Malina

Nata in Germania ed emigrata bambina negli Stati Uniti, Judith Malina studiò recitazione al Dramatic Workshop fondato da Piscator allora esule in America e partecipò anche, in ruoli minori, a spettacoli televisivi. Nel 1948 sposò Julian Beck e fondò con lui il Living Theatre, del quale condivise tutta l’avventurosa storia, facendo dell’impegno artistico e politico la sua principale ragione di vita. Di molti degli spettacoli prodotti da questo gruppo fu regista, a volte in collaborazione con Beck e a volte no (ma la coppia era inscindibile ed è difficile distinguere fra i loro contributi), di quasi tutti l’interprete spesso straordinaria. Fra le tante memorabili tappe della sua carriera, rimase impressa nella memoria di chi ebbe la ventura di vederla soprattutto l’ Antigone (1967) di Brecht da lei stessa tradotta, ma la sua presenza, in scena o dietro le quinte, fu determinante in tutta la storia del gruppo. Che continua a dirigere (insieme con Hanon Reznikov) anche dopo la morte di Beck (1985), compiendo soprattutto interventi provocatori nel sociale e continuando a diffondere lo stesso messaggio anarchico-pacifista. Nel 1994 ha recitato in italiano una riduzione di Maudie e Jane di Doris Lessing.

ricerca teatrale

La ricerca teatrale del secondo dopoguerra riprende l’istanza che già aveva caratterizzato le avanguardie storiche della prima metà del secolo. In questa prospettiva l’autore teatrale è colui che compone l’evento scenico, sia esso derivato o meno da un testo preesistente. Spesso è difficile decidere se una personalità, poniamo un regista, appartenga all’uno o all’altro fronte, né aiutano molto le relative dichiarazioni di poetica, visto che i creatori hanno la tendenza a esprimersi in termini teorici secondo schemi già consolidati, più per giustificarsi che per lanciare nuove proposte. Stabilito dunque che la ricerca autentica si svolge in scena, si possono distinguere tre questioni principali: la composizione scenica, l’organizzazione dello spazio e la recitazione (l’attore). Ovviamente si tratta di questioni strettamente connesse tra loro, distinguibili soltanto per comodità di esposizione. L’istituzione registica, fondamentale anche nel teatro `tradizionalmente’ moderno, ha espresso fino dall’inizio del XX secolo alcuni degli esponenti più significativi della ricerca teatrale.

Personalità come Vselovod E. Mejerchol’d o Jacques Copeau, pur senza disconoscere l’importanza del testo drammaturgico, hanno relativizzato l’importanza di quest’ultimo, procedendo a una composizione scenica in nuovi spazi non teatrali (aperti, per esempio in campagna, o chiusi, come fabbriche ecc.), alimentata da un intenso lavoro di allenamento e improvvisazione degli attori, da elevare alla nuova funzione di co-autori. Ma la vera svolta è quella che avviene nel nome di Antonin Artaud. Questi, benché riconosciuto soltanto a posteriori come il nume tutelare della ricerca del secondo dopoguerra, esprime nei propri scritti e nelle proprie sperimentazioni sceniche l’istanza più radicale. Il suo saggio Il teatro e il suo doppio indica in tale doppio, cioè la vita, e nel suo `rafforzamento’ (apparentabile alla volontà di potenza nietzschiana) il vero teatro, un teatro che non rappresenta ma che si fa azione, fino a produrre un cambiamento organico tanto nell’attore quanto nello spettatore. Questo cambiamento non è paragonabile a quello prodotto da una medicina o da una terapia psicologica su un corpo o una mente malati, ma a un disvelamento della realtà, uno stato che l’autore francese definisce come una consapevolezza della `crudeltà’, suprema legge umana. Il Living Theatre viene fondato da Julian Beck e Judith Malina alla fine degli anni Quaranta, come il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler. Mentre il secondo può essere considerato forse il massimo teatro di rappresentazione e interpretazione del secondo dopoguerra, il primo, sia pure inizialmente proponendo testi classici o contemporanei, rilancia la centralità della scena e cerca di ritrovare, se necessario anche attraverso la provocazione e il coinvolgimento fisico del pubblico, il potere di scuotere.

