palazzi baronali siciliani. Zuffi si dedica anche al cinema (La notte di M. Antonioni, 1961, Orso d’oro a Berlino) e alla regia mettendo in scena Un ballo in maschera (Arena di Verona, 1986) in cui, nel terzo atto, gli splendidi costumi settecenteschi di seta si accendevano di riflessi sotto il brillìo di una luminosissima ambientazione.

Roller

Conclusi gli studi, Alfred Roller conosce nel 1902 G. Malher e decide di dedicarsi al teatro. L’anno seguente diventa direttore dell’allestimento scenico dell’Opera, ma la svolta decisiva è l’incontro con M. Reinhardt (Edipo e la Sfinge di Hofmannsthal, Berlino 1906), che segna l’inizio di una felice collaborazione e avvia uno stile destinato a modificare i confini tradizionali dello spazio teatrale grazie a un caratteristico ‘realismo semplificato’. Dopo un Don Giovanni di Mozart (Vienna 1906) che introduce le celebri `torri-Roller’ (due elementi scenotecnici verticali che incorniciano la scena permettendo cambi veloci senza turbare l’unità complessiva dello spettacolo), fortunatissimi un Faust (Berlino 1909), in cui il prologo si svolge quattro metri più in alto del palcoscenico; un Cavaliere della rosa di R. Strauss (Dresda, Opera, 1911) dalla chiara articolazione architettonica e ricchezza decorativa, con abiti luminosi di seta, raso e broccato; una Donna senz’ombra di R. Strauss (Vienna 1919), ambientata in un Oriente fiabesco; e un Macbeth di Shakespeare (Vienna 1927) dai rapidi cambiamenti a scena aperta, immerso in un’atmosfera da incubo. Sul valore simbolico e suggestivo della luce e del colore è basato in effetti il linguaggio espressivo dell’artista, affinato nelle ultime opere (Ifigenia in Aulide di Gluck, Salisburgo 1930; Parsifal di Wagner, Bayreuth 1934; Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Vienna 1935).

Carluccio

Diplomatosi presso l’Accademia di Brera, dal 1983 Giovanni Carluccio collabora con il teatro della Piccola Commenda di Milano; fra i testi più importanti qui allestiti, la prima rappresentazione italiana di Quartett di H. Müller e, dello stesso autore, Filottete (1985) con la regia di F. Ambrosini. Collabora con musicisti contemporanei, che lo portano alla progettazione di vere e proprie `scritture sceniche’ inedite; ne sono un esempio In limine da J. Tardieu (Milano, Crt 1988) e Frau Frankenstein di G. Battistelli (Berlino 1993). Le ultime stagioni lo hanno visto impegnato al Piccolo Teatro di Milano per la rappresentazione di Il caso Kafka di R. Andò e M. Ovadia (1996) e Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di L. Sepúlveda, regia di W. Pagliaro (1997).

Ercolino

Tobia Ercolino inizia la carriera con l’elaborazione collettiva dell’allestimento di Sulla via di San Michele (Firenze 1978), che gli consente di collaborare con A. Savelli in Amato mostro di J. Grass da J. Tomeo (Firenze, Teatro di Rifredi 1991), La cortigiana di P. Aretino, costumi di Massimo Poli (Arezzo 1992), Gian Burrasca, un monello in casa Stoppani di A. Savelli (Teatro di Rifredi 1993). Un’altra importante collaborazione è con Chérif, per il quale cura alcuni fortunati allestimenti, da Piccola Alice di E. Albee (Roma 1988) a Improvvisamente l’estate scorsa di T. Williams (Bologna 1991), un neoclassico interno-esterno coloniale che ottiene il premio Ubu 1991 per la migliore scenografia. Di recente ha lavorato anche con M. Castri in Elettra di Euripide (1990); con U. Chiti in Clizia di Machiavelli (1991); con A. Nogara, risolvendo, con un interessante costume-scena in cui si intravedono soltanto le labbra rosso rubino e i denti bianchissimi della protagonista, dipinta e vestita di nero, il Non io di Beckett (1992); con G. Solari in La musica in fondo al mare di M. Confalone (Milano 1994) e con G. Tedeschi in Enrico IV di Pirandello (Roma 1995).

Pizzi

Dopo aver frequentato la facoltà di architettura Pierluigi Pizzi inizia la sua carriera nel 1951 al Teatro Stabile di Genova. Nel 1957 incontra il regista G. De Lullo con il quale instaura una intensa collaborazione destinata a protrarsi negli anni successivi, nell’ambito del teatro di prosa e lirico. Collabora con De Lullo alla Compagnia dei Giovani allestendo numerosi spettacoli tra cui La notte dell’Epifania di Shakespeare (Verona 1961), e nel 1963 il memorabile Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e Il malato immaginario di Molière al Festival di Spoleto, dove conferma il fertile sodalizio con G. De Lullo e R. Valli. Per il teatro d’opera realizza numerosi spettacoli, tra cui l’ Alceste di Gluck (Maggio musicale fiorentino 1966), I vespri siciliani di Verdi, entrambi per la regia di De Lullo (Teatro alla Scala 1970). Interessante è la collaborazione con L. Ronconi, per il celeberrimo Orlando furioso nel 1969 e in seguito per discussa edizione del Ring wagneriano. Le sue scenografie raffinate ed eleganti costruiscono un discorso visuale tendente al preziosismo; gli oggetti di scena diventano parte essenziale della scenografia, sino a determinarne l’essenza.

Debutta come regista nel 1977 con il Don Giovanni di Mozart (Teatro Regio di Torino). Una segnalazione particolare meritano il suo interesse e la sua passione per la messinscena di opere barocche: un percorso iniziato con l’ Orlando furioso di Vivaldi (Verona, Teatro Filarmonico 1978) e sviluppato con la Semiramide (Aix-en-Provence 1980) e il Tancredi di Rossini (Festival di Pesaro 1982). In questi allestimenti predomina il colore bianco nella scenografia; la plasticità e i costumi, costruiti come forme e volumi (colonne, capitelli), si accostano e si integrano nell’architettura di scena, per la sintesi nel dettaglio e la scelta cromatica. La sua attività di regista scenografo e costumista si sviluppa negli anni ’80 producendo interessanti spettacoli, dove lo stile barocco viene esaltato nelle sue caratteristiche linee decorative, ottenendo impianti scenici di estremo rigore architettonico, a volte usando macchine e trucchi teatrali tipici del teatro sei-settecentesco. Tra le sue produzioni Ippolito e Aricia di Rameau (Festival di Aix-en-Provence 1983), Ariodante e Rinaldo di H&aulm;ndel (Parigi, Teatro Châtelet 1985), Alceste di Gluck (Roma, Teatro dell’Opera 1985), La passione secondo san Giovanni di Bach (Venezia, Teatro la Fenice 1984), Armide di Gluck come apertura di stagione al Teatro alla Scala (1996). Collabora frequentemente con il Rossini Opera Festival a Pesaro; tra le sue messinscene ricordiamo Mosè in Egitto (1983), Comte Ory (1984), Maometto II (1985), Guglielmo Tell (1996). Il suo stile eclettico e personale si integra anche con il melodramma ottocentesco, come Capuleti e Montecchi (1987), I vespri siciliani (1990), entrambe al Teatro alla Scala, Don Carlos (Maggio fiorentino 1989). Inaugura il Teatro dell’Opéra-Bastille di Parigi con Les Troyens di H. Berlioz.

Benois

Figlio di Alexandr Benois e discendente da una famiglia di artisti e musicisti, Nicola Benois iniziò l’apprendistato nel teatro con Oreste Allegri, capo scenografo dei Teatri imperiali di Pietroburgo. Realizzò i primi bozzetti per il Teatro Accademico del Dramma, dove esordì nel 1921 con le scene per I giganti del Nord di Ibsen, il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, e nel 1922 con il Giulio Cesare. L’anno seguente collaborò al Teatro Accademico dell’Opera del Ballo con le scene per Le quattro stagioni di Glazunov. Nel 1924 si stabilì a Parigi, dove incontrò il regista Alessandro Sanine che propose al direttore artistico della Scala, Arturo Toscanini, il giovane Nicola Benois per Chovanšcina di Musorgskij della stagione 1925-26. Da allora gli impegni di scenografo lo porteranno sul palcoscenico del teatro Colón di Buenos Aires e alla Staatsoper di Berlino (1926); per cinque anni lavorerà al Teatro dell’Opera di Roma. Quando, nel 1937, venne nominato direttore dell’allestimento scenico del Teatro alla Scala, incarico che mantenne fino al 1970, iniziò la fase più intensa della sua carriera artistica: oltre centoventi spettacoli tra opere e balletti. Sostanzialmente legato al linguaggio tradizionale del teatro lirico, specie nelle opere considerate storiche, giunse in altri lavori a esprimere la sua vena poetica di realismo magico. Fu fedele a una resa scenica di precisione storica nelle scene architettoniche di interni e di esterni: così in Anna Bolena di Donizetti (1956) o in Rigoletto (1961) e Trovatore (1964) di Verdi, o nella Tosca di Puccini (1958). E divenne il giocoso interprete del folclore slavo in Pierino e il lupo di Prokof’ev (1949) o in Petruška di Stravinskij (1952). Così come fu il fantasioso autore di una Turandot di Puccini (1958) dove draghi e pagode mostrano un ‘japonisme’ filtrato da una visione espressionista o secessionista, e si rivelò il bizzarro creatore dei costumi per Mefistofele di Arrigo Boito (1964) o il visionario sognatore di Ifigenia in Aulide di Gluck (1959). In qualità di direttore dell’allestimento scenico del Teatro alla Scala, introdusse innovazioni come il palcoscenico meccanico con pannelli e ponti mobili progettato da Luigi Lorenzo Secchi in sostituzione del palco fisso, promosse una scuola di pratica scenografica e una sartoria autonoma all’interno del teatro. Chiamò a collaborare alla Scala, nella veste di scenografi, pittori come de Chirico, Savinio, Prampolini, Sironi, Fontana, Carrà e Casorati.

