Stein

Specializzato negli studi di germanistica e storia dell’arte con una base filologica essenziale al suo approccio ai classici, Peter Stein deve al grande Fritz Körtner, regista e attore, l’insegnamento che farà di lui il punto di riferimento del teatro tedesco nella seconda metà del secolo, demiurgo e sperimentatore di grandi progetti e nuovi spazi, specie nell’esplosione inventiva degli anni ’70. Ma la sua personalità è anche legata a un’ idea di gruppo, identificato con la Schaubühne berlinese di cui è fondatore nel 1970, per quasi un decennio direttore e comunque socio di un complesso autogestito, composto nel suo nucleo storico da compagni e allievi degli inizi, quali Bruno Ganz, Edith Clever, Jutta Lampe, Michael König, elevati negli anni da questa esperienza recitativa coi loro più giovani colleghi ai vertici della scena europea.

Il germe della compagnia è già al fianco di Stein a Monaco, dove il regista trentenne debutta al Werkraumtheater con il provocatorio Saved di Edward Bond e l’anno dopo, nel fatidico Sessantotto, presenta il Brecht giovanile di Nella giungla delle città e il polemico Discorso sul Vietnam di Peter Weiss, concluso da una colletta a favore dei Vietcong. L’ensemble si matura e arricchisce grazie a nuovi incontri nel trittico per lo Schauspielhaus di Zurigo ( Early Morning ancora di Bond, Il bel chicchirichì di O’Casey e I lunatici elisabettiani), e a Brema, nel confronto col romanticismo tedesco dello schilleriano Intrigo e amore e del Torquato Tasso di Goethe; uno spettacolo-capolavoro quest’ultimo, che fa scandalo facendo del protagonista `un clown dell’emozione’ che scavalca le epoche nella sua contestazione d’artista al potere. Non a caso verrà ripreso nel repertorio della Schaubühne, denominata `am Halleschen Ufer’ dal luogo della sua prima sistemazione `povera’ e periferica e, a partire dal 1980, progettato `am Lehniner Platz’ dopo il traferimento in un ex cinema progettato da Mendelssohn negli anni ’20 e ristrutturato da Karl-Ernst Herrmann, scenografo `storico’ di Stein, con tre sale modulari e unificabili.

La prima Schaubühne s’inaugura con un Brecht eretico: La madre in versione più psicologica che educativa con la bravissima Therese Giehse in funzione anti-Weigel, a direzione collettiva come il successivo Interrogatorio all’Avana di Enzensberger. A liquidare i conti con il poeta di Augusta provvederanno indirettamente nello stesso periodo due ulteriori messinscene politiche: in onore dello scomodo Tairov un classico sovietico come La tragedia ottimista di Visnevskij e alla caccia dei sensi di colpa tedeschi Pionieri a Ingolstadt della Fleisser, che di Brecht fu una discussa `compagna di strada’. Ma La madre, col suo abbraccio della scena al pubblico avvolto da tre lati, apre anche un discorso sullo spazio destinato ad assumere maggior respiro nei classici assieme alla ricerca di un’identità, punto chiave di un Peer Gynt integrale in due serate, con sei attori a interpretare gli otto Peer (torna più volte il solo Ganz) su un’isola planetaria in mezzo agli spettatori, dietro ai quali si levano paesaggi ricavati da stampe d’epoca. Con Il principe di Homburg , affidato al fascino di un onirismo visionario che ispirerà Rohmer, è in gioco invece l’io tedesco conteso tra istinto e ragion di stato, insieme all’ambiguità di Kleist da sottrarre a un’ipoteca nazista. Teatralmente il discorso trova il suo sviluppo nello studio e nelle contraddizioni del naturalismo e non a caso nell’ampiezza del suo percorso Stein può arrivare a leggere politicamente un vaudeville tipo Cagnotte dando a Labiche uno spessore molieriano.

