Beckett

Nato in una famiglia anglo-irlandese di religione protestante, Samuel Beckett studiò lingue e letterature romanze al Trinity College di Dublino, laureandosi con una tesi, successivamente pubblicata, su Proust. Nella stessa università tentò anche la carriera accademica, interrotta nel 1928-29 da un anno a Parigi come lettore d’inglese (fu allora che strinse rapporti d’amicizia con Joyce) e troncata nel 1931 quando presentò le dimissioni. Poi per qualche tempo girò l’Europa, e in questo periodo scrisse fra l’altro il romanzo Murphy e si mantenne facendo lavori di vario genere. Nel l937 si stabilì a Parigi, dove avrebbe vissuto, con pochi intervalli, fino alla morte. Poté restarvi anche durante l’occupazione tedesca, essendo cittadino della neutrale Repubblica irlandese, ma, avendo partecipato alla Resistenza, fu costretto a fuggire nella Francia non occupata quando stava per essere arrestato dalla Gestapo. Per sopravvivere lavorò come bracciante agricolo nella Vaucluse, poi si arruolò nella Croce Rossa e, dopo un breve soggiorno in patria, tornò stabilmente a Parigi nell’autunno del 1945. Fu allora che cominciò a scrivere prevalentemente in francese (traducendo poi in inglese i propri testi), perché, come ebbe a dichiarare in seguito, il servirsi di una lingua acquisita gli permetteva di evitare le lusinghe e le trappole del bello stile.

In pochi anni divenne famoso, prima con la trilogia narrativa comprendente Malloy, Malone muore (Malone meurt) e L’innominabile (L’innommable) che, pubblicata fra il 1951 e il 1953, attirò l’attenzione della critica più avveduta, poi, e soprattutto, con la rappresentazione del suo secondo testo teatrale (il primo, Eleutheria, scritto nel 1945, rimase inedito fin dopo la sua morte), Aspettando Godot (En attendant Godot), messo in scena da Roger Blin il 5 gennaio 1953 in un piccolo teatro della Rive Gauche. Era la bizzarra storia di due vagabondi vestiti come Charlot che ogni sera attendono invano in una strada di campagna l’arrivo di un misterioso personaggio in grado di dar loro lavoro e protezione, e quasi inevitabilmente sconcertò e irritò molti dei primi spettatori, sia per l’assenza di una trama riconoscibile come tale sia per l’insolita miscela di entrée clownesche e suggestioni metafisiche. Fu merito di Anouilh mettere a tacere i loro dubbi con un articolo di vasta risonanza nel quale la commedia veniva brillantentemente definita, anche se con palese genericità, «i Pensieri di Pascal recitati dai Fratellini». Poi il successo, esteso ben presto ai teatri di tutto il mondo, e la ridda delle interpretazioni di un testo così terso e così misterioso (Godot, per esempio, era davvero God, cioè Dio, o un’eco di quel Godeau, personaggio del Mercadet di Balzac che però alla fine arriva e risolve il complicatissimo intreccio?) e quell’influenza determinante su tanti copioni altrui che fece entrare l’aggettivo `beckettiano’ in tante lingue europee. Fu il suo primo capolavoro, e la sua prima proposta di una nuova, rivoluzionaria drammaturgia.

Seguì, nel 1957, Finale di partita (Fin de partie). Qui i protagonisti si chiamano Hamm e Clov (e il primo nome fa pensare a `ham’, gigione, come a `hammer’, martello; il secondo a `clown’ come a `clou’, chiodo). L’uno è un vecchio cieco immobilizzato su una sedia a rotelle, l’altro una sorta di figlio-schiavo che gli si agita intorno in continuazione sognando di andarsene dal luogo chiuso in cui si trovano (una sorta di torre isolata da un mondo privo di vita). Ci sono inoltre due decrepiti genitori che sopravvivono, ridotti a moncherini, in due bidoni per la spazzatura. Anche qui farsa e tragedia si mescolano inestricabilmente: le gag si inseriscono in un contesto di disperata condizione umana e in un mondo ridotto a terra desolata forse da un’ultima guerra atomica, e frequenti sono i richiami alla storia della Crocifissione. A differenza di queste due commedie, quasi tutte le opere teatrali successive, sempre più spoglie ed essenziali e sempre più lontane dall’idea ricevuta di teatro, furono scritte originariamente in inglese e tradotte poi in francese. In L’ultimo nastro di Krapp (Krapp’s Last Tape , 1958) un anziano scrittore siede da trent’anni davanti un registratore ad ascoltare vecchi nastri da lui stesso incisi nel tentativo impossibile di dialogare con se stesso e col proprio passato; in Giorni felici (Happy Days, 1961) una donna sulla cinquantina monologa su se stessa e sulle sue memorie continuando a sprofondare nel monticello di sabbia nel quale è immersa; in Commedia (Play, 1963) spariscono del tutto anche queste fragili connessioni con la drammaturgia tradizionale e in scena ci sono due donne e un uomo sepolti fino al collo nelle loro urne che parlano soltanto quando i loro volti vengono illuminati da un raggio di luce, e il breve testo deve essere ripetuto due volte con minime varianti. Questo processo di essenzializzazione venne spinto all’estremo nei suoi ultimi scritti per il teatro – fra i quali Come and Go (1966), Not I (1972, dove si vede in scena solo una bocca) e Ohio Impromptu (1981) – che concentravano in poche pagine e in pochi minuti di rappresentazione le tematiche e le ossessioni dell’intera sua opera, sostituendo ai personaggi clowneschi dei primi drammi figure spettrali solo in parte visibili, che ancora cercano di entrare in rapporto con se stesse e col mondo che le circonda.

Oggetto di innumerevoli interpretazioni, più o meno ingegnose, il teatro di Samuel Beckett, fra i più importanti del secolo, ha soprattutto il merito di tradurre esperienze fondamentalmente statiche (l’attesa, il ricordo, la lotta inane contro la futilità dell’esistenza) in opere che, pur eliminando quasi tutti gli elementi costitutivi della drammaturgia occidentale, inventano una nuova teatralità e un nuovo dinamismo proponendo immagini destinate a imprimersi nella memoria per dar corpo e concretezza fisica a riflessioni sulla condizione umana nel buio contesto della fine millennio, che non escludono una raffinata levità. Oltre che per il teatro, e vanno citati i due scenari per mimi dal titolo Actes sans paroles I e II (1956), Beckett scrisse per la radio ( Tutti quelli che cadono, All That Fall, 1957), per la televisione, per il cinema (Film , 1965), e perfino uno sketch per la `scandalosa’ rivista Oh! Calcutta! (1969) di K. Tynan. Negli ultimi anni mise personalmente in scena alcuni suoi testi (per esempio Aspettando Godot a Berlino nel 1975). Importante la sua attività registica con i detenuti del carcere di St. Quentin. Nel 1969 vinse il premio Nobel per la letteratura.