Bertacca

L’inizio con Scandella, Luzzati e Guglielminetti apre a Uberto Bertacca le porte del Teatro delle Novità di Lualdi e, dopo le prestigiose collaborazioni con L. Ronconi (Riccardo III, 1968 e Orlando furioso , 1969), lavora per i Teatri stabili di Torino e di Bolzano, poi con L. Squarzina, W. Pagliaro, M. Parodi, P. Quartullo e M. Bolognini. Stabilisce un intenso legame con P. Garinei (Chi fa per tre di R. Cooney e T. Hilton, 1992; Gli uomini sono tutti bambini di E. Vaime, 1994; Riuscire a farvi ridere di Terzoli, Vaime e Verde, 1996) e con G. Sepe (Casa di bambola di Ibsen, 1990; Pazza di T. Topor, 1992; Macbeth al Teatro Romano di Verona, 1994), firmando, tra gli altri, un discusso Processo a Gesù di D. Fabbri (festival la Versiliana, 1990), e un fortunato Edipo re di Sofocle (Siracusa 1992), dove tra i ruderi di una città in rovina si alzano barriere di specchi e plexiglass. Un’altra importante collaborazione è con A. Corsini (Pantalone impazzito di F. Righelli a Polverigi, 1981; Amleto in salsa piccante di Aldo Nicolaj, 1991; Panni sporchi show di Bagnasco e Corsini, 1992), per il quale recentemente cura un felice Il giardino dei ciliegi di Cechov (1995), confermando uno stile che si affida all’invenzione più che alla ricerca storica.

Cauteruccio

Protagonista del rinnovamento del teatro contemporaneo, Giancarlo Cauteruccio è riconosciuto in ambito nazionale ed estero per la sua ventennale attività artistica nei diversi campi della comunicazione. I suoi studi in architettura hanno fortemente segnato un approccio al teatro come spazio da strutturare con la luce e con il suono. Fondatore a Firenze del gruppo Il Marchingegno (1977) e poi insieme a Pina Izzi del Gruppo Multimediale Krypton (1982), l’artista calabro ha pionieristicamente creato spettacoli teatrali affidati talvolta completamente a elementi visuali (monitor, laser, neon) in spazi virtuali. Con Krypton ha realizzato anche ambientazioni e installazioni in spazi urbani, opere di teatro musicale, collaborando con Franco Battiato, Salvatore Sciarrino, Giusto Pio e Litfiba, e produzioni video (Corpo, premio Utaré; Centro Videoarte Ferrara, 1982). Ha inoltre svolto attività didattica in Italia e negli Usa. Come direttore artistico del Teatro Studio di Scandicci (dal 1992) ha curato la regia di L’ultimo nastro di Krapp (1991) di Samuel Beckett, prima tappa della trilogia dedicata all’autore irlandese seguita successivamente da Giorni felici (1995) e da Finale di partita (1998) tradotto in dialetto calabrese. Questo ultimo spettacolo (che lo ha visto anche interprete nel ruolo di Hamm accanto al fratello Flavio) ha riscosso unanimi consensi di pubblico e di critica, sia per la geniale regia che ha sfruttato appieno tutta la sua esperienza multimediale, ma anche per la felice coniugazione tra tessuto verbale e una fortissima carica gestuale.

Luzzati

Emanuele Luzzati ha studiato a Losanna alla École des beaux arts e des arts appliqueès. Inizia l’attività di scenografo collaborando con A. Fersen per Salomone e la regina di Saba (1945) e inaugurando, sempre con Fersen, la sala Eleonora Duse al Teatro stabile di Genova con L’amo di Fenisia di Lope de Vega e il Volpone di Jonson. Come illustratore pubblica in questi anni il suo primo libro per bambini I paladini di Francia . Questo amore per le illustrazioni di libri per l’infanzia si trasmette sulla scena dove i personaggi e le ambientazioni teatrali sono trasformati in immagini straordinariamente creative che appartengono a un mondo fiabesco. A partire dal Flauto Magico di Mozart, realizzato al Festival di Glyndebourne per la regia di F. Enriquez (1978), sviluppa una preferenza verso l’opera buffa. Con Il Turco in Italia (1983) inizia la sua collaborazione al Rossini Opera Festival di Pesaro, dove fra l’altro realizza La scala di seta per la regia di M. Scaparro (1987). Nell’ambito della prosa si dedica alla progettazione scenografica di commedie: ne sono un esempio La donna serpente di C. Gozzi, regia di E. Marcucci (Teatro stabile di Genova 1979) e, per la regia di De Bosio, La Piovana del Ruzante (Venezia 1987) e La Mandragola di N. Machiavelli (1989). Fonda nel 1976 il Teatro della Tosse con A. Trionfo e T. Conte, con i quali collaborerà a numerosissimi spettacoli. Con la messinscena di Ubu re di Jarry (1976), per la regia di T. Conte, inaugura il nuovo spazio teatrale, dove nel 1983 apre e dirige la scuola di scenografia. Nel corso della sua carriera di scenografo affronta anche la progettazione scenica di opere del teatro musicale del ‘900: Il sogno di una notte di mezza estate di Britten (English Opera Group 1976) con la regia di C. Graham; La tarantella di Pulcinella , musica di G. Negri, testo di Luzzati (Piccola Scala di Milano 1974). Per l’Aterballetto di Reggio Emilia collabora alla messinscena dei balletti L’istoire du soldat di Stravinskij (1982), Coppelia di Delibes entrambi con la coreografia di A. Amodio. Fra i suoi ultimi allestimenti, L’asino d’oro da Apuleio regia di P. Poli (1994). In L. l’invenzione della scena si sviluppa attraverso il gioco drammaturgico di pedane, piattaforme, trabocchetti, stoffe dipinte che esprimono, con la loro precarietà, il senso dell’effimero in teatro e l’illusione fantastica. Il segno grafico pittorico di L. diventa il motivo conduttore di tutti i suoi originali spettacoli. I suoi bozzetti realizzati attraverso collage di carta, dipinti e disegnati con estro di artista, ci permettono di entrare in quella scatola magica che è il suo teatro fantastico e personale.

Tommasi

L’attività di Paolo Tommasi inizia collaborando con il Piccolo Teatro di Milano. In seguito firma i costumi e le scene per numerosi spettacoli di prosa e lirica con Giancarlo Cobelli, a partire dalla progettazione dei costumi per La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux 1972), La bugiarda di Diego Fabbri 1978, scene e costumi), Turandot di Carlo Gozzi (Venezia 1981), Antonio e Cleopatra di Shakespeare (Estate teatrale veronese 1988), Parenti terribili di J. Cocteau (1991), in cui il disagio del quintetto dei personaggi è determinato dalla perfezione di una struttura costruita su scene conchiuse quasi autosufficenti. Sempre per la prosa progetta scene e costumi per L. Squarzina, tra cui Tramonto di R. Simoni (1981), Timone d’Atene di Shakesperare (1983) e per W. Pagliaro al festival di Spoleto 1990 cura l’allestimento per La cagnotte di E. Labiche. Tommasi trasforma la scena in una scalinata di pietra, rinchiusa in una sorta di tempio medioevale con una serie di scale che si inerpicano verso il niente in A porte chiuse di Sartre (Gubbio 1990). Nelle produzioni scenografiche per il melodramma con la regia di G. Cobelli citiamo Il sacrificio di Lucrezia di B. Britten (Napoli 1989), La locandiera di Salieri (Lugo 1989), Vite immaginarie di G. Di Leva e M. Tutino 1991), in cui l’orchestra in palcoscenico è sormontata da un grande oblò, luogo di apparizioni fantastiche di splendide luminosità e coloriture, e a Genova l’avvincente messinscena di Salome di R. Strauss (1996).

Schleef

Compiuti gli studi a Berlino est, Einar Schleef debutta nel 1972 con una sua scenografia per Don Gil dalle calze verdi di Tirso de Molina alla Volksbühne, ottenendo un immediato successo e il premio della Critica. Tra il 1972 e il 1975 fa sensazione la sua collaborazione con il regista B.K. Tragelenn, con il quale dirige, oltre a realizzare le scenografie, opere come Risveglio di primavera di Wedekind e La signorina Julie di Strindberg . Nel 1975 mette in scena al Kindertheater di Dresda Il pescatore e sua moglie , tratta da Grimm. In seguito lavora ancora a Berlino alla Komische Oper, alla Staatsoper e al Deutsches Theater. Dopo il 1976 si trasferisce a Berlino ovest e si dedica alla scrittura; tra i suoi testi più noti è Gertrud, mostruoso monologo di una madre del 1980.

Nel 1986 mette in scena a Francoforte una sconvolgente Mütter, tratta da Euripide e Eschilo e, due anni dopo la commedia Die Schauspieler. Nel 1987, a Spoleto, presenta Die Nacht, da Mozart. Altre sue messe in scena a Francoforte, sempre oggetto di animate discussioni, sono: Prima dell’alba di Hauptmann, nel 1987 e il Faust di Goethe nel 1990. Un vero scandalo solleva il modo in cui, nel 1993 al Berliner Ensemble, realizza Wessis in Weimar di R. Hochhuth, il quale da tale realizzazione prende pubblicamente le distanze. È stato rilevato come i lavori di S. possano essere visti come ritratto autobiografico in cui si riflette l’esperienza storica contemporanea della Germania.