L’escursione preventiva sui luoghi dell’autore diventa d’obbligo per un approfondimento stanislavskiano, come lo spettacolo propedeutico sul tema, per esempio sui greci. Così in un enorme padiglione da fiera, nel 1974, Esercizi per attori  (Antikenproject 1) è un’ipotesi fortemente emozionale e coinvolgente sulla nascita della tragedia, seguita a sere alterne dalle Baccanti allestite da Grüber e sei anni dopo dalle nove ore dell’ Orestea , che farà il giro del mondo e rivivrà nel l993 in un’edizione russa con la Compagnia dell’Armata Rossa. È il vero culmine creativo del regista che arriva ad abolire la scena, sostituita dal muro del Palazzo, situando in mezzo agli spettatori seduti per terra su bassi gradini il cantilenante coro da cui escono via via i personaggi ripercorrendo la storia dell’uomo e del teatro. Dura addirittura due sere la grande mostra-museo di Shakespeare Memory, premessa al Bardo che figlia in uno studio cinematografico una monumentale edizione narrativa di Come vi piace, dove l’attraversamento di un lungo cunicolo fitto d’immagini separa la prima parte, con l’antefatto cittadino in clima neoclassico e stilizzato da vedere in piedi, dalla foresta dell’evasione dove tutto è falsamente vero: passeranno dodici anni, con l’intermezzo di Otello e Falstaff nelle edizioni liriche verdiane montate veristicamente per la compagnia di Cardiff, perché si arrivi a una nuovo testo shakespeariano, il controverso Tito Andronico, diretto dal regista poliglotta in italiano per il Teatro di Genova. Nell’intervallo c’era anche stato Der Park, macroscopico adattamento dal Sogno di una notte d’estate di Botho Strauss, a lungo `dramaturg’ del regista e da lui stesso lanciato come autore con La trilogia del rivedersi , sull’eterno tema dell’arte e dell’impegno, letta come appassionata biografia della Schaubühne e il dispersivo Grande e piccolo visto come occasione interpretativa per la Clever e scenografica per Herrmann.

Più interessato al solito ai classici per i più ampi margini d’autonomia ricreativa da questi consentiti, Stein mette alla prova della finzione anche il teatro-verità di Kroetz ( Né carne né pesce ) e del più riuscito Nemico di classe dell’inglese Nicol Williams in una ricostruzione berlinesizzata di una scuola. Ma il tentativo risulta più arduo alla prima mondiale postuma di Roberto Zucco (1990), perché riesce difficile trasferire al Tiergarten l’allegorismo di cui Koltès riveste un’azione peraltro rubata alla realtà. Ma a parte certe avventure già citate, oltre al nuovo omaggio a Tairov col kolossal di un transatlantico a ridosso del pubblico nello Scimmione peloso di O’Neill e la parentesi francese (un’effettistica e potente edizione di Les Nègres per cui Genet, colpito dalle prove aveva addirittura scritto un nuovo finale e la Fedra raciniana), gli anni ’80 avevano avuto per Stein il loro baricentro in Cechov, già studiato, con tanto di viaggio in Russia, al tempo dei Villeggianti di Gor’kij (l974), ancora una storia di borghesi con l’hobby dell’arte, ritagliata su misura per la troupe, con gli attori sempre presenti negli spazi riservati ai loro personaggi a improvvisarsi una vita di controscene.

Dieci anni dopo, Tre sorelle sono un magistrale concertato di gesti, suoni, luci, ritmi che inseguono nel tempo la propria verità in una scena che ricalca il modello stanislavskiano per allungarsi a inghiottire un’altra sala della nuova Schaubühne nell’atto finale del duello, in una campagna che s’inventa una verità perdendosi nell’infinito. Ma la seconda edizione, che trionfa tra l’altro in tournée a Mosca, calandosi anche con qualche cambio d’interprete in una quotidianità meno sontuosamente perfetta tra tic banali velati dalla memoria, sembra addirittura rigenerare quel risultato. Anche Il giardino dei ciliegi conosce due versioni, coricando di un più introspettivo tormento a Salisburgo l’immagine quasi contemporanea di un’umanità turisticamente in corsa verso la fine vista a Berlino, con il mirabile intervallo nel 1994 dello Zio Vanja italiano `alla russa’ con Herlitzka, Pozzi, Girone, Crippa, Giovampietro: una complessa collezione di segni per snidare l’insondabile presenza della comicità nella tragedia che rappresenta il nocciolo inafferrabile dell’opera di Cechov.

