Barba

Eugenio Barba è una delle figure fondamentali del teatro contemporaneo, regista, autore, ma soprattutto teorico di una pratica teatrale che mette l’attore direttamente in relazione con la propria ricerca interiore. Uno dei punti nodali per una tale vocazione che sembra avere radici spirituali, è la costante pratica di esercizi corporei alla quale sottoporre la volontà dell’attore, una disciplina che esige l’assoluta consapevolezza del suo comportamento scenico, quella lucidità, come la definisce Eugenio Barba, che rivela la dimensione di sovversione e la portata etica di questa esperienza. Eugenio Barba si avventura giovanissimo verso il Nord Europa interrompendo quella che doveva diventare una carriera militare, e a Oslo si divide tra l’apprendistato di un’officina e gli studi serali per diventare saldatore; nel 1956 e l’anno successivo si imbarca come marinaio su navi norvegesi dirette in Oriente. Tornato in Norvegia si iscrive all’università nel corso di laurea in Storia delle religioni, ma è il viaggio ad Opole, in Polonia, a mutare il carattere di un mestiere, quello del teatro, fino a quel momento vissuto come un’aspirazione rivoluzionaria di stampo brechtiana. Qui incontra per la prima volta Jerzy Grotowski, di qualche anno più anziano di lui e da poco fuoriuscito dalla politica attiva.

Con Grotowski dal 1961 al ’64 seguirà le fasi di lavoro del Teatr-Laboratorium di Opole nelle vesti di testimone (non parteciperà mai alle attività fisiche del laboratorio) e di accorto cronista di un evento che lo segna profondamente, come documenta il testo Alla ricerca del teatro perduto del 1965. L’idea di un laboratorio come di un luogo appartato di creazione artistica e di formazione svincolato dai processi economico-burocratici dello spettacolo, diviene allora una prospettiva di vita, radicalizzata da motivazioni di indipendenza e dalla necessità di creare «nuove relazioni tra gli attori e con il pubblico». Nel 1964 a Oslo, Barba fonda l’Odin Teatret nella totale mancanza di mezzi e di finanziamenti, riunendo sotto la sua guida un gruppo di ragazzi e ragazze attori non professionisti che cominciano ad allenarsi per molte ore al giorno, quello che poi diventa il rigido training di un’autodisciplina che fa dell’attore una sorta di iniziando monacale, al quale si chiede la disponibilità al sacrifico per dedicarsi alla propria crescita individuale. Scrive a ventotto anni: «Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono». Al nucleo norvegese originario con Marie Laukvik e Torgeir Wethal (gli spettacoli sono Ornitofilene e Kaspariana ) si aggiungono attori straordinari provenienti da altre nazioni, tra i quali Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri, César Brie e Julia Varley. Rispondendo all’invito della municipalità di Holstebro nel 1966, e in particolare al suo sindaco Kaj K. Nielsen, l’Odin trasferisce la propria attività in Danimarca, dove gli viene riconosciuto lo statuto di teatro cittadino, permettendogli comunque di mantenere quel carattere di autoformazione chiusa per lunghi periodi ai contatti con l’esterno. L’attività non si limita ovviamente alla preparazione degli spettacoli ( Ferai è del ’69), ma inventaria una serie di iniziative legate alla pedagogia, al lavoro nelle scuole e alla produzione di film, come quello girato nel ’72 da Torgeir Wethal per la Rai Servizi Sperimentali e dedicato agli allenamenti fisici dell’Odin Teatret. L’apprendistato del laboratorio forma una capacità fisica attraverso la tecnica, ma in effetti si pone lo scopo di trasmettere una maggiore consapevolezza etica dell’agire umano: il passaggio dal laboratorio al teatro-scuola è contrassegnato dalla fondazione nel 1979 delle sessioni pubbliche dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), dove studiosi e uomini di teatro si confrontano sulla pratica e la pedagogia inerenti alla performance e alla sua trasmissibilità come esperienza. Nel lavoro «è naturale che tecnica ed estetica siano le conseguenze di un’attitudine etica determinata», e l’equilibrio tra energia interna e azione del corpo, in una dialettica di opposte reazioni, che non tiene conto solo del ritmo o della perfezione di un dato esercizio, ma riguarda lo stato di affinità tra gli attori in scena, e tra questi e il pubblico (con Min fars hus del ’72, Barba pone definitivamente il suo teatro oltre il confine della rappresentazione).

