wayang

Wayang è un termine che indica un gran numero di forme teatrali dell’Indonesia, paese estremamente ricco di tradizioni spettacolari che nel nostro secolo hanno affascinato e influenzato diversi artisti occidentali, in particolare Artaud. Come nella maggior parte delle tradizioni orientali, recitazione, canto, musica, tecniche del corpo sono inscindibili; ciò nondimeno i wayang si distinguono in base al mezzo spettacolare: marionette, maschere, attore senza maschera. Tutti i wayang hanno un ‘dalang’ (marionettista o narratore) e sono accompagnati dal gamelan, un’orchestra di strumenti a percussione, prevalentemente gong e campane, accordati fra loro, cui si affiancano a volte cantanti, una sorta di liuto detto `rebab’ e flauto.

Le storie narrate provengono: dai due cicli classici del Mahabharata e del Ramayana, indicati nella tradizione indonesiana dal termine `purwa’ (originali); dal ciclo Panji , un principe giavanese in cerca di un amore perduto; da Amir Hamzah, leggenda riguardante un antico re arabo. Il termine wayang deriva forse da `bayang’ (ombra) e il teatro delle ombre giavanese, `wayang kulit purwa’, è la più antica forma di rappresentazione in Indonesia e di origine presanscrita, benché, come indica il termine `purwa’, il suo repertorio si basi sull’epica indiana. In origine era probabilmente una rappresentazione sciamanica, in cui venivano evocati gli antenati sotto forma di ombre per comunicare con i loro discendenti; l’elemento della trance, della possessione è costitutivo di questa come di molte altre forme teatrali indonesiane e soprattutto balinesi.

Nel `wayang kulit’, il `dalang’ manovra abilmente delle marionette di cuoio (`kulit’ significa appunto cuoio) dietro uno schermo di tela, che sono illuminate in modo da proiettarvi la propria ombra. Diffuso a Bali e Giava nel X secolo, ha mantenuto a Bali (si ritiene) lo stile più antico, più realistico rispetto a Giava dove, probabilmente per l’influsso islamico che proibiva immagini umane, le marionette sono più astratte. La rappresentazione tipica, preceduta e inframmezzata da elementi rituali, inizia tardi la sera e continua fino alle prime ore del giorno: inizia con una narrazione rituale, seguita dalla `danza dell’albero della vita’, simbolo della creazione; poi l’azione mostra in genere sovrani in conflitto, raggiungendo il climax con una battaglia che porta alla sconfitta del cattivo Cakil.

Altri generi diffusi di wayang legati a marionette sono: `wayang klitik’ (marionette di legno bidimensionali) e `wayang golek’ (marionette di legno tridimensionali; risale al XVI secolo); `wayang wong’ (marionetta umana, con gesti altamente stilizzati e talvolta maschere, a imitazione delle marionette). Molte forme di teatri d’ombre e di marionette di paesi vicini derivano probabilmente dal `wayang kulit purwa’ indonesiano: vanno ricordate almeno le tradizioni di Thailandia (`nang talung’ e `wayang siam’), Cambogia, Malesia (`wayang malayu’). Per gran parte delle forme spettacolari indonesiane vale la differenziazione fra tradizione giavanese – più astratta, sviluppatasi in seguito all’islamizzazione – e quella di Bali, fiorita all’ombra della corte induista, rimasta al potere in un sostanziale isolamento fino al nostro secolo.

Le forme balinesi più note oggi in Occidente, oltre alla variante locale di teatro delle ombre (`wayang parwa’), sono: il `wayang topeng’ (maschera), teatro mascherato, sviluppato a Bali nel XVII secolo, la cui forma più antica è il `topeng pajegan’, prevede un singolo attore con cinque diverse maschere, che all’inizio della rappresentazione egli pone in un cesto davanti al gamelan e che indossa una dopo l’altra, cambiandole man mano che cambia personaggio fino all’ultima (più recente il `topeng panca’ , dove gli attori sono cinque); il `legong’, danza affidata tradizionalmente solo a bambine, accompagnate dal gamelan; il `gambuh’, teatro danza sviluppato presso la corte hindu-buddista che resse Bali dal XVI secolo; il `baris melampan’, forma strutturatasi progressivamente attorno al `baris’, danzatore che rappresenta il guerriero. Va ricordato pure il `barong’ , creatura mitica simile al leone (e forse derivato dal leone cinese), al centro d’una rappresentazione che mostra un conflitto fra questi – enorme corpo-maschera animato da due attori ben coordinati, di cui uno controlla la testa, che può aprire la bocca, e l’altro la coda – e la strega Rangda, che si muove poco, guarda attraverso occhi bulbosi e terrificanti e lancia formule magiche.