Damiani

Luciano Damiani si diploma all’Accademia di belle arti di Bologna. Le prime esperienze scenografiche (1948) avvengono presso il Centro universitario teatrale di Bologna. Negli anni ’50 inizia un fertile periodo artistico con il Piccolo Teatro di Milano, realizzando Il cammino sulle acque di O. Vergani per la regia di Strehler, con il quale collabora assiduamente fino alla fine degli anni ’70. Fra i suoi spettacoli più celebri: El nost Milan di Bertolazzi (1954-55), L’anima buona di Sezuan di Brecht (1961), Vita di Galileo di Brecht (1961-62), Le baruffe chiozzotte di Goldoni (1964), Il giardino dei ciliegi di Cechov (1973-74), Il campiello di Goldoni (1975), La tempesta di Shakespeare (1975). Lavora con Strehler anche per il teatro musicale, inaugurando nel 1954 la Piccola Scala di Milano con il Matrimonio segreto di Cimarosa e allestendo spettacoli lirici fortunatissimi come Il ratto dal serraglio di Mozart (Salisburgo 1964), L’amore delle tre melarance di Prokof’ev e Macbeth di Verdi (Teatro alla Scala 1975). Le elaborazioni sceniche costruite da D. fanno parte della drammaturgia del testo. Nelle sue scenografie vi è l’esempio di come lo spazio visuale può ritmare e accompagnare il tempo musicale. La scena non è mai didascalica o illustrativa ma evoca attraverso citazioni stilistiche il periodo storico dell’opera teatrale. D. stravolge l’uso del palcoscenico inteso come impianto scenico all’italiana, invade la platea con veli o accenni architettonici, creando nuovi spazi, usando il vuoto come poesia della messinscena: «Le mie più belle scenografie sono fatte di silenzi». Collabora con importanti registi come V. Puecher, L. Squarzina, F. Enriquez, J. Vilar e L. Ronconi, con il quale progetta gli spettacoli: Gli uccelli di Aristofane (1975) e Orestea di Eschilo (1976) al Burgtheater di Vienna. Sempre con la regia di L. Ronconi realizza Don Carlos di Verdi (Scala 1977) ed elabora le scene per The Fairy Queen di Purcell (Maggio musicale fiorentino 1987). Nel 1996 inaugura un nuovo spazio teatrale, il Teatro Documenti, con La morte innamorata di F. Glissenti e Amor nello specchio di G. Andreini per la regia di L. Ronconi. D. giunge allo studio dello spazio teatrale tramite una serie di disegni e schizzi preparatori, che documentano l’evoluzione creativa e analitica del lavoro di progettazione e realizzazione. Adotta soluzioni innovative per le luci, i costumi, le scenografie, introducendo materiali nuovi. Nel corso della sua carriera si dedica alla riorganizzazione contrattuale della figura dello scenografo bozzettista come lavoratore dello spettacolo. Riceve numerosi premi e riconoscimenti, tra cui la Maschera d’argento 1996 per il teatro.

Guglielminetti

Eugenio Guglielminetti si forma all’Accademia Albertina di belle arti di Torino, dove entra in contatto con la scuola pittorica di Felice Casorati. Esordisce in teatro nel 1946, con spettacoli a carattere sperimentale presso il circolo culturale `La giostra’ di Asti. La sua attività professionale ha inizio nel 1953, progettando le scene per l’ Antigone di Alfieri in collaborazione con il regista G. De Bosio, con il quale continuerà a sviluppare e ideare nuove forme sceniche per le tragedie di Alfieri. Ricordiamo anche, nelle sue produzioni per il Centro nazionale studi alfieriani di Asti, il Saul con la regia di F. Enriquez (1954). Influenzato dalle concezioni teoriche di scenografi tedeschi degli anni ’30 e dalle esperienze sceniche costruttiviste e dadaiste, Eugenio Guglielminetti usa lo spazio del palcoscenico con un estremo rigore di ritmi espressivi architettonici: prediligendo l’impianto fisso, interviene con strutture mobili-dinamiche e praticabili, sino a coinvolgere l’intera gabbia scenica. L’attività artistica d iEugenio Guglielminetti si divide tra la ricerca pittorica e la ricchissima produzione di scenografie e costumi per prosa, lirica, balletto e televisione.

Per il teatro di prosa citiamo l’ Elettra di Sofocle per la regia di E. Fenoglio (Teatro Olimpico di Vicenza, 1961), dove i bozzetti dei costumi, impreziositi da una ricerca fra cromatismo e materia (un mélange di carta, stoffa e tempera), costituiscono un esempio di qualità autonoma della pittura, e il Macbeth di Shakespeare con la regia di T. Buazzelli (Teatro San Babila, 1966). Elabora la messinscena televisiva per Le uova fatali di Bulgakov con la regia di Gregoretti, memorabile produzione del 1976. La sua evoluzione pittorica ha sempre influenzato le sue scelte scenografiche, come nell’ Italiana in Algeri di Rossini con la regia di U. Gregoretti (Torino, Teatro Regio 1969), dove allestisce il gioco della macchina scenica come fantasiosa invenzione, o nella Forza del destino di Verdi con la regia della Wallmann (Berlino, Deutsche Oper 1970). Anche nell’interessante progetto per il balletto La boutique fantasque di Respighi con la coreografia di L. Furno (Torino, Teatro Nuovo 1982) vi è l’influenza artistica del neodadaismo alla Tinguely, nell’assemblare materiali e forme inconsuete usate con fantasia ed estro creativo. G., un pittore a teatro, esterna la sua creatività mediante forme espressive pittoriche, con il timbro dei suoi colori quasi metafisici e la policromia astratta dei suoi collage per i bozzetti.

Tosi

Piero Tosi studia all’Accademia di belle arti di Firenze sotto la guida di Ottone Rosai. Al Teatro sperimentale di Palazzo Pitti ha inizio la sua carriera di costumista con lo spettacolo Il candeliere di De Musset per la regia di F. Enriquez (1947). Lavora come assistente di Maria de Matteis realizzando i costumi e l’attrezzeria di Troilo e Cressida di Shakespeare con la regia di L. Visconti (Firenze, giardino di Boboli 1949). Debutta nel cinema con lo stesso regista disegnando i costumi per il film Bellissima (1951), dando luogo a una lunga e fertile collaborazione che lo porterà a firmare i costumi di molti film di Visconti (Il gattopardo, La caduta degli dei, Ludwig, ecc.) e di moltissime sue creazioni teatrali. Tra cui: La locandiera di Goldoni (Festival internazionale della prosa, Venezia, Teatro La Fenice, 1952, costumi), Zio Vanja di Cechov (Teatro Valle di Roma, 1955); per la lirica La sonnambula di Bellini (Scala, 1955), il Macbeth di Verdi (Festival di Spoleto, 1958, scene e costumi) e Manon Lescaut di Puccini (Festival di Spoleto, 1973, costumi).

Questi spettacoli hanno lasciato un segno nella storia del teatro europeo rivoluzionando la concezione tradizionale della messinscena. Particolarmente interessante la sua ricerca figurativa, che partendo da un attento studio filologico dell’epoca storica (taglio storico dell’abito, ricostruzione di particolari decorativi ed accessori) riesce a filtrare soluzioni e creare costumi di invenzione con una coerenza stilistica affatto originale. Ricordiamo altre importanti produzioni nelle quali Tosi ha partecipato come costumista: Beatrice di Tenda di Bellini (Palermo, Teatro Massimo, 1959) con la regia di Enriquez, Euridice di Peri (Maggio musicale fiorentino 1960) e La Bohème di Puccini (Opera di Roma, 1992) entrambi con la regia di Zeffirelli. Inoltre Il pirata di Bellini (Firenze, Teatro Comunale, 1967), Tosca di Puccini (Opera di Roma, 1990), Don Carlo di Verdi (Teatro La Fenice, 1991) tutti per la regia di Bolognini. Sempre il suo talento e il suo lavoro minuzioso ricco di dettagli gli ha permesso di raggiungere esiti sorprendenti, facendo rivivere un’epoca e non soltanto portandola in scena.

Taddei

Pur formatosi nell’ambito della pittura e delle performing arts, Andrea Taddei debutta collaborando ad opere musicali. La prima regia che firma (1981) è La Teresina, opera per interpreti bambini di Filippo Hazon. In quello stesso anno, con Carlo Bacilieri e Emanuela Ligabue fonda Padiglione Italia, nei cui allestimenti mette in luce un gusto per il catalogo e il disorientamento spaziale (un tavolo da biliardo per le azioni di Verdi sponde , 1982; l’interno di una serra per Le piante , Biennale di Venezia, 1984), accompagnato da quella pulsione verso un effimero cui dà sfogo anche nelle serate `enfatiste’ in gallerie d’arte e esibizioni collettive.

La sua ricerca si fa più scanzonata via via che le composizioni del gruppo si traducono in opere vere e proprie (Serenatassira, Santarcangelo 1985) ed egli si assume l’intera responsabilità di spettacoli astutamente citazionisti, come Pigmalione – numero zero (1989), in cui smonta il mito, accumulandone i remake in una parodia colta e kitsch allo stesso tempo. Si intensificano intanto le sue collaborazioni con I Magazzini (è tra gli interpreti di Hamletmaschine di Heiner Müller), con Dario Marconcini e Paolo Billi, e gli interventi decorativi, architettonici e teatrali assieme a Marco Mencacci.

