Strehler

Giorgio Strehler ovvero il Regista, scritto proprio con la maiuscola, allo stesso modo in cui lui scrive e pensa al Teatro: come a una sfida iperbolica, a un diorama, a un palcoscenico in cui si concretizza l’immagine del mondo dove, in punta di piedi, i grandi signori della scena, ai quali di diritto appartiene, possono dialogare con il popolo dei personaggi e, attraverso di loro, con gli spettatori. Accanto a questo modo `regale’ di intendere il teatro, che fa di lui il vero erede di Max Reinhardt (l’ultimo dei registi demiurghi, peraltro ammirato da bambino), Strehler ne ha sempre avvicinato un altro più severo, quasi giansenista, che si era incarnato nella tradizione di Copeau e di Jouvet, dove il regista – questa volta con la minuscola, ma non perché sia meno importante – parte dal presupposto che tutto è nel testo e che quanto è già stato detto e scritto può essere mediato, incarnato, dall’Attore, non a caso scritto con la maiuscola. Questi due modi di intendere la regia si rendono evidenti esemplarmente in due fra i suoi ultimi spettacoli – Faust frammenti, al quale lavora ininterrottamente dal 1988 al 1991, recitando anche nel ruolo del titolo, e Elvira o la passione teatrale (1987) – e hanno trovato la possibilità di svilupparsi anche grazie alle sue ascendenze familiari. S. nasce infatti a Barcola, un paesino vicino a Trieste, in una famiglia in cui si intrecciano lingue e culture.

Suo nonno è musicista (anche Giorgio studierà musica e direzione d’orchestra) e di cognome fa Lovric; sua nonna è francese e si chiama Firmy, cognome che il nipote prenderà quando firmerà le prime regie durante l’esilio svizzero. Suo padre, Bruno, muore giovanissimo, quando il figlio ha poco più di due anni; la madre, Alberta, è un’apprezzata violinista. Il giovane S. cresce così in un’atmosfera artisticamente `predestinata’, e in un ambiente a forte matrice femminile. Questa immersione nel femminile gli sarà utile nel disegnare le sue protagoniste, e lo renderà impareggiabile nel rendere sensibile il mistero e l’incanto, ma anche il bugiardo silenzio delle sue eroine. Da ragazzino Strehler si trasferisce con la madre a Milano, dove compie gli studi prima al convitto Longone e poi al liceo Parini, fino a frequentare l’università, facoltà di legge; ma fin da adolescente, accanto allo studio, coltiva l’amore per il teatro, frequentato anche (dice la sua leggenda) come claqueur . Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dove trova il suo maestro di elezione in Gualtiero Tumiati.

Le sue prime prove fuori dalla scuola sono da attore, nel gruppo Palcoscenico di Posizione a Novara e anche alla Triennale, in un testo di Ernesto Treccani. Ma già qui, a soli ventidue anni, pensa che il teatro italiano, allora dominio degli ungheresi e dei falsi dottori, abbia bisogno della scossa salutare e demiurgica della regia. Lo scrive in un articolo del 1942, Responsabilità della regia , pubblicato su “Posizione”: fondamentale, pur nello slancio assoluto tipico dell’epoca, per capire anche lo Strehler successivo. In quegli anni che precedono la guerra S., legato da un’amicizia fortissima a Paolo Grassi, conosciuto (come hanno sempre affermato i protagonisti) alla fermata angolo via Petrella del tram numero sei, direzione Loreto-Duomo, fa la fronda nei Guf e morde il freno. L’entrata in guerra dell’Italia lo trova militare e poi rifugiato in Svizzera nel campo di Mürren, dove stringerà amicizia, fra gli altri, con il commediografo e regista Franco Brusati. Qui, poverissimo, ma già con una grande abilità nell’usare a proprio favore le difficoltà, riesce, con il nome di Georges Firmy, a trovare i soldi per mettere in scena, fra il 1942 e il 1945, Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot, Caligola di A. Camus e Piccola città di T. Wilder.