Con il Living l’atto teatrale esce dalla dimensione dell’ascolto per entrare in quella dell’azione (anarchica e non-violenta nel caso specifico). Così come succederà negli anni Sessanta a Peter Brook, il Living scoprirà Artaud soltanto dopo che alcuni dei propri memorabili spettacoli avranno suggerito ad alcuni critici e spettatori una coincidenza tra la sua poetica e l’istanza dell’autore francese. E così una teoria, ma soprattutto una visione, formulata negli anni Trenta è diventata in tutto il mondo il sigillo del rinnovamento, la formula capace di riassumere una nuova funzione del teatro e di prefigurare una diversa responsabilità artistica ed etica dei suoi autori. Dalla fine degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei Sessanta, in tutto il mondo prende corpo un movimento di ricerca teatrale disomogeneo nelle poetiche ma basato sull’assunto comune dell’azione (artistica o politica, oppure artistica e politica) che sostituisce la rappresentazione e l’ascolto, e del teatro che divorzia dallo spettacolo. Questo nuovo teatro non è più inteso come un’attività vicaria della lettura e della didattica, bensì come la meditazione condivisa (l’espressione è di Brook) di una comunità provvisoria riunita attorno a un oggetto artistico che spiazza i clichè teatrali e le abitudini percettive.

Dagli Usa (si pensi a Allan Kaprow, a John Cage o Merce Cunningham e via via al movimento anche drammaturgico che giunge fino a oggi e che ha in Robert Wilson un esponente universalmente riconosciuto) alla Polonia (dove si segnala Tadeusz Kantor, attivo anch’egli fino dagli anni Quaranta, uno dei maggiori autori teatrali del dopoguerra), dal Giappone (dove oltre alla `danza delle tenebre’ Butoh si registra un ricco fermento che va dal teatro d’artista – si pensi almeno a Shuji Terayama e a Tadashi Suzuki – all’agit-prop) fino alla Gran Bretagna, alla Francia e la Germania, dove fioriscono molti gruppi teatrali interessanti che il lettore trova descritti nelle apposite voci, all’Italia naturalmente, si sperimenta un teatro basato su materiali, tecniche e funzioni diverse da quelle che caratterizzano il modello occidentale sette-ottocentesco, il cosiddetto `teatro borghese’.

Nel nostro paese sono innanzitutto alcuni registi come A. Trionfo, per citare solo uno dei nomi più significativi, poi alcuni attori come C. Bene, L. De Berardinis e C. Cecchi, o degli artisti visivi come C. Remondi e R. Caporossi, M. Ricci e G. Nanni, a inaugurare, in aperta polemica con il Piccolo Teatro di Milano, i più significativi filoni di ricerca. A essi si può affiancare Dario Fo per l’aspetto politico e di controinformazione, anche se il drammaturgo-attore lombardo è terribilmente sopravvalutato per quanto riguarda la scrittura. Per merito di queste personalità si stabilisce a un diverso rapporto con i testi classici e moderni, non più `letti sulla scena’ ma vagliati con una sensibilità contemporanea, la stessa che poi altri registi come L. Ronconi, M. Castri o F. Tiezzi, per esempio, declineranno anche nelle concezioni scenografiche o nell’uso di spazi non tradizionali. Mentre gli attori-autori sviluppano, in base alle rispettive sensibilità e coordinate culturali, non solo una rivisitazione ricca di sorprese del repertorio (basti pensare a come diversamente tra loro hanno affrontato Shakespeare), ma anche un’arte attorica originale, che conta esponenti di rilievo anche nelle generazioni successive (basterà fare il nome di Sandro Lombardi). E infine si pensi al teatro creato dagli autori che privilegiano l’aspetto visivo, a sua volta concretizzatosi in esperienze il cui valore è oggi riconosciuto in tutto il mondo, per esempio quelle che fanno capo a G. Barberio Corsetti o alla Socìetas Raffaello Sanzio.