Alla rilettura di Motel di Claude van Itallie (‘masque per tre fantocci’ presentato nella rassegna `Utopia americana’ del 1992 a Torino), i due fanno seguire la divagante trilogia di un monologo teatral-gastronomico (Gloria, 1992) e di un esercizio di stile ascetico (Le tentazioni di Toni, 1993) chiusi dalla ripresa di Pigmalione (atto terzo) in una nuova versione. Coronato da un premio Ubu 1993 per la scrittura drammaturgica, Taddei recupera volentieri il ruolo di scenografo e costumista, spesso per Theatrid’Ithalia (Alla greca, Roberto Zucco) ma anche per attrici quali Mariangela Melato, Valeria Moriconi, Manuela Kustermann, riservandosi lo spazio di una regia all’anno, come per il pirandelliano Berretto a sonagli del 1996, e per una Bisbetica domata, affidata a interpreti maschili, nel 1997.

Frigerio

Ezio Frigerio studia architettura al Politecnico di Milano e inizia la collaborazione con il Piccolo Teatro nel 1955 come costumista per alcuni spettacoli di G. Strehler, tra cui La casa di Bernarda Alba di F. García Lorca e L’Opera da tre soldi di Brecht (1956). Dopo un breve periodo in cui lavora nel cinema, diviene dal 1956 collaboratore stabile di G. Strehler realizzando le scene di moltissimi spettacoli memorabili. Ne sono un esempio I giganti della montagna (1966), Santa Giovanna dei macelli di Brecht (1970), Re Lear (1972), il Temporale di Strindberg (scene 1980), La grande magia di E. De Filippo (scene 1985), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (scene sia nel 1973 che nel 1987), tutti allestiti al Piccolo Teatro; per il Teatro d’Europa cura le scene dell’ Illusion Comique di Corneille (Parigi, Tèatre Odéon, 1984). Nelle sue realizzazioni Frigerio propone spazi articolati con grande genialità teatrale che si sviluppano (come nel Temporale ) su vari piani, usando nel contempo materiali nuovi come la plastica specchiantetrasparente e il perspex, raggiungendo inediti contrasti drammatici. Nel teatro di prosa svolge la sua intensa attività partecipando a produzioni di grande rilievo con i registi W. Pagliaro, V. Puecher, N. Espert per La casa di Bernarda Alba (Londra 1987), Planchon per L’avaro di Molière (Parigi 1988), M. Sciaccaluga per I Fisici di Dürrenmatt (Teatro di Genova, 1990). Particolarmente importanti sono le sue creazioni per il teatro d’opera per il quale collabora con istituzioni e registi di fama internazionale, tra cui ancora una volta G. Strehler per Simon Boccanegra (1975) e Falstaff (1980) di Verdi, Lohengrin di Wagner (1981), dove vi è una visione geometrica dello spazio scenico gestito attraverso imponenti colonne che danno forza e spinta verticale all’immagine visiva, Don Giovanni (1987) e, sempre alla Scala, un magico Nozze di Figaro (1981) di Mozart. Qui ricostruisce l’idea di un mondo settecentesco – di un teatrino – dove la luce che penetra dalle grandi finestre disegna e delimita uno spazio ovattato e suggerisce le atmosfere soffici dell’azione.

I materiali scenici lievemente patinati con colori pastello, danno insieme ai costumi la sensazione di una società in liquidazione. Inoltre con L. Cavani all’Opera di Parigi cura la messinscena di Medea di Cherubini (1986), e al Teatro alla Scala di Milano per L. Ronconi Ernani di Verdi (1982), con N. Espert Elektra di Strauss (Teatro de La Monnaie Bruxelles, 1987). Nel campo ballettistico collabora con R. Petit, B. Menegatti, Grigorovic e con R. Nureyev porta in scena Romeo e Giulietta di Prokof’ev (Teatro alla Scala Milano, 1979). Con Così fan tutte di Mozart, ultimo spettacolo firmato da G. Strehler, Frigerio termina una lunga e fertile collaborazione che ha dato una importante impronta alla sua carriera (Nuovo Piccolo Teatro, 1998). Scenografo eclettico lavora anche per il cinema, dove ottiene la nomination per l’Oscar 1991 con Cyrano de Bergerac. Grande professionista, egli interpreta lo spazio teatrale attraverso raffinatezze compositive e ricostruzioni geometriche realizzate usando elementi architettonici (colonne che diventano per un periodo la sua cifra stilistica e sintesi decorativa barocca) e inganni prospettici. Si documenta attraverso la ricerca figurativa nell’arte, sapendo poi proporre con abilità spazi, colori e atmosfere di magica bellezza.

Wajda

Andrzej Wajda compie gli studi dapprima all’Accademia di belle arti di Cracovia, poi alla Scuola superiore di cinema di Lódz. Dirige il Teatr Wybrzeza di Danzica e il Teatr Stary di Cracovia. Esordisce nella regia di un’opera teatrale nel 1959, con Un cappello pieno di pioggia da M.V. Gazo, quando è oramai un affermato regista cinematografico. Tra le prime regie, da ricordare quella di Le nozze per lo Stary Teatr di Cracovia (1963), per le conseguenze che avrà nella successiva attività cinematografica e teatrale di W. questo primo incontro con Wyspianski. Dopo lo scarso successo ottenuto con I diavoli di Whiting nello stesso anno, Wajda abbandona il teatro, per farvi ritorno nel 1971 con un adattamento dei Demoni di Dostoevskij. Completa la sua trilogia dostoevskiana con l’improvvisazione Nastazja Filipowna (1977), Delitto e castigo (1984) e Nastazja, da L’idiota (1988), versione definitiva del precedente studio del 1977.

Dai primi anni ’70 W. affianca l’attività teatrale a quella cinematografica, adattando per lo schermo spettacoli precedentemente diretti sul palcoscenico: Le nozze nel 1972, L’affaire Danton (da Stanislawa Przybyszewska, 1975; adattamento cinematografico: Danton) nel 1982, I demoni nel 1986, Nastazja – con l’attore giapponese Tamasaburo Bando nel doppio ruolo di Nastasja Filipovna e del principe Myskin – nel 1996. Vastissimo il repertorio delle regie teatrali di W., che spaziano da Sofocle (Antigone, 1984) a Mrozek (Emigranti, 1976), da Shakespeare a Dürrenmatt (Der Mittmacher , 1973), con una prevalenza di autori moderni: An-ski, Buero Vallejo, Rabe, Strindberg, Mishima, Rózewicz. Alcune messe in scena del regista di L’uomo di marmo sono state considerate autentici avvenimenti culturali.

Una di queste fu Notte di novembre (da Wyspianski, 1974): Wajda ha saputo cogliere il carattere di lamento sulla perdita della libertà e insieme di atto di fede nella sopravvivenza della identità culturale e nazionale polacca proprio dell’originale, riuscendo a far muovere alla perfezione il complesso meccanismo scenico immaginato da Wyspianski. Di grande spessore l’Amleto, diretto sempre per il Teatr Stary di Cracovia nel 1981: W., contaminando il testo shakespeariano con suggestioni da Wyspianski, realizza uno spettacolo magico, dimostrando come dalla paura, dall’incertezza, dall’incomprensione, dal rancore possa scaturire l’autoaffermazione di un uomo. L’interpretazione del testo è lasciata all’operato degli attori. Nella pièce tutti i conflitti sono puramente umani: ogni possibile conclusione generale di carattere filosofico non può che scaturire dall’osservazione dei comportamenti più elementari e immediati. L’assunto su cui ruota la lettura del personaggio-Amleto è la sua volontà di essere un attore perfetto, a fronte del desiderio di ogni attore di essere un Amleto perfetto.

Wajda attualizza l’identificazione della vita col teatro, che tanto peso ha nell’opera di Shakespeare (tutti recitiamo: Amleto, che deve fingere di fronte alla corte, è un timido dilettante e un attore professionale), impegnando nei ruoli del Re e dell’Attore, della Regina e dell’Attrice gli stessi attori, rendendo pubblico partecipe interlocutore del dramma rappresentato sulla scena. Nel corso degli anni W. si è impegnato in regie di spettacoli di sua propria concezione, come Nel corso degli anni, nel corso dei giorni… (1978), dove attraverso un collage di brani della narrativa polacca si rappresenta la vita di una città, «capitale ufficiosa di uno stato inesistente» (Cracovia) tra il 1873 e il 1914, nello snodarsi di una successione di fatti veri e inventati e nell’avvicendarsi di personaggi letterari e realmente vissuti.

Alla luce dell’affermazione di Amleto «Per poter essere buono, devo essere crudele», il regista ha operato una selezione all’interno della trama di Delitto e castigo , ravvisandone il nocciolo drammatico non nella descrizione del delitto compiuto da Raskol’nikov, ma negli scontri verbali tra l’assassino e il poliziotto, cui vengono giustapposti i colloqui tra lo studente e Sonia. Tra le regie di W. più significative degli ultimi anni, sono sicuramente da annoverare il Dibbuk da An-ski (1988) e il recente Mishima (Cracovia, Teatr Stary 1996), basato su quattro nô (Il ventaglio, L’armadio, La Signora Aoi, Il tamburello di raso) incentrati sul tema delle passioni che prevaricano sentimenti e ragione, dove va ascritta tutta al regista la capacità di identificare la dimensione sociale – oltre che personale – della patologia della paralisi del vivere.