Brook

Peter Brook diresse il suo primo spettacolo e il suo primo film quando era ancora studente a Oxford e iniziò la carriera professionale nel 1945 al Birmingham Repertory Theatre dove collaborò per la prima volta con P. Scofield, suo frequente compagno d’avventure teatrali per oltre tre lustri. L’anno dopo debuttava a Stratford-upon-Avon mettendo in scena, con costumi ispirati a Watteau, Pene d’amor perdute, che lo rivelò, appena ventunenne, alla critica inglese. Poi, fino alla fine degli anni Cinquanta, lavorò principalmente per i teatri commerciali, allestendo, a Londra, a New York o a Parigi, spesso con interpreti di grande nome, testi di Miller e di Williams, di Anouilh e di Dürrenmatt, di Eliot e di Genet, ma anche commediole come La capannina di Roussin e musical come Irma la douce di Breffort. Nello stesso periodo firmò tuttavia a Stratford alcuni spettacoli shakespeariani, con esiti memorabili soprattutto per Misura per misura (1950) con J. Gielgud) e Titus Andronicus (1955, con L. Olivier) messi in scena dando particolare rilievo ai loro aspetti più inquietanti e più provocatori attraverso il sistematico ricorso alla fisicità degli attori, chiamati, come non era mai accaduto nella tradizione recitativa inglese, a esprimersi anche e soprattutto coi loro corpi. Traduceva insomma in termini teatrali le intuizioni di Artaud, temperate in parte dalla lezione brechtiana (con il rifiuto e lo smantellamento dei concetti di immedesimazione e di illusione scenica) e in parte da ciò che c’era ancora di vivo in quella tradizione recitativa alla quale peraltro si opponeva.

Negli anni Sessanta tutte queste influenze (cui si aggiunse presto anche quella di Grotowski) cominciarono a confluire in uno stile convincente e inconfondibile, pur nella molteplicità delle sue esperienze registiche, tese ogni volta all’esplorazione di nuove strade anziché al mero approfondimento dei risultati già raggiunti. Il decennio, durante il quale Brook lavorò principalmente, a Stratford e a Londra, per la Royal Shakespeare Company, istituita nel 1961, si aprì e si chiuse con due straordinarie messinscene shakespeariane: nel 1962 un Re Lear con Scofield che, partendo da un saggio di J. Kott, accostava la grande tragedia, sbarazzata da tre secoli di incrostazioni interpretative, al mondo desolato di Finale di partita ; e nel 1970 un Sogno di una notte di mezza estate (portato al festival di Venezia nel 1971) che richiedeva agli attori di utilizzare tecniche del circo e del teatro orientale per dar rilievo agli inquietanti sottotesti di questa commedia che appariva così in una luce sorprendentemente nuova, in un sapiente equilibrio fra aspetti ludici e rituali. Ma il decennio vide anche altri esperimenti di grande significato, quali la stagione del ‘teatro della crudeltà’ (1964) con un discusso e stimolante spettacolo-saggio al termine di una lunga fase laboratoriale; l’allestimento del Marat/Sade di Weiss (1964) che faceva tesoro di questa esperienza per approdare a uno spettacolo di sconvolgente fisicità e di nuova e impressionante teatralità; e la discussa proposta di US (1966), dove il titolo significava sia `Stati Uniti’ sia `Noi’, una riflessione in termini squisitamente teatrali sul tema allora scottante della guerra nel Vietnam.

Con gli anni Settanta Brook che, nonostante i successi ottenuti, si sentiva sempre più soffocare dalle strutture del teatro inglese, compreso quello artisticamente più avanzato, e desiderava lavorare in modo più sperimentale, lasciò l’Inghilterra (vi sarebbe tornato solo nel 1978 per mettere in scena Antonio e Cleopatra a Stratford) e fondò a Parigi, con finanziamenti dell’Unesco e di varie fondazioni, un Centre International de Recherche Théâtrale (ribattezzato nel 1979 Centre International de Création Théâtrale), riunendo intorno a sé in un vecchio teatro di varietà abbandonato – il Théâtre des Bouffes du Nord – attori, mimi, danzatori, acrobati e musicisti di diversi paesi. L’obiettivo era insieme di pervenire a un’unità di gruppo che andasse oltre le differenze nazionali, e di esplorare non solo soluzioni linguistiche, ma materiali storico-mitologici appartenenti a culture estranee all’Occidente. L’attività del Centre iniziò nel 1971 con l’allestimento al Festival di Persepoli di Orghast , uno spettacolo rituale scritto dal poeta Ted Hughes in persiano antico e interamente affidato all’eloquenza delle voci, dei gesti e dei corpi. Seguì un lungo e movimentato viaggio nell’Africa nera alla scoperta di antiche leggende e del modo di vivere di tribù prossime all’estinzione, sfociato in due spettacoli importanti, Les Iks (1975) e La conférence des oiseaux (1979); e finalmente, nel 1985, quello che resta a tutt’oggi il capolavoro di questo regista: la versione teatrale, di nove ore, del Mahabharata, il monumentale poema epico sanscrito, raccontato a un ragazzo e agli spettatori da attori di differenti nazionalità che, in un luogo scenico quasi totalmente spoglio, mescolavano, con irresistibili effetti visivi, stili, razze, accenti e tradizioni teatrali differenti in un discorso su temi fondamentali come la scoperta di sé, i rapporti dell’uomo con la società e le forze che ne determinano il comportamento. Meno importanti, o almeno meno clamorosamente innovatori, anche se di impeccabile fattura e spesso di profonda suggestione, furono gli altri spettacoli del Centre, fra i quali un Timone d’Atene in francese (1974), un Ubu (1977), un Giardino dei ciliegi (1981), una Tragédie de Carmen (1981) in versione da camera, una Tempesta (1987), L’homme qui (1993) da Oliver Sacks e Qui est là (1996), una variazione su Amleto. All’attività di regista Brook alternò quello di saggista teatrale con articoli su riviste e alcuni volumi, quali Il teatro e il suo spazio (The Empty Space, 1968) e Il punto in movimento (The Shifting Point, 1987).