La fine della guerra lo vede però di ritorno in Italia, ormai deciso a fare il regista. Il suo primo spettacolo, dopo la `regia’ del gruppo di cammelli alla festa per la Liberazione al Castello Sforzesco, è Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, con Memo Benassi e Diana Torrieri. Firma anche tutta una serie di regie d’occasione per compagnie famose, senza crederci troppo, e torna a recitare in Caligola di Camus (che ha spesso fra i suoi spettatori un altro signore della scena, Luchino Visconti), dove dirige Renzo Ricci e riserva a se stesso il ruolo di Scipione. Nel frattempo è stato anche critico teatrale per “Momento sera”, senza mai rinunciare però al sogno, condiviso con Paolo Grassi, di costruire dal nulla un teatro diverso. L’occasione sarà la fondazione nel 1947 del Piccolo Teatro della Città di Milano: primo stabile pubblico italiano, che aprirà i suoi battenti il 14 maggio, con l’andata in scena di L’albergo dei poveri di Gor’kij, dove S. riserva a sé il ruolo del ciabattino Aljosa. Questo spettacolo, che riesce a coagulare buona parte della compagnia che per alcuni anni sarà stabile al Piccolo e che avrà le sue punte in Gianni Santuccio, Lilla Brignone e Marcello Moretti, ha avuto un anno prima un’`anticipazione’ in Piccoli borghesi di Gor’kij, andato in scena con la regia di S. e l’organizzazione di Paolo Grassi all’Excelsior.

Alla fondazione del Piccolo corrisponde anche la prima regia operistica di Strehler, unaTraviata alla Scala destinata a lasciare il segno. Dal 1947, però, gli sforzi maggiori di Strehler (prima regista stabile, poi direttore artistico, poi direttore unico) sono essenzialmente per il Piccolo Teatro, dove dirige spettacoli che appartengono alla storia del teatro e della regia. All’interno di questa storia, che potremmo definire positivamente eclettica, si può tuttavia rintracciare una costante: l’interesse per l’uomo in tutte le sue azioni. Questa scelta, che Strehler perseguirà per tutta la vita, è un atto di fedeltà alle ragioni profonde dell’esistenza di cui si fa portatore Satin, uno dei protagonisti dell’Albergo dei poveri : «Tutto è nell’uomo». E, in questo suo porre l’uomo sotto la lente d’ingrandimento del suo teatro, ecco venire alla luce alcuni rapporti che gli interessano: l’uomo e la società, l’uomo e se stesso, l’uomo e la storia, l’uomo e la politica. Scelte che si riflettono a loro volta nella predilezione per alcuni autori chiave, veri e propri compagni di strada nel lavoro teatrale del grande maestro (anzi `Maestro e basta’, come è stato chiamato): Shakespeare soprattutto, ma anche Goldoni, Pirandello, la drammaturgia borghese, il teatro nazional popolare di Bertolazzi, Cechov e, nei primi anni, la drammaturgia contemporanea; Brecht gli rivela un diverso approccio al teatro, alla recitazione, una `via italiana’ all’effetto di straniamento.

All’interno di questi autori, pur non potendo entrare nel merito delle più di duecento regie da lui firmate, sono enucleabili alcuni spettacoli guida: Riccardo II (1948), Giulio Cesare (1953), Coriolano (1957), Il gioco dei potenti (1965), Re Lear (1972), La tempesta (1978) per Shakespeare; Arlecchino in tutte le sue versioni (a partire dal 1947), lo spettacolo italiano più visto nel mondo e quello di più lunga vita, La trilogia della villeggiatura (1954), Le baruffe chiozzotte (1964) e Il campiello (1975) per Goldoni; Platonov (1959) e Il giardino dei ciliegi (1955 e 1974) per Cechov; le diverse edizioni de I giganti della montagna (1947, 1966, 1994) e Come tu mi vuoi (1988) per Pirandello; El nost Milan (1955 e 1979) e L’egoista (1960) per Bertolazzi; La casa di Bernarda Alba di García Lorca (1955) e, soprattutto, Temporale di Strindberg (1980) per la drammaturgia borghese; La visita della vecchia signora di Dürrenmatt (1960), La grande magia di Eduardo De Filippo (1985) per la drammaturgia contemporanea; L’opera da tre soldi (1956), L’anima buona di Sezuan (1958, 1981 e 1996), Santa Giovanna dei macelli (1970) e soprattutto Vita di Galilei (1963) per Brecht.