Certo è da rimpiangere che la storia non abbia consentito un confronto più stretto e un sincretismo fra i differenti aspetti della ricerca, mentre si assiste a un deciso revival dell’istituzione spettacolistica pubblica e privata, nonché della drammaturgia. Purtroppo ciò avviene nel segno del ritorno alla rappresentazione e a un teatro fatto di `scrittori’, `lettori’ e `critici’ di messaggi culturali, più gradito a un pubblico abitudinario e più consono agli orientamenti delle attuali classi dirigenti. Tant’è che un grande maestro come J.Grotowski si è da tempo ritirato dalla scena per darsi alla ricerca pura, in una sorta di esilio dorato e tuttavia non privo di riscontri per coloro che della scena continuano a occuparsi. Alle istituzioni orientate in senso didattico e commerciale e a una drammaturgia intesa nuovamente come opera che i professionisti della scena sono chiamati a tradurre fedelmente sono costretti ad adeguarsi gli autori della ricerca. Sempre più spesso accade che questi accettino di lavorare su commissione, ma con modi e tempi che non appartengono loro bensì alle strutture tradizionali, emendando il vecchio teatro con qualche `novità’, oppure inserendosi con le proprie opere negli interstizi dei normali cartelloni, a significare così una marginalità (per quanto lucrosa) e un alibi dei grandi teatri.

Negli altri paesi la situazione è simile, anche se forse meno intricata. Sembra infatti che aldilà degli incroci sempre più frequenti fra autori della ricerca e istituzioni maggiori, nella cultura e nel gusto di civiltà teatrali come quella francese o nordamericana sia più netta e in qualche modo più serena la distinzione tra un teatro-che-rappresenta-i-testi e un’arte scenica autonoma, che sviluppa la ricerca attraverso forme e linguaggi del teatro inteso come forma di vita e azione nella vita. Una controprova della dinamica viziata è costituita dalla quasi totale assenza delle donne da ruoli di primo piano in questo panorama, assenza dovuta non a una mancanza di talenti ma, appunto, alla logica generale che domina i meccanismi di produzione e dunque di selezione, logica prevalentemente maschile. Il secolo sembra chiudersi così con una strana contraddizione secondo la quale a fronte di un immenso potenziale di creatività artistica si risponde con una selezione che privilegia l’adattamento e il compromesso con il sistema della rappresentazione. Ma la lotta continua, con esiti alterni, e della vicenda non s’intravvede la fine.

Beck

Julian Beck iniziò come pittore legato all’espressionismo astratto statunitense, e dal 1948, quando con la moglie Judith Malina fondò a New York il Living Theatre, pur senza cessare di dipingere, si dedicò prevalentemente al teatro, firmando le scene di tutti gli spettacoli del Living, dirigendone molti e comparendo quasi sempre anche come interprete. La sua biografia si identifica con le vicende dell’organismo del quale fu l’animatore e la guida attraverso le sue varie fasi, da quella imperniata sull’allestimento di testi dell’avanguardia europea e americana a quella che vide la graduale affermazione di un’idea di teatro basata sulle improvvisazioni degli attori e sull’eloquenza dei loro corpi e sempre meno legata a testi drammaturgici preesistenti. Fondamentale fu anche il suo apporto all’evoluzione politica e ideologica che portò il gruppo a prendere posizioni esplicitamente anarchiche e pacifiste tutt’altro che gradite al sistema, e ad abbandonare a poco a poco l’attività teatrale vera e propria per mettersi al servizio delle battaglie politiche e sociali del tempo, in particolare quella contro l’intervento americano nel Vietnam, agendo nelle strade e in altri contesti non specificamente teatrali. Pubblicò, oltre a una raccolta di versi, numerosi scritti teorici, i più importanti dei quali furono raccolti nei volumi The Life of the Theatre (La vita del teatro, 1972) e Theandric, uscito postumo nel l992.