È degli anni in cui l’Odin intraprende i suoi viaggi nel Sud d’Italia e in America Latina, la riflessione di B. intorno ai processi creativi dell’azione teatrale aperti ai `baratti’ con le altre culture non finalizzati ad un sistema di produzione, cioè l’idea è quella di un teatro che possa essere considerato `oggetto’ da scambiare, da condividere come esperienza. Siamo nel 1974, l’Odin prende forma e si riconosce in quanto gruppo, trascorre alcuni mesi all’estero in quelle `regioni senza teatro’ cercando di cambiare il proprio percorso in uno «strumento di trasformazione di sé e degli altri», alterando in definitiva il rapporto asfittico tra lo spettatore e lo spettacolo verso uno scambio reciproco di interessi e aspettative. Tra i numerosi scritti di Eugenio Barba, uno in particolare dà voce a quelle realtà teatrali sommerse e marginali che ricercano nel lavoro un’autonomia dalla tradizione e dalle sperimentazioni avanguardistiche: è il Terzo Teatro (pubblicato per la prima volta nel 1976 a Parigi in occasione dell’International Thèâtre Information dell’Unesco), ovvero un «ponte – sempre minacciato – fra l’affermazione dei propri bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda». Anche negli ultimi anni il teatro di B. mantiene intatta la sua dimensione di laboratorio di ricerca teatrale (Talabot del 1988, Itsi-Bitsi del ’91 e Kaosmos del ’93), un luogo dei valori per eccellenza, un `santuario’ o `spazio sacro’ in cui l’agire scenico manifesta sempre con più evidenza il rifiuto dei paradossi della società. Trent’anni di vita contrassegnati da circa venti spettacoli che non appartengono ad uno specifico geografico e dove si mescolano lingue e nazionalità diverse.

ricerca teatrale

La ricerca teatrale del secondo dopoguerra riprende l’istanza che già aveva caratterizzato le avanguardie storiche della prima metà del secolo. In questa prospettiva l’autore teatrale è colui che compone l’evento scenico, sia esso derivato o meno da un testo preesistente. Spesso è difficile decidere se una personalità, poniamo un regista, appartenga all’uno o all’altro fronte, né aiutano molto le relative dichiarazioni di poetica, visto che i creatori hanno la tendenza a esprimersi in termini teorici secondo schemi già consolidati, più per giustificarsi che per lanciare nuove proposte. Stabilito dunque che la ricerca autentica si svolge in scena, si possono distinguere tre questioni principali: la composizione scenica, l’organizzazione dello spazio e la recitazione (l’attore). Ovviamente si tratta di questioni strettamente connesse tra loro, distinguibili soltanto per comodità di esposizione. L’istituzione registica, fondamentale anche nel teatro `tradizionalmente’ moderno, ha espresso fino dall’inizio del XX secolo alcuni degli esponenti più significativi della ricerca teatrale.

Personalità come Vselovod E. Mejerchol’d o Jacques Copeau, pur senza disconoscere l’importanza del testo drammaturgico, hanno relativizzato l’importanza di quest’ultimo, procedendo a una composizione scenica in nuovi spazi non teatrali (aperti, per esempio in campagna, o chiusi, come fabbriche ecc.), alimentata da un intenso lavoro di allenamento e improvvisazione degli attori, da elevare alla nuova funzione di co-autori. Ma la vera svolta è quella che avviene nel nome di Antonin Artaud. Questi, benché riconosciuto soltanto a posteriori come il nume tutelare della ricerca del secondo dopoguerra, esprime nei propri scritti e nelle proprie sperimentazioni sceniche l’istanza più radicale. Il suo saggio Il teatro e il suo doppio indica in tale doppio, cioè la vita, e nel suo `rafforzamento’ (apparentabile alla volontà di potenza nietzschiana) il vero teatro, un teatro che non rappresenta ma che si fa azione, fino a produrre un cambiamento organico tanto nell’attore quanto nello spettatore. Questo cambiamento non è paragonabile a quello prodotto da una medicina o da una terapia psicologica su un corpo o una mente malati, ma a un disvelamento della realtà, uno stato che l’autore francese definisce come una consapevolezza della `crudeltà’, suprema legge umana. Il Living Theatre viene fondato da Julian Beck e Judith Malina alla fine degli anni Quaranta, come il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler. Mentre il secondo può essere considerato forse il massimo teatro di rappresentazione e interpretazione del secondo dopoguerra, il primo, sia pure inizialmente proponendo testi classici o contemporanei, rilancia la centralità della scena e cerca di ritrovare, se necessario anche attraverso la provocazione e il coinvolgimento fisico del pubblico, il potere di scuotere.

Con il Living l’atto teatrale esce dalla dimensione dell’ascolto per entrare in quella dell’azione (anarchica e non-violenta nel caso specifico). Così come succederà negli anni Sessanta a Peter Brook, il Living scoprirà Artaud soltanto dopo che alcuni dei propri memorabili spettacoli avranno suggerito ad alcuni critici e spettatori una coincidenza tra la sua poetica e l’istanza dell’autore francese. E così una teoria, ma soprattutto una visione, formulata negli anni Trenta è diventata in tutto il mondo il sigillo del rinnovamento, la formula capace di riassumere una nuova funzione del teatro e di prefigurare una diversa responsabilità artistica ed etica dei suoi autori. Dalla fine degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei Sessanta, in tutto il mondo prende corpo un movimento di ricerca teatrale disomogeneo nelle poetiche ma basato sull’assunto comune dell’azione (artistica o politica, oppure artistica e politica) che sostituisce la rappresentazione e l’ascolto, e del teatro che divorzia dallo spettacolo. Questo nuovo teatro non è più inteso come un’attività vicaria della lettura e della didattica, bensì come la meditazione condivisa (l’espressione è di Brook) di una comunità provvisoria riunita attorno a un oggetto artistico che spiazza i clichè teatrali e le abitudini percettive.