Ma, all’interno di una produzione stupefacente, a venire in primo piano è il lavoro sui segni del teatro (le scene, le atmosfere, le sue inimitabili luci, e quella capacità prodigiosa nel saper ricreare, con apparente leggerezza, situazioni di altissima poesia) e lo scavo esigente, duro, mai soddisfatto sulla recitazione, che trova il suo vertice nel vero e proprio corpo a corpo che egli instaura con gli attori: un vero esempio di maieutica; e, per chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue prove, l’epifania di un metodo teatrale. La storia di Strehler, scandita dall’aprirsi e dal chiudersi dei sipari, si svolge eminentemente al Piccolo Teatro, ma non solo: nel 1968 abbandona via Rovello per fondare un suo gruppo, il Teatro Azione, su basi cooperativistiche; con questo gruppo presenta La cantata del mostro lusitano di P. Weiss (1969), spettacolo anticipatore di un teatro concettualmente `povero’, e Santa Giovanna dei macelli (1970), che sigla il suo ritorno ‘a casa’.

Ma Strehler ha anche diretto il neonato Teatro d’Europa, voluto da Jack Lang e da Françoise Mitterrand a Parigi. Del resto il suo cursus honorum è lunghissimo: parlamentare europeo, senatore della Repubblica, un lungo elenco di onorificenze, fra cui l’amatissima Legion d’onore; ma gli ultimi anni sono segnati dall’amarezza per un processo che lo vedrà, alla fine, innocente. È morto nella notte di Natale; le sue ceneri riposano a Trieste, nel cimitero di sant’Anna, nella semplicissima tomba di famiglia. Notevole l’apporto registico di Strehler all’opera lirica, favorito dalla conoscenza della musica e dalla «abilità di saper svecchiare i gesti inseparabili e tradizionali dei cantanti».

Delle tantissime regie, da ricordare le partecipazioni al Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia (Lulu di A. Berg, 1949; La favola del figlio cambiato di G.F. Malipiero, 1952; L’angelo di fuoco di S. Prokof’ev, 1955), al Maggio musicale fiorentino ( Fidelio di Beethoven, 1969), al Teatro alla Scala (fin dalla primavera del 1946 con Giovanna d’Arco al rogo di A. Honegger, con Sarah Ferrati), almeno per il Verdi, oltre che della già citata Traviata , del Simon Boccanegra (1971), del Macbeth (1975) e del Falstaff (1980); e di Mascagni, della lodatissima Cavalleria rusticana diretta da Karajan (1966); alla Piccola Scala per L’histoire du soldat di I. Stravinskij (1957), Un cappello di paglia di Firenze di N. Rota (1958) e Ascesa e caduta della città di Mahagonny di K.Weill (1964); oltre al lavoro sul prediletto Mozart, condotto attraverso Il ratto dal serraglio (1965) e Il flauto magico (1974) al festival di Salisburgo, Le nozze di Figaro a Parigi (1973), Don Giovanni alla Scala (1987) e la soave leggerezza di Così fan tutte, inno all’amore e alla giovinezza: più che un testamento, un ponte (anche se dall’impalcatura ancora scoperta, a causa dell’improvvisa scomparsa a pochi giorni dalla prima) gettato fra il lavoro di cinquant’anni e il nuovo secolo (per il teatro milanese nella nuova sede e per chi è rimasto e può raggiungerlo ormai solo col ricordo).