Living Theatre

Living Theatre è gruppo teatrale americano fondato a New York nel 1948 da Julian Beck e Judith Malina. Il più importante e il più influente (non solo negli Stati Uniti ma in Europa) fra quelli che, opponendosi radicalmente a Broadway e a tutto ciò che esso rappresentava, compreso il sistema politico, economico e culturale di cui era più o meno direttamente l’espressione, aprirono al teatro nuove vie, suscitando consensi appassionati e dure ostilità e fornendo ispirazione a giovani teatranti irrequieti di ogni parte del mondo. Legati da un lato alla tradizione anarchico-pacifista della sinistra americana, dall’altro ai movimenti artistici d’avanguardia dell’immediato dopoguerra, all’inizio i due fondatori si proponevano soprattutto di affrontare i problemi del linguaggio e di allestire testi americani e stranieri di elevato contenuto poetico. Il primo spettacolo, che comprendeva atti unici di Paul Goodman, della Stein, di Brecht e di Lorca, fu allestito nel loro appartamento nell’estate del 1951. Pochi mesi dopo, con la messinscena di Doctor Faustus Lights the Light, una rielaborazione del tema faustiano scritta nel 1938 da Gertrude Stein, iniziò, stavolta in un teatro, quella che potremmo definire la fase Off-Broadway della storia del Living Theatre, durante la quale venne presentato, con inconsueto rigore e con criteri radicalmente differenti dal neo-naturalismo dominante, un repertorio alternativo a quelli delle scene commerciali. Fra gli autori in cartellone erano Jarry e Cocteau, Strindberg e ancora Goodman, ma anche il Racine di Fedra e il Pirandello di Questa sera si recita a soggetto .

I luoghi nei quali agivano furono per un anno un teatrino lontano da Broadway, per altri quattro un magazzino in disuso vicino a Broadway, e finalmente dal 1959 al 1963, dei locali che avevano appositamente ristrutturato, dove Living Theatre divenne il nome non solo di un gruppo ma di un vero e proprio teatro. In questa sede furono ancora messi in scena testi letterari preesistenti (da Many Loves di W.C. Williams a due opere di Brecht, Nella giungla delle città e Un uomo e un uomo ), ma vennero anche presentati i due spettacoli che segnarono l’inizio di una nuova fase: The Connection (1959) e The Brig (1963). Avevano entrambi un autore – rispettivamente Jack Gelber e Kenneth Brown – ma nascevano di fatto da esercizi d’improvvisazione collettiva che sviluppavano situazioni (nel primo caso un gruppo di tossicodipendenti in attesa di chi dovrà portar loro la droga, nel secondo le angherie quotidiane in una prigione di marines) più che costruire drammi nell’accezione tradizionale del termine. Mancavano infatti, soprattutto in The Brig, sia un vero intreccio sia una reale definizione dei personaggi. Attraverso la ripetitività delle azioni, perfettamente coreografate, si trasmetteva un messaggio di denuncia della brutalità dell’uomo sull’uomo e dei meccanismi implacabili escogitati dal sistema per distruggere chi non si piegava alle sue regole. Il discorso politico, presente in filigrana anche nell’attività precedente, diventava sempre più esplicito in un’America che s’accingeva a vivere i grandi movimenti di protesta degli anni Sessanta, da quelli dei neri e degli studenti alle manifestazioni contro l’intervento nel Vietnam. Il L. T. li visse in parte in Europa dopo che nell’ottobre del 1963 Beck e la Malina, accusati di evasione fiscale e condannati a pene detentive che avrebbero scontato più avanti, erano stati costretti a chiudere il loro teatro.