Intanto, lasciata la Schaubühne, infoltite le regie liriche da Debussy a Schönberg a Berg, Stein assume per sei anni la direzione della sezione prosa di Salisburgo, dove si propone di ricalcare il modello Reinhardt con una serie di grandi spettacoli unici affidati anche ad altri registi importanti e giovani, riunendo a livello d’interpreti il meglio del teatro pantedesco. Il sogno di un estivo Walhalla teatrale si realizza alla Felsenreitschule col suo Giulio Cesare, memorabile saggio sulla retorica politica e sulla manipolazione delle masse, svolto a luce naturale con travolgente maestria tecnica, primo degli Shakespeare romani programmati che vedranno anche un suo stanco Antonio e Cleopatra, prima del ripiegamento verso un duplice e più esteriore omaggio alla scena austriaca con le messinscene di due classici nazionali, Il re delle Alpi e il misantropo di Ferdinand Raimund e il meno frequentato Libussa di Grillparzer, preludio a un allestimento nel tradizionale Theater viennese der Josefstadt nel giugno ’98, dell’ultima complicata novità dell’amico Botho Strauss (Die Aulmhnlichen, i somiglianti), trasformata in felice occasione registica, ricca di autocitazioni. Ma la sua mente è già tesa al Faust integrale in sette giornate che da tempo lo travaglia, destinato a realizzare all’Expo 2000 di Hannover, 20 anni dopo l’Orestea, l’opera della sua vita.

Schaubühne

Schaubühne è un teatro privato fondato nel 1962 a Berlino ovest, dapprima scena studentesca, noto per l’impegno politico e sociale delle sue produzioni. Sin dall’inizio contribuisce ad accrescere l’interesse per Brecht con la messa in scena di opere poco rappresentate come Un uomo è un uomo (1962), con la regia di Hagen Müeller-Stahl, e delle opere di P. Weiss del quale viene proposto in prima assoluta Cantata di un fantoccio Lusitano (1967). Si instaurano rapporti di lavoro con personalità emergenti della cultura teatrale della RDT, come il drammaturgo H. Lange, e dell’Europa orientale, come il regista polacco K. Swinarski.

Nel 1970 si forma una compagnia stabile in base ad accordi tra J. Schitthelm, K. Weiffenbach e il regista P. Stein, con sovvenzioni del senato di Berlino. Ne fanno parte attori che già in passato avevano lavorato con Stein quali B. Ganz, E. Clever e J. Lampe. Il nuovo programma della Schaubühne è ardito e contraddittorio: la messa in scena di opere di chiaro impegno politico (La madre di Brecht) contrasta con quella di altre, raffinate e intellettualistiche (Cavalcata sul lago di Costanza di P. Handke). Tuttavia, contrasti di questo tipo, che caratterizzano la S. anche in seguito, fungono da stimolo per il lavoro di personalità tra loro alquanto diverse come, i registi Stein, Grüber e Bondy; del drammaturgo D. Sturm e B. Strauss (per alcuni suoi particolari progetti).

Nel corso degli anni ’70 il lavoro trae ulteriore impulso da ricerche e progetti di gruppo sul teatro rivolto ai bambini, sul teatro shakespeariano ed elisabettiano e anche sulla tragedia greca (Le baccanti, messo in scena da Grüber nel 1974 e l’Orestea diretta da Stein nel 1980). Inoltre, a partire dal 1980, vengono organizzate anche rappresentazioni dirette a un pubblico particolare di lavoratori nonché di immigrati (turchi, per esempio). Alla fine degli anni ’70, grazie all’intervento del senato di Berlino, la S. ottiene una nuova sede, più grande e meglio attrezzata di quella, nel quartiere di Kreuzberg dove aveva iniziato l’attività: un grande cinema costruito da Mendelsohn a Lehniner Platz, appositamente ristrutturato. Da allora vi hanno operato ancora Stein, Grüber, Bondy, J. Gosch e, dal 1991, la regista A. Breth il cui lavoro viene seguito dalla critica con particolare interesse.