Grassi

Figura di spicco nella Milano degli anni ’40, il giovanissimo Paolo Grassi organizza la Ninchi-Tumiati, fonda ‘Palcoscenico’, primo gruppo di teatro sperimentale italiano attivo alla Sala Sammartini di Palazzo Serbelloni: con lui ci sono Franco Parenti, Liana Casartelli, Giuliana Pogliani, Mario Feliciani, Speranza Pistoia, Giuseppe Migneco e Luigi Veronesi e si rappresentano testi di Pirandello, Roberto Rebora, Ernesto Treccani, Beniamino Joppolo, Tullio Pinelli, Cesare Meano, Leopardi (frequentatissimo in quegli anni il suo Federico Ruysch e le sue mummie ) e Yeats, O’ Neill, Synge, Evreinov, Cechov; nell’ultimo spettacolo, dato al Palazzo dell’Arte al Parco, prende parte anche il neolaureato attore all’Accademia dei Filodrammatici, G. Strehler. Nell’immediato dopoguerra è critico drammatico de “l’Avanti!”, dirige la collana teatrale della Rosa e Ballo dove appaiono, fra gli altri, testi di O’ Casey, Wedekind, Strindberg, Toller, Büchner, Majakovskij e con Strehler è attivissimo al Circolo Diogene, che svolge attività di letture, intorno al quale si muove il meglio del teatro italiano che, nel ’46, fa capo a Milano: ci sono Gassman, la Torrieri, Carraro, Ferrieri, Landi, Jacobbi, Ettore Gaipa; Grassi, fresco della regia di Giorno d’ottobre di Kaiser per la compagnia di Adani, presenta La linea di condotta di Brecht, e Strehler legge con Gassman e Carraro Il cancelliere Krehler di Kaiser e presenta l’ Edipo re nella nuova traduzione di Quasimodo.

Intrecciati così i loro destini, Grassi e Strehler fondano nel ’47 il Piccolo Teatro della Città di Milano, primo Stabile italiano: «Noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana, un astratto omaggio alla cultura (…) e nemmeno pensiamo al teatro come a un’antologia di opere memorabili del passato o di novità curiose del presente, se non c’è in esse un interesse vivo e presente che ci tocchi (…) Il teatro resta quello che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale o nella loro responsabilità sociale. Il centro del teatro sono dunque gli spettatori, coro tacito e attento. Chiediamo la vostra solidarietà in questa nostra fatica» (dal programma dell’ Albergo dei poveri di Gor’kij, spettacolo inaugurale, 14 maggio 1947). G. resta alla direzione del Piccolo fino al ’68 con Strehler. Dal 1968 al ’71 ne mantiene alto e vivo il valore, da solo, con una programmazione eclettica che presenta nuove linee registiche e scenografiche, con una ventina di spettacoli, e apre nuovi spazi (decentramento e tendoni): arrivano il giovane Chéreau, la Mnouchkine con Grüber, Bellocchio, Scabia e i suoi `interventi’ in L’isola purpurea di Bulgakov e gli scenografi Arroyo, Allio, Luzzati insieme ai testi di Wedekind, Adamov, Gatti, Neruda, Dorst, ma anche il Brecht di Strehler ( Santa Giovanna dei macelli ), perché «morto Strehler non se ne fa un altro» dichiara consapevolmente. Dal 1972 al ’77 è sovrintendente alla Scala succedendo a Ghiringhelli e poi direttore della Rai. La storia di G. è quella di una grande amicizia – unica nella storia del teatro del ‘900 – che ha saputo salvaguardare e grandemente aiutare con forza e acutezza quel talento di Strehler che ha fatto di Milano il centro di cultura che tutta Europa ci ha invidiato.

Scuola d’arte drammatica `Paolo Grassi’

Fondata nel 1951 da Grassi e Strehler come scuola del Piccolo Teatro, dal 1967 la Scuola d’arte drammatica `Paolo Grassi’  passa alla gestione del Comune di Milano. Dopo aver proposto un corso per attori ha successivamente esteso il campo della formazione professionale ad altre attività dello spettacolo: oggi offre corsi di regia teatrale, corsi per operatori dello spettacolo, corsi di scrittura drammaturgica e atelier di teatro-danza, rappresentando un punto di riferimento fondamentale nel panorama delle scuole di teatro. Si è imposta nel campo della ricerca e della promozione culturale organizzando seminari e incontri con importanti personaggi del mondo dello spettacolo e proponendo la rassegna `Scena prima’ per la ricerca di nuovi gruppi teatrali. Attiva nelle varie manifestazioni delle città italiane con i suoi spettacoli, nella attuale sede di via Salasco ospita una biblioteca specializzata, un laboratorio audiovisivi, una sartoria teatrale e un laboratorio di costruzione scenotecnica. Moltissimi i diplomati diventati famosi, per citare solo gli ultimi: P. Rossi, A. Albanese. Tra i direttori vanno almeno citati: Roberto Leydi per l’intensa attività sulla cultura popolare e Renato Palazzi per l’apertura ai maestri stranieri da Müller a Kantor alla Bausch.