E fu nei quattro anni dell’esilio europeo, dal settembre 1964 all’agosto 1968, che portarono a maturazione la loro posizione ideologica – “Vita, rivoluzione e teatro” – avrebbe detto Beck – “sono tre parole che significano una sola cosa: un no categorico alla società attuale” – perfezionarono il loro modo di fare teatro, fondato sull’improvvisazione, sulla fisicità e sul coinvolgimento degli spettatori nell’azione scenica con l’eliminazione pressocché totale di scene, costumi ed effetti, e presentarono quegli spettacoli ai quali soprattutto rimase legata la loro fama. Il primo fu Mysteries and Small Pieces (1964), una serie di scene a se stanti, di chiara ispirazione artaudiana, che, rinunciando quasi del tutto alla parola, si rivolgevano contemporaneamente a tutti i sensi degli spettatori, scuotendoli e turbandoli. Il secondo, dopo una messinscena delle Serve di Genet interpretate da tre uomini, fu Frankenstein (due differenti versioni, l’una nel 1965, l’altra nel 1966), che partiva dal romanzo di Mary Shelley e mostrava, alternando effetti di grande suggestione rituale e momenti di sconvolgente ferocia, lo smembramento dell’uomo e il suo rimontaggio come un gigantesco robot. Seguirono un libero adattamento dell’ Antigone di Brecht (1967) trasformata in un grido disperato di libertà, e infine, al festival d’Avignone del 1968, Paradise Now , definito “un viaggio spirituale e politico per attori e spettatori”, destinato a proseguire nelle strade, che era certamente più vicino a una grande cerimonia rivoluzionaria collettiva che a una vera rappresentazione teatrale.

Dal teatro, in effetti, (quello dell’autore come quello del regista) il gruppo si era sempre più allontanato, con questi spettacoli rivolti a un pubblico del tutto compartecipe che ne condividesse i messaggi spesso semplicistici. A questo radicalismo, politico e artistico, s’accompagnava uno stile di vita che contribuì alla loro fama (o alla loro notorietà): `tragici dell’arte’, li definì qualcuno, alludendo alla loro natura di nomadi vagamente scalcinati e alla serietà profonda del loro impegno. E tali rimasero anche negli anni del declino, coraggiosamente fedeli alle proprie scelte e utopisticamente decisi a influire su una società che, in America e altrove, stava andando in direzioni differenti. Produssero ancora spettacoli – da Sette meditazioni sul sadomasochismo politico (1973) a Prometeo (1978) – e continuarono a girare il mondo, dall’Europa al Brasile, dove rimasero per tredici mesi, per trasmettere il loro messaggio anarchico-pacifista e per esprimere la loro attiva solidarietà ai movimenti di protesta politica e sociale. Dopo la morte di Beck (1985), il Living Theatre, sotto la guida della Malina affiancata da Hanon Reznikov, continua la sua attività, soprattutto a New York, presentando spettacoli, partecipando alle lotte dei diseredati e organizzando manifestazioni di teatro di strada.

psicoanalisi e teatro

Psicoanalisi e teatro si riferisce a una linea di pensiero novecentesca che individua nella creazione di relazioni autentiche (tra sé e sé e tra sé e il mondo esterno) l’obiettivo comune a teatro e terapia. Il gioco si presta bene a quest’obiettivo. In Al di là del principio del piacere S. Freud riconosce nel `gioco del rocchetto’ un simbolico tentativo di elaborare l’angoscia del lutto: egli osserva un bimbo di diciotto mesi che lancia ripetutamente lontano un rocchetto legato a un filo per poi riavvicinarlo a sé. Il gioco simboleggia l’allontanamento della madre, motivo d’angoscia per il piccolo, e il suo riavvicinamento. La ripetuta esperienza ludica gli permette di passare da una posizione passiva a una posizione attiva, da spettatore ad attore di una scena giocata e rielaborata in prima persona. Per D.W. Winnicott, specializzato in psicoanalisi clinica infantile, il teatro è – così come il gioco per il bambino – uno `spazio transizionale’ (cioè di passaggio) tra desiderio e realtà, mentre la maschera e gli oggetti scenici fungono – così come i giocattoli per il bimbo – da `oggetti transizionali’, poiché consentono all’individuo di sperimentarsi nei diversi ruoli per poi `giocare’ quello a sé più confacente. E. Goffman, studioso delle istituzioni sociali soprattutto psichiatriche, paragona la vita quotidiana a una rappresentazione dove gli individui `recitano’ ruoli diversi in base a situazioni diverse, mossi dall’inconscio desiderio di essere appagati dall’applauso della società. V. Turner, antropologo teatrale, intravede nel `come se’ del gioco teatrale un potenziale elemento terapeutico, quando esso riesce a trasformarsi in `come è’.