Matisse

Fra i maggiori maestri della pittura contemporanea, Henri Matisse appartenne alla corrente dei Fauves a inizio secolo; si evolve in seguito verso una pittura più stilizzata giocata sulla forma e soprattutto sul colore. Già decoratore e illustratore (vanno ricordati il rosone commissionato da Nelson Rockfeller nel 1952 e soprattutto la cappella a Vence, nel sud della Francia, che viene universalmente considerata la somma di tutti i suoi sforzi di ricerca), la sua attività scenografica si limitò a due spettacoli di Léonide Massine, per i quali creò scene bidimensionali: rigidamente pittoriche per Le Chant du russignol di Stravinskij (1920), realizzato dai Balletti Russi di Diaghilev al Covent Garden (Londra), più ritmiche e plastiche quelle di Rouge et noir di Sciostakovic (1937), messo in scena nel 1939 dai Balletti Russi di Montecarlo.

Vespignani

La pittura di Renzo Vespignani si avvicina all’arte informale, per l’uso esplosivo dei colori, pur preservando però un carattere di figurazione documentaria: vuol essere soprattutto una trasposizione della realtà, per sottolineare l’importanza dell’impegno sociale dell’artista. Conduce un’intensa attività d’illustratore ed è, tra l’altro, lo scenografo di Visconti in Maratona di danza del 1957, riportando in teatro la dimensione poetica del suo realismo. Nel 1961 realizza le scene e i costumi per I sette peccati capitali di Brecht, messo in scena a Roma da Squarzina.

Peduzzi

Con un rapporto professionale praticamente esclusivo, Richard Peduzzi si lega al regista francese P. Chéreau (L’italiana in Algeri di Rossini, Spoleto, 1969), con cui lavora per il Piccolo Teatro di Milano (Toller e Lulu), elaborando uno stile raffinato che riadatta e sfrutta liberamente le strutture architettoniche (di grande impatto L’anello del Nibelungo di R. Wagner, con cui Chéreau scandalizzò Bayruth, nel 1976, studiato in occasione del Centenario del Festival e ripreso nel 1978 con alcune varianti, dove i materiali e le forme si adeguano ad un perfetto equilibrio geometrico). Negli anni seguenti, lo scenografo si occupa di rappresentazioni di rilievo, tra cui I racconti di Hoffmann di Offenbach (Parigi, 1974), Les paravents di J. Genet (Nanterre, Theatre des Amondieres, 1983), Lucio Silla di Mozart (Milano, Teatro alla Scala, 1984). Fortunati il Quartetto di Müller (Nanterre, Theatre des Amandiers, 1985), una specie di `camera-bunker’ dai muri smisuratamente alti, ed il labirintico Amleto di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988). Più di recente, Le temps et la chambre di B. Strauss (Parigi, Odéon Thèatre de l’Europe, 1991) con un indovinato prolungamento della platea: proiettando il pubblico dentro la stanza in cui si svolge la vicenda, permette di comprendere il suo tentativo di fondere spazio scenico ed edificio teatrale. Per l’ultimo Le nozze di Figaro di Mozart (Festival di Salisburgo, 1995), lo scenografo lavora con L. Bondy, con il quale aveva già presentato un riuscito Il racconto d’inverno di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988).

Balla

Il suo primo intervento teatrale fu l’azione scenica Macchina tipografica (1914), col fondale e le quinte che riproducevano la scritta ‘tipografia’ e i dodici personaggi-macchine che con gesti meccanici, associati a rumori, celebravano le teorie futuriste sulla civiltà delle macchine, la parola timbrica, il suono puro. Miti che Giacomo Balla sembrò abbandonare nel progetto – mai realizzato – ispirato alla natura Mimica sinottica (1915), dove prevedeva una concertazione di suoni ispirati al mondo naturale e ballerine nei costumi della ‘Donna fiore’, ‘Donna cielo’ e ‘Valle’, sullo sfondo di un paesaggio rappresentato da ritmi curvilinei. Seguirono le scenografie per Feu d’artifice di Stravinskij allestito da Diaghilev (Roma, Teatro Costanzi 1917), dove l’azione non era affidata ai danzatori, ma a ritmi di luci colorate provenienti dai vari punti della scena, costituita da un paesaggio di solidi geometrici.

Bignens

Max Bignens inizia come apprendista allo Stadttheater di Zurigo, studiando contemporaneamente alla Scuola d’arti e mestieri con Pierre Gauchat e Max Gubler. Dal 1932 si avvicina alla scenografia, frequentando l’Accademia di belle arti di Monaco e di Firenze, lavorando poi allo Stadttheater di Berna (Santa Giovanna di Shaw, 1942; Faust I di Goethe, 1944; Yerma di García Lorca, 1945) e di Basilea (Boris Godunov di Musorgskij, 1948; Il conte di Lussemburgo di Léhar, 1949; I racconti di Hoffmann di Offenbach, 1950). Espone con successo bozzetti e modelli nelle grandi capitali internazionali (Roma, Zurigo, Berlino, Parigi, Vienna ), e lavora anche per il Teatro alla Scala, collaborando con Lavelli per L’heure espagnole, L’enfant et les sortilèges di Ravel (1975) e Madama Butterfly (1978).

Sanjust

Conclusi gli studi classici, Filippo Sanjust scopre la propria vocazione per lo spettacolo con un’occasionale collaborazione al film Beatrice Cenci di R. Freda (1956), esordendo in teatro come costumista a fianco di Visconti (Don Carlos, Londra, Covent Garden, 1958) ed imponendosi grazie ad allestimenti realistici, scaturiti dal minuzioso studio storico e stilistico che caratterizza la linea espressiva del regista (per il Duca d’Alba di Donizetti, Festival dei di Spoleto, 1959, vengono riattivate le ottocentesche scenografie originali; per Le nozze di Figaro, Roma, Teatro dell’Opera, 1964, si ricorre ad una splendida ricostruzione storica). Pur senza rinnegare lo stile viscontiano, lavorando accanto a E. De Filippo (Barbiere di Siviglia, Roma, Teatro dell’Opera, 1965 ), G. R. Sellner ( Nabucco, Berlino, Deutsches Opera, 1979) e V. Puecher (Il giovane Lord di Henze, Roma, Teatro dell’Opera, 1965), preferisce una scenografia più pittorica, quasi bidimensionale, che raffina con i Bassaridi di Henze (Francoforte, 1966), Il trovatore (regia di A. Anderson, Londra, Covent Garden, stagione 1977-78) e I maestri cantori di Norimberga (regia di W. Eichner, Roma, Teatro dell’Opera, 1979). Per il Flauto magico di Mozart (Francoforte, 1968) cura anche la regia, come per Armida (Palermo, Teatro Massimo, 1974) e Tancredi (Roma, Teatro dell’Opera, 1978 ).

Schneider-Siemssen

Allievo di E. Preetorius all’Opera di Monaco, nella stessa città Gunther Schneider-Siemssen diventa, nel 1947, direttore degli allestimenti, iniziando una carriera che lo conduce a Salisburgo (dove firma le scene per Il console di Menotti, regia di P. Stanchina, 1952, e si occupa di tutti gli spettacoli delle celebri Salzburger Marionetten) ed a Brema. La vera svolta avviene però nel 1962, quando viene ingaggiato al Burgtheater ed all’Opera di Stato di Vienna, dove avvia una felice collaborazione con Karajan (Pelléas et Mélisande di Debussy, costumi di G. Wakhewitch, e Fidelio di Beethoven, 1962; La donna senz’ombra di R. Strauss, 1964), che gli consente di partecipare anche al prestigioso Festival di Salisburgo (Boris Godunov di Musorgskij, 1965) ed al Festival di Pasqua (Valchiria di Wagner, 1967). Con uno stile dai cromatismi fortemente accentuati, trasferisce la carica drammatica della musica, delle parole e dei movimenti nella luce, spesso sfruttando gli effetti delle proiezioni, che possono fondere in una sola unità ottica attori e scenografia, in una scena-inquadratura che parte dalla realtà rappresentata approfondendo i nessi concettuali sotto la superficie della vicenda. Attivo anche a Londra, allestisce una molto discussa Tetralogia di Wagner e un Eruwartung di Schonberg (Covent Garden 1961), per il quale lavora con P. Ustinov; artista versatile, opera pure in campo televisivo e cinematografico.

Job

Dopo gli studi a Brera, Enrico Job inizia la sua attività in teatro collaborando con L. Damiani e debuttando come costumista alla Scala con Semiramide di Rossini (1962, regia di M. Wallmann) e come scenografo-costumista con Le notti dell’ira di A. Salacrou (Piccolo Teatro 1964, regia di G. Strehler). Nel corso di una lunga e intensa carriera lavora alternativamente per il teatro d’opera, di prosa e nel cinema. La sua attività più significativa ha inizio con i costumi per il Riccardo III di Shakespeare, per la regia di L. Ronconi (Torino 1968): «I costumi di Job, carichi di intenzioni deformanti, concorrono ad accentuare l’idea di stravolgimento grottesco e ironico che è una delle direttrici dello spettacolo» (R. Tian); prosegue con le scene e i costumi per l’ Orestea di Eschilo, sempre con L. Ronconi (Belgrado, Bitet 1972): un geniale impianto scenico è predisposto ad accogliere il pubblico su piani diversi con un ascensore praticabile.