Dagli Usa (si pensi a Allan Kaprow, a John Cage o Merce Cunningham e via via al movimento anche drammaturgico che giunge fino a oggi e che ha in Robert Wilson un esponente universalmente riconosciuto) alla Polonia (dove si segnala Tadeusz Kantor, attivo anch’egli fino dagli anni Quaranta, uno dei maggiori autori teatrali del dopoguerra), dal Giappone (dove oltre alla `danza delle tenebre’ Butoh si registra un ricco fermento che va dal teatro d’artista – si pensi almeno a Shuji Terayama e a Tadashi Suzuki – all’agit-prop) fino alla Gran Bretagna, alla Francia e la Germania, dove fioriscono molti gruppi teatrali interessanti che il lettore trova descritti nelle apposite voci, all’Italia naturalmente, si sperimenta un teatro basato su materiali, tecniche e funzioni diverse da quelle che caratterizzano il modello occidentale sette-ottocentesco, il cosiddetto `teatro borghese’.

Nel nostro paese sono innanzitutto alcuni registi come A. Trionfo, per citare solo uno dei nomi più significativi, poi alcuni attori come C. Bene, L. De Berardinis e C. Cecchi, o degli artisti visivi come C. Remondi e R. Caporossi, M. Ricci e G. Nanni, a inaugurare, in aperta polemica con il Piccolo Teatro di Milano, i più significativi filoni di ricerca. A essi si può affiancare Dario Fo per l’aspetto politico e di controinformazione, anche se il drammaturgo-attore lombardo è terribilmente sopravvalutato per quanto riguarda la scrittura. Per merito di queste personalità si stabilisce a un diverso rapporto con i testi classici e moderni, non più `letti sulla scena’ ma vagliati con una sensibilità contemporanea, la stessa che poi altri registi come L. Ronconi, M. Castri o F. Tiezzi, per esempio, declineranno anche nelle concezioni scenografiche o nell’uso di spazi non tradizionali. Mentre gli attori-autori sviluppano, in base alle rispettive sensibilità e coordinate culturali, non solo una rivisitazione ricca di sorprese del repertorio (basti pensare a come diversamente tra loro hanno affrontato Shakespeare), ma anche un’arte attorica originale, che conta esponenti di rilievo anche nelle generazioni successive (basterà fare il nome di Sandro Lombardi). E infine si pensi al teatro creato dagli autori che privilegiano l’aspetto visivo, a sua volta concretizzatosi in esperienze il cui valore è oggi riconosciuto in tutto il mondo, per esempio quelle che fanno capo a G. Barberio Corsetti o alla Socìetas Raffaello Sanzio.

Certo è da rimpiangere che la storia non abbia consentito un confronto più stretto e un sincretismo fra i differenti aspetti della ricerca, mentre si assiste a un deciso revival dell’istituzione spettacolistica pubblica e privata, nonché della drammaturgia. Purtroppo ciò avviene nel segno del ritorno alla rappresentazione e a un teatro fatto di `scrittori’, `lettori’ e `critici’ di messaggi culturali, più gradito a un pubblico abitudinario e più consono agli orientamenti delle attuali classi dirigenti. Tant’è che un grande maestro come J.Grotowski si è da tempo ritirato dalla scena per darsi alla ricerca pura, in una sorta di esilio dorato e tuttavia non privo di riscontri per coloro che della scena continuano a occuparsi. Alle istituzioni orientate in senso didattico e commerciale e a una drammaturgia intesa nuovamente come opera che i professionisti della scena sono chiamati a tradurre fedelmente sono costretti ad adeguarsi gli autori della ricerca. Sempre più spesso accade che questi accettino di lavorare su commissione, ma con modi e tempi che non appartengono loro bensì alle strutture tradizionali, emendando il vecchio teatro con qualche `novità’, oppure inserendosi con le proprie opere negli interstizi dei normali cartelloni, a significare così una marginalità (per quanto lucrosa) e un alibi dei grandi teatri.

Negli altri paesi la situazione è simile, anche se forse meno intricata. Sembra infatti che aldilà degli incroci sempre più frequenti fra autori della ricerca e istituzioni maggiori, nella cultura e nel gusto di civiltà teatrali come quella francese o nordamericana sia più netta e in qualche modo più serena la distinzione tra un teatro-che-rappresenta-i-testi e un’arte scenica autonoma, che sviluppa la ricerca attraverso forme e linguaggi del teatro inteso come forma di vita e azione nella vita. Una controprova della dinamica viziata è costituita dalla quasi totale assenza delle donne da ruoli di primo piano in questo panorama, assenza dovuta non a una mancanza di talenti ma, appunto, alla logica generale che domina i meccanismi di produzione e dunque di selezione, logica prevalentemente maschile. Il secolo sembra chiudersi così con una strana contraddizione secondo la quale a fronte di un immenso potenziale di creatività artistica si risponde con una selezione che privilegia l’adattamento e il compromesso con il sistema della rappresentazione. Ma la lotta continua, con esiti alterni