Come nei riti di passaggio: l’individuo/attore, in comunione con una collettività partecipante/pubblico, fa esperienza di una diversa dimensione vitale, passando da una previa fase di normalità a una fase mediana di `liminalità’, periodo a-normativo dove la trasgressione diventa liceità (come nel Carnevale) per, infine, essere reintegrato all’interno della comunità, ora in un’ottica più adulta e matura. Per quanto riguarda più da vicino il teatro, cenni comuni a p. e t. sono già rintracciabili nella psicotecnica di Stanislavskij, training basato sull’incontro creativo tra sé (uomo/attore) e l’altro (personaggio), di cui bisogna vestire i panni pur sapendo rimanere se stessi. Invece J. Beck e J. Malina, fondatori del Living Theatre, riprendono in parte il teatro della crudeltà di Artaud, riconoscendo nella sua follia esibita (nonché realmente vissuta) una potenzialità terapeutica: la demolizione della crudeltà attraverso la sua rappresentazione, ossia l’esorcizzazione della violenza reale.

Il teatro socio-politico del Living interviene direttamente sulla realtà, trasformando l’intenzione in azione. ‘Fare teatro’ significa essere totalmente coinvolti in ciò che accade dentro e intorno a te. J. Grotowski, con il teatro povero, fonda il proprio metodo teatrale eliminando ogni sovrastruttura scenografica per andare alla scoperta del corpo in scena. L’attore è un `attore santo’ portatore di `luce spirituale’, che come un capro espiatorio assume su di sé le colpe e il male di tutti. La condivisione delle emozioni non passa però dalla psiche, ma dal corpo. Le prove diventano più importanti dello spettacolo, il processo vince sul prodotto: la nuova via sperimentale del Teatro Laboratorio è fondata. L’attore, se pronto alla disciplina e all’offerta di sé, può giungere all’autopenetrazione e allo “scarico dei complessi proprio come in un trattamento psicoanalitico”. E. Barba, già discepolo di Grotowski e poi fondatore dell’Odin Teatret, rifiuta la prospettiva psicoanalitica di Freud (il problema del soggetto è psicodinamico e intrapsichico, cioè sostanzialmente rimane dell’individuo) per avvicinarsi a una prospettiva psicosociale (il problema del soggetto è interpsichico: dev’essere partecipato dalla comunità, in quanto corresponsabile). Si diffonde la pratica del `terzo teatro’, fatto né per chi va a teatro né per chi lo rifiuta aprioristicamente, bensì per chi è ai margini, per chi vive per strada. E così il teatro di strada diventa un veicolo per rimettere in circolo le emozioni di chi viene allontanato nelle zone d’ombra che riecheggiano le zone più ambigue della nostra psiche, dove ribolle silenziosamente ciò che preferiamo negare. P. Brook, con lo spettacolo Marat/Sade di P. Weiss, apre una breccia sulla riflessione tra teatro e psichiatria. Si rappresenta l’assassinio di J.-P. Marat, ammazzato da un manipolo di malati mentali di una clinica francese, dove il marchese de Sade li farà costituire in compagnia teatrale. Il linguaggio e le immagini sono acri, ma a Brook preme un teatro immediato, vero, denso di chiaroscuri come la vita. Il teatro non può essere terapeutico se cela, ma se svela.

Dagli anni ’60, con la diffusione degli happening e dunque con l’integrazione tra attori e spettatori (da Boal chiamati `spettattori’), nasce l’animazione teatrale che, attraverso laboratori teatrali attenti al processo più che al prodotto, ben presto si insedia nelle zone del disagio: manicomi, carceri, centri per l’handicap Questo diviene il bacino d’utenza per animatori (psicologi, educatori ecc.) che, partendo da certi capisaldi della psicoanalisi, se ne discostano per avvicinarsi sempre più ai paradigmi teatrali, dove la dimensione dell’incontro e della relazione viene salutata come terapeutica di per sé. La legge Basaglia del 1978 consente l’apertura dei cancelli dei manicomi e il successivo sorgere delle artiterapie, laboratori di espressività per piccoli gruppi tesi a trasformare i pazienti in attori, realizzatori dei propri desideri. Il Velemir Teatro di Trieste, capitanato da un ex degente di manicomio, ne è un esempio.