Di rilievo il sodalizio con M. Mezzadri, per cui J. disegna scene e costumi per Il pellicano (Brescia 1975) e Il padre di A. Strindberg (Milano 1980): la scenografia costituisce lo scheletro portante dell’azione scenica e, con il suo gioco di volumi, diviene una componente attiva e fondamentale nello spettacolo. Collabora assiduamente con M. Missiroli, mettendo in scena numerose produzioni: Verso Damasco di Strindberg (Prato, Teatro Metastasio 1978), I giganti della montagna di Pirandello (Torino, Teatro Carignano 1982), La villeggiatura: smanie, avventure e ritorno di Goldoni (Asti 1981), Medea di Euripide (Siracusa, Teatro greco 1996). Altri spettacoli di rilievo: Terra di nessuno (1994, regia di G. De Monticelli), L’esibizionista (1994, regia di L. Wertmüller). Interessante l’allestimento di Aspettando Godot (Piccolo Teatro 1978, regia di W. Pagliaro): la vicenda scenica è racchiusa in una pedana ovale, inclinata con sabbia grigia e sovrastata da una `americana’ circolare, con un proiettore a simboleggiare il sole. Nell’ambito del teatro d’opera, di particolare importanza sono gli spettacoli con la regia di R. De Simone (tra gli altri Il signor Bruschino , Pesaro, Rossini Opera Festival 1985) e i due allestimenti per i quali si occupa anche della regia: Il trovatore di Verdi (Macerata, Sferisterio 1990) e Elisabetta, regina d’Inghilterra di Rossini (Napoli, San Carlo 1991). Nel lavoro di J. la scenografia diviene elemento `forte’, determina la gestione dello spazio d’azione dell’attore e diventa simbolica nelle forme e nell’aspetto visuale.

Vedova

Fra i principali rappresentanti dell’arte informale italiana, dagli anni ’50 la pittura di Emilio Vedova è caratterizzata da una gestualità automatica e astratta. In teatro l’artista ha trovato la possibilità di superare la bidimensionalità della tela per un’implicazione spaziale più completa. Nel 1961 ha realizzato le scene e i costumi per Intolleranza 1960 , libretto e musica di Luigi Nono (rappresentato alla Fenice di Venezia) con cui ha collaborato anche per la creazione delle luci di Prometeo (testi di Massimo Cacciari, struttura scenica di Renzo Piano) che ha debuttato alla chiesa di San Lorenzo a Venezia nel 1984.

Rauschenberg

Robert Rauschenberg si stabilisce a New York nella seconda metà degli anni ’50, dove, memore della lezione Dada, darà il via alla sua arte basata soprattutto sulle `Combines’, assemblaggi costituiti prevalentemente da materiali di scarto e di uso comune, anticipando per molti aspetti ciò che successivamente diventeranno la Pop Art e il minimalismo. Determinante per lo sviluppo della sua carriera di scenografo e costumista l’incontro nel 1952 al Black Mountain College con John Cage, David Tudor e soprattutto Merce Cunningham, con i quali realizzerà Theatre Piece Nº 1, happening ispirato alle poesie di Charles Olson e M.C. Richards, Suite for Fire in Space and Time (1956), Antic Meet (1958), Museum Event Nº 1, rappresentato a Vienna il 24 giugno del 1964, e Travelogue (1977), al Minskoff Theatre di New York. Tra i suoi principali lavori sono da ricordare le scenografie realizzate con Jasper Johns per The Tower di Paul Taylor (1957), alla Kaufmann Concert Hall di New York, Circus Polka di Stravinskij (1955) e Winterbranch (1964), balletto con musiche di Lamonte Young. Tra i lavori più recenti Set and Reset (1983), con musiche di Laurie Anderson e coreografie di Trisha Brown, e Foray Foret, presentato alla Biennale della danza di Lione nel 1990.

Allio

Allio  René comincia a imporsi verso il 1950, nel quadro della giovane produzione francese (Les condamnés di M. Deguy, Parigi, Théâtre des Noctambules 1950; Victimes du devoir di Ionesco, allestito al Quartiere Latino, 1953), affermandosi al Théâtre de la Cité di Villeurbanne come collaboratore di Roger Planchon (Henri IV – Le prince – Falstaff da Shakespeare, 1957; L’anima buona di Sezuan di Brecht, 1958; Bérénice di Racine, 1966). La concezione architettonica dello spazio, il ricorso alle proiezioni a quadri fissi e sequenze filmate, l’impiego di proiettori a vista e girevoli, il gusto del materiale grezzo per attrezzeria e costumi sono gli elementi che definiscono i tratti dominanti del suo stile (descritto in tre saggi, Le travail au Théâtre de la Cité, saisons 1955-1959, Le travail au Théâtre de la Cité, saison 1959-1960 e Le théâtre comme instrument, 1963), che ha una delle maggiori esemplificazioni nel Tartufo di Molière (1962), in cui enormi quadri monocromi in bianco e nero incombono come tetre visioni sugli attori. Proficui anche i rapporti con il coreografo Roland Petit (Notre-Dame de Paris , Parigi, Opéra 1962; L’Arlésienne , Marsiglia 1974 e Firenze 1986; Les intermittences du coeur , Montecarlo 1974; Les quatre saisons , Venezia 1984) e – sebbene si tratti di collaborazioni occasionali – con alcuni registi italiani, come Luigi Squarzina (Don Giovanni di Mozart, Scala 1966) e Raffaele Maiello (Marat/Sade di Weiss, Piccolo Teatro 1967). Personalità artistica poliedrica (ha partecipato alla riforma e alla progettazione di vari teatri: Aubervilliers, Hammamet), si è dedicato anche alla regia (Attila di Verdi, Nancy 1982) e già dagli anni ’60, con Una vecchia signora indegna (La vieille dame indigne , 1965) all’attività cinematografica (il suo ultimo lavoro è la pellicola Transit , 1991).

Jarman

Dopo aver cominciato a esporre appena tredicenne, Derek Jarman nel 1960 esordisce in teatro firmando le scene del Giulio Cesare di Shakespeare alla Canford School. Nel 1967 allestisce Il figliuol prodigo di Prokof’ev, che gli consente di partecipare alla V Biennale parigina dei giovani artisti; da allora lavora a produzioni internazionali con nomi come Nureyev, Gielgud e Bussotti (Jazz Calendar di R.R. Bennett, coreografia di F. Ashton, Covent Garden 1968; Don Giovanni di Mozart, regia di J. Gielguld, Coliseum 1968; Blim at school di P. Tegel, regia di N. Wright, Royal Court 1969), fino alle più recenti collaborazioni con I. Kellegren (Il segreto dell’universo di J. Gems, 1982), L. Blair (Aspettando Godot, Queen’s Theatre 1992) e Ken Russell (The Rake’s Progress di Stravinskij, Firenze, Maggio musicale 1982), con il quale collabora anche ad alcuni film ( I diavoli , 1970; Messia selvaggio , 1972). La mescolanza di stili ed epoche diverse nelle scenografie, la propensione al travestimento, l’insistenza sui costumi anche più frivoli diventano simbolici nelle produzioni che dirige lui stesso, confondendo la linea di demarcazione tra le vicende personali (l’omosessualità e la sieropositività) e la realtà urbana, e legittimando le interpretazioni a tinte forti di eventi e personaggi, nel cinema (Caravaggio, 1986) e in teatro (Les bonnes di Genet, Londra 1992).

Bigi

Diplomato all’Accademia di belle arti di Brera, Ferruccio Bigi debutta in teatro alla Piccola Commenda di Milano con Meriggio e l’ Uomo nero di Emilio Ghezzi (1983). Si interessa particolarmente di teatro musicale collaborando con il CRT di Milano per numerose produzioni tra le quali La coltura degli alberi di Natale da Eliot regia G. Marini (1984) e Umbra di M. Pisati di cui cura oltre alle scene ed i costumi anche la regia (1985). Per il teatro d’opera lavora come scenografo realizzando con il regista F. Ambrosini spettacoli come Tosca di Puccini (Teatro Comunale di Piacenza, 1995) e Le nozze di Figaro di Mozart (As.Li.Co, 1997). Scenografo poliedrico si interessa anche di luci e con altri artisti (Studio Festi) si occupa di eventi spettacolari allestiti in spazi inconsueti, come l’incarico triennale per la celebrazione del Festino di Santa Rosalia (Palermo 1995-97).

Hockney

Le scene e i costumi per Ubu re di Jarry, messo in scena al Royal Court Theatre di Londra nel 1966, inaugurarono l’attività di David Hockney scenografo, divenuta più ricca e impegnativa con la collaborazione avviata nel 1974 con il festival di Glyndebourne (The Rake’s Progress di Stravinskij, regia di J. Cox, 1975). Dopo Septentrion di R. Petit per il Balletto di Marsiglia (1975), nel 1978 lavorò ancora a Glyndebourne al Flauto magico di Mozart, dandone una eclettica versione ispirata a un Egitto favolistico. Risale al 1979 la sua collaborazione con il Metropolitan di New York per un trittico novecentesco: Parade di Satie, Les mamelles de Tirésias di Poulenc, L’enfant et les sortilèges di Ravel, inventati nelle scenografie con un gioco di immagini, colori, luci che ne sottolineavano l’aspetto magico o umoristico. David Hockney tornò a collaborare con il Metropolitan nel 1981 per uno spettacolo dedicato a Stravinskij (Le sacre du printemps, Le rossignol, Oedipus rex), creando scenografie dove mito e antichità si intrecciavano in un’interpretazione ludica.

Baldessari

La formazione artistica di Luciano Baldessari avviene a Rovereto sotto la guida di F. Depero e a Vienna, nel 1915, dove frequenta la Scuola reale. Termina gli studi a Milano laureandosi in architettura (nel 1922 al Politecnico) e frequenta il corso di Scenografia di Mentessi e Cattaneo a Brera. Dal 1923 al 1926 vive a Berlino dove conosce importanti artisti, registi, architetti dell’espressionismo tedesco e progetta per M. Reinhardt una serie di bozzetti non realizzati per Santa Giovanna di Shaw (1924). Dal 1926 è in Italia dove disegna bozzetti scenici e costumi per Giuliano di Zandonai (1927), Guglielmo Tell di Rossini (1929). A questo periodo seguono una serie di lavori fra i quali si ricordano Danse macabre su musica di Saint-Saens (1928), La scala di seta di Chiarelli (Milano 1929), I cavalieri di Ekebù di Zandonai (1929), La corte dei miracoli di Cavacchioli (1929). La sua attività di scenografo è fortemente influenzata nelle scelte dello spazio, del volume e del colore dalla sua professione di architetto, ed è evidente anche nei progetti scenici per Enrico IV (Milano 1930) e per i Sei personaggi in cerca d’autore (1932). Dal 1939 al 1948 vive a New York, rientra in Italia, a Milano, nel dopoguerra continuando al sua attività di architetto.

Preetorius

Laureato in giurisprudenza, bibliofilo ed esperto d’arti grafiche, fondatore di una scuola d’illustrazione e professore presso prestigiosi istituti tedeschi d’arte grafica, Emil Preetorius esordisce come scenografo solo nel 1921 ( Ifigenia in Aulide di Gluck, regia di W. Wirk; Monaco, Teatro Nazionale). Due anni più tardi è chiamato ufficialmente ai Kammerspiele di Falckenberg, iniziando una felice produzione che lo conduce ben presto ai maggiori teatri europei (a Berlino è collaboratore abituale dell’Opera di Stato). Grazie a un’impostazione stilizzata, ma monumentale e fastosa, diventa un amato interprete di Mozart ( Don Giovanni , Monaco 1936; Così fan tutte , Berlino 1941; Il flauto magico , 1949), di R. Strauss ( Ariadne auf Naxos , Berlino 1929; Elettra , Berlino 1940; Salome , Tolosa 1952), di Gluck ( Orfeo ed Euridice , Londra 1937; Ifigenia in Tauride , Berlino 1941; Don Juan , 1949), e soprattutto di Wagner ( Lohengrin , Berlino 1928; Tristano e Isotta , Parigi, Théâtre des Champs-Elysées, 1937; Sigfrido , Amsterdam 1946; Tannh&aulm;user , Monaco, 1950). Tra il 1933 e il 1944 accanto al regista H. Tetjen riforma il Festival di Bayreuth, producendo ampie ripercussioni su tutta la scenografia wagneriana contemporanea (celebre l’allestimento de L’anello del Nibelungo , ripetuto ogni anno dal 1933 al 1944).

Ghiglia

Lorenzo Ghiglia esordisce al Teatro delle Novità con Il Prof. King di B. Rigacci (regia E. Rugoni, Bergamo, 1956), dimostrando una spiccata predilezione per soluzioni sintetiche a impianto fisso. Dedicandosi al balletto e all’opera, lavora a Napoli, a Venezia, a Catania e a Milano, dove conosce alla Piccola Scala F. Enriquez, con il quale realizza una nutrita serie di spettacoli (tra cui La Bohème di Puccini, 1960-61e Il Trovatore di Verdi, 1962-63). Le sue scenografie inventano dimensioni fantastiche, preferendo realizzazioni senza precisi riferimenti storico – ambientali, come il fortunato Candido di R. Guicciardini da Voltaire (1972), che conferma la collaborazione con il regista, proseguita per Suor Angelica (Milano, Teatro alla Scala 1972-73); Antonio e Cleopatra di W. Shakespeare (Vicenza, Teatro Olimpico, 1977); Le Troiane di Euripide (Catania, Teatro Verga, 1981); Porcile di P.P. Pasolini (Roma, Teatro dell’Orologio, 1989)e il più recente Empedocle di F. Holderlin (Segesta, Teatro Antico, 1993). Altre figure importanti sono A. Piccardi ( Ifigenia in Aulide di Euripide, Borgio Verezzi, 1992; La strana coppia di N. Simon, Torino, Teatro Erba, 1993; Il caso Notarbartolo di F. Arriva, Catania, Teatro Verga, 1994) e A. Martini, con la quale realizza anche i suoi ultimi lavori, come i felici Soldati a Ingolstad e Purgatorio a Ingolstad di M. Fleisser (Roma, Teatro dell’Orologio, 1992; Borgio Verezzi, 1994), e Letteratura di A. Schnitzler (Roma, Giardini della Filarmonica, 1995).

Varisco

Laureato presso la facoltà di architettura del Politecnico di Milano nel 1937, Tito Varisco frequenta la Scuola di scenografia di P. Reina all’Accademia di Brera a Milano. Si dedica negli anni successivi e sino al 1968 all’attività didattica presso la facoltà di architettura. Insegna alla scuola di scenografia dell’Accademia di Brera dal 1954 sino al 1980 diventandone anche direttore. Durante la sua lunga carriera professionale alterna l’attività di architetto (progettando importanti costruzioni tra cui il rifacimento del Teatro Vittorio Emanuele di Messina) con quella di scenografo. Partecipa all’attività della televisione sperimentale realizzando le prime scenografie televisive per uno spettacolo di prosa e di lirica. Sua è la creazione del Monoscopio di apertura e chiusura dei programmi televisivi trasmesso giornalmente sino al 1984. È chiamato alla Scala alla direzione dell’allestimento scenico negli anni dal 1970 al 1978 dove fonda, inoltre, la Scuola per giovani scenografi. V. caratterizza la sua attività professionale dedicandosi al coordinamento e alla realizzazione del lavoro altrui, pur non tralasciando l’ideazione scenica di opere liriche tra cui la Turandot di Puccini per la regia di F. Enriquez (Sferisterio di Macerata, 1970); la Favorita di Donizetti (Scala, 1974) e la Gioconda di Ponchielli (Bordeaux, 1976), entrambi con la regia di M. Wallman; Madama Butterfly di Puccini per la regia di A. Trionfo (Opera di Roma 1987) e la realizzazione dell’ Aida con la regia di M. Bolognini (Sfinge – Piramidi, Il Cairo 1987).

Chagall

Fin dalla giovinezza il teatro aveva rappresentato per Marc Chagall un universo di libertà poetica e visionaria; vi contribuì l’incontro, avvenuto nel 1908, con Léon Bakst, allora direttore della scuola Zvantseva, dove Marc Chagall proseguirà gli studi («La sua gloria, in seguito alla stagione russa all’estero, mi faceva girare, non so perché, la testa. Sfogliando i miei studi, che sollevavo a uno a uno dal pacco dove li avevo ammucchiati, diceva, trascinando le parole con quel suo accento signorile: sì, sì, c’è del talento, ma siete sprecato, siete su una falsa strada, sprecato»). Nel 1920 Marc Chagall si impegnava nelle decorazioni del Nuovo teatro ebraico di Mosca, da lui fondato insieme al critico Abraham Efroscon. Dipinse alcune grandi tele, destinate a venir tese alle pareti e al soffitto, ma un anno dopo il teatro fu chiuso per motivi politici e Marc Chagall abbandonava la Russia; i dipinti vennero custoditi in semiclandestinità nella galleria Tretiakov di Mosca, dove l’artista li rivide nel 1973. La vena lirica e visionaria di C. si dispiegò nei lavori scenografici per il Ballet Theatre di New York, commissionati dal coreografo L. Massine. Ricordiamo le scene e i costumi per L’uccello di fuoco di Stravinskij (1945; ripreso con coreografia di Balanchine nel 1949) e i bozzetti per Aleko, un balletto ispirato al poema di Puskin Gli zingari (1942, musica di Cajkovskij). Il più celebre dei quattro dipinti realizzati da C. per i fondali del balletto, intitolato Una fantasia di San Pietroburgo , ritrae in lontananza un purpureo paesaggio della città, mentre nel cielo turbinoso vagano sospesi un cavallo bianco e un candeliere acceso; il flusso del colore intenso e le pennellate libere e impulsive rivelano la nuova fase pittorica a cui era approdato C., abbandonando il lirismo pastorale del periodo precedente. Dopo le scene e i costumi per Daphnis et Chloé di Ravel all’Opéra di Parigi (1959, coreografia di G. Skibine), nel 1963, su invito di De Gaulle e di Malraux, C. realizzò i cartoni per il soffitto del teatro; l’ultimo suo lavoro di scenografo fu per il Metropolitan di New York, con il Il flauto magico di Mozart (1967, regia di G. Rennert).

scenografia

La scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. È legata all’evoluzione del teatro e influenzata dalle correnti artistiche e dal costume. La scenografia del Novecento si avvale di mezzi tecnologici moderni (piattaforme mobili, tiri meccanici, piani inclinati, piani girevoli). All’inizio del secolo si svilupparono movimenti contrapposti al decorativismo di fine Ottocento di scenografi francesi e italiani (G. Sécan, A. Sanquirico, C. Ferrario, A. Rovescalli).

Tali movimenti furono il realismo del teatro di Stanislavskij e il naturalismo di Rosin, scenografo di Antoine e del suo Théâtre Libre. Ma nell’ambito del teatro e della scenografia moderna la prima vera rivoluzione si ha partendo dalle indicazioni e dalle ricerche dello scenografo svizzero Adolphe Appia (evoluzione della scena orizzontale con piani praticabili e la plasticità scenica esaltata dalla luce, non più dipinta illusionisticamente) e del teorico inglese Gordon Craig che al naturalismo sostituisce in scena masse di luce e di ombra, forme plastiche su vari piani, esaltando la tridimensionalità e la verticalità scenica, il colore, il ritmo. In questi primi decenni del secolo significativi sono gli interventi scenografici di pittori-decoratori in teatro: con Diaghilev e i Balletti Russi lavorarono artisti come L. Bakst, Benois, Goncarova, Larionov, de Chirico, Picasso, Matisse, Dalì, ecc. In Italia il vero rinnovamento si ha con l’avvento del futurismo e della tecnologia in palcoscenico.

Di Prampolini è il primo Manifesto della scenografia futurista (1915) in cui si enunciano le conquiste della luce, della dinamica e del movimento che compongono la scenografia futurista, ed è proprio lui a dare alla scenografia italiana un’apertura internazionale. Di Balla sono gli esperimenti di luce per Feu d’artifice balletto astratto proposto da Djagilev, mentre Depero continua le sue ricerche plastico-figurative con macchine-marionette e realizzando sempre con Diaghilev Le chant du rossignol . Interessanti le esperienze sulla luce-colore di A. Ricciardi per il Teatro del colore (1920), sviluppate dal regista-scenografo A. G. Bragaglia (inventore della scena multipla al Teatro degli Indipendenti). Contemporaneamente in Europa correnti artistiche come l’espressionismo in Germania (O. Kokoschka), il surrealismo in Francia e il costruttivismo in Unione Sovietica (con Mejerchol’d, il Teatro d’Arte di Mosca e gli scenografi L. Pòpova, A. Exster, A. Tairov) ribaltarono tutti le vecchie concezioni teatrali.

Lo scenografo da decoratore diviene costruttore scenografico e la scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. dinamica motore dello spettacolo. Nel primo dopoguerra la scenografia italiana con N. Benois, Colasanti, Oppo, Sensani, abolisce il fondale dipinto per spezzati dipinti e praticabili e un realismo neopittorico. Con un neorealismo plastico usato da artisti quali V. Marchi, D. Cambellotti, P. Marussig, sviluppano le esperienze plastico-astratte-cromatiche del futurismo-cubismo (Kaneclin, Baldessarri, Prampolini, Ratto, Coltellacci).

In Italia come in Europa e in America lo sviluppo della scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. moderna è legata al mezzo tecnico, influenzata dalle varie tendenze di linguaggio o dal bisogno di trovare trucchi e soluzioni nuove, per un continuo rinnovamento. La scena mobile, abbinata a effetti di luce, o scena multipla, con angoli visuali scorciati, plastica e tridimensionale o con l’applicazione di materiali inediti, dimostra quanto importante sia sottolineare la collaborazione tra regista e scenografo. Una figura fondamentale per lo sviluppo della scenografia italiana è il regista L. Visconti che, con la sua personalità, ha influenzato scenografi e costumisti, nella scelta dello spazio e nella ricerca di sintesi, e di riproposta storico-filologica. Per lui hanno lavorato M. Chiari, G. Polidori, F. Zeffirelli, P. Zuffi, L. De Nobili, P. Tosi, V. Colasanti, M. De Matteiscenografia

Al Maggio musicale fiorentino negli anni ’50 viene aperta una stagione di pittori-scenografi come Casorati, Sironi, Fiume, Cagli, Maccari, Savinio, le cui scene sono importanti soprattutto per il valore cromatico. Con il teatro politico di Piscator e l’avvento del teatro epico di Brecht e degli scenografi Theo Otto, K. Nener, e del francese R. Allio, collaboratore di R. Planchon, la scenografia ritrova un giusto equilibrio tra elementi allusivi e l’esatta ricostruzione storica. Sempre con un teatro fatto di metafore sceniche (macchine per proiezioni, uso di luci, scena cinetica) J. Svoboda continua le sue ricerche al Teatro Lanterna Magika di Praga (1948). Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano (1947) ha tra i suoi collaboratori G. Ratto per le scene, E. Colciaghi per i costumi, che risentono dell’influsso internazionale della scena epica (fondali con grandi scritte, scene costruttiviste). La collaborazione di Strelher con L. Damiani darà vita a produzioni storiche (Il ratto dal serraglio, 1965; Il giardino dei ciliegi , 1974; La tempesta , 1978).

Damiani suggerisce nelle sue ambientazioni spazi astratti e le citazioni storico-pittoriche allusive, lasciano spazio all’immaginazione senza prevaricare la parola. La ricerca di Damiani sviluppa la scena tridimensinalmente e la sintesi drammatica spaziale; Damiani collaborerà anche con altri registi tra cui V. Puecher, L. Ronconi, L. Squarzina, L. Pasqual. Intensa è la collaborazione di E. Frigerio con Strelher, la sua scenografia è fatta di un realismo in cui viene esaltata la forma architettonica tridimensionale, sottolineata dall’uso della luce che fa da cornice all’azione. Frigerio e la moglie F. Squarciapino (costumista) realizzano produzioni importanti (Le nozze di Figaro 1981, Don Giovanni 1987). Sempre al Piccolo con G. Strelher collaborano P. Bregni e L. Spinatelli che caratterizza la sua attività professionale anche nell’ambito del balletto ( Orlando 1997).

Negli scenografi che hanno lavorato al Piccolo Teatro vi è un costante riferimento iconografico tratto dalla pittura. Questo dualismo regista scenografo si ritroverà in Squarzina e Polidori, De Bosio, Scandella e Guglieminetti, De Lullo e Pizzi, Fersen e Luzzati. L’attività di Luzzati è fondamentale nel panorama della scenografia italiana attraverso il suo forte e personale modo di fare scenografia, caratterizzato dall’illustrazione fantastica e dal concepire lo spazio teatrale come un gioco. Ad artisti famosi spesso viene dato l’incarico nei teatri italiani di progettare la scena, basti pensare a M. Ceroli, T. Scialoja, F. Clerici, o alle sorprendenti strutture di A. Pomodoro per Semiramide 1982. Negli anni ’60 comincia il lavoro di L. Ronconi con cui collabora, P. L. Pizzi per la messinscena dell’ Orlando furioso a cui seguiranno le scene di altri famosi spettacoli. Pizzi sul finire degli anni ’70 inizierà a firmare regia, scene e costumi di tutti i suoi spettacoli caratterizzando il suo lavoro con opere barocche in cui architettura, decorazione e colore trovano il giusto equilibrio. Ronconi nel Laboratorio teatrale di Prato (1976-79) sviluppa un’inconsueta idea di allestimento scenico in stretto contatto con il pubblico risolta dall’architetto-scenografo G. Aulenti: ricerca e collaborazione destinata a continuare anche nel teatro lirico.

Con la scenografa M. Palli, Ronconi continua l’analisi sullo spazio e sulle forme architettoniche usate come macchine sceniche, fondamentali all’azione drammaturgica, diventando la scenografia filo conduttore dello spettacolo, determinante è il contributo visivo dei costumi di V. Marzot. Particolare è la ricerca formale di E. Job per le opere di Strindberg in cui la scena e l’oggetto, diventano essenza del testo drammaturgico. Nel corso della sua carriera proficua è l’intesa professionale con Ronconi e M. Missiroli. Le scenografia di M. Balò che instaura un costante lavoro con M. Castri e G. Cobelli sono fatte di forme circolari, moduli ripetuti di porte e finestre, strutture avvolgenti e imponenti sullo spazio del palcoscenico.

Mentre Bob Wilson propone spettacoli in cui immagine visiva, luce, colore movimento e suono-parola ci portano verso l’astrazione pura allusiva del quadro tridimensionale quasi metafisico. Il panorama della scenografia italiana è in continua evoluzione a partire dal realismo rivisitato e rielaborato di M. Pagano, P. Grossi, W. Orlandi, C. Diappi o agli scenografi che si legano in stretto sodalizio con gruppi teatrali e registi tra i quali, Carosi, Fercioni, Gregori, Agostinucci. Numerosi gli scenografi che si avvalgono nelle loro messinscene della tecnologia (luci, laser, macchine di proiezione, audiovisivi, scene mobili, plastiche), della ricerca di forme e di spazi alternativi e di materiali all’avanguardia pur non allontanandosi dal carattere decorativo astratto-spaziale tipico della scena italiana, riprendendo scorci prospettici, piani praticabili inclinati a simulare la psicologia del testo, e a suggerire la metafora drammaturgica. Scene ricche di atmosfere suggestive e di tradizioni.

Otto

Teo Otto esordisce a Kassel con le scene della Vasantena di Feuchtwanger (1924). Trasferitosi a Berlino nel 1927, lavora con Fehling, Muthel, Lindemann e altri registi d’avanguardia; in Svizzera dal 1933, diviene scenografo stabile allo Schauspielhaus di Zurigo: tra i suoi più importanti allestimenti, Riccardo III di Shakespeare (1933), Peer Gynt di Ibsen (1935), Pigmalione di Shaw (1936), Edipo re di Sofocle (1938), La morte di Danton di Büchner (1939). Il suo stile sintetico e allusivo si adatta in particolar modo alle opere di Wilder (Piccola città , Zurigo 1938; La famiglia Antropus , Zurigo 1943), risolte attraverso scene semivuote e come smaterializzate; di Dürrenmatt ( Un angelo scende a Babilonia , 1953; La visita della vecchia signora , 1956; Gli Anabattisti , 1967), dove frammenti decorativi rappresentano l’intero ambiente; di Brecht (Madre Coraggio e i suoi figli , 1940; L’anima buona di Sezuan , 1942; Il signor Puntila e il suo servo Matti , 1947; L’opera da tre soldi per la regia di Strehler, Milano, Piccolo Teatro 1956), interpretato con spazi simbolici e radi elementi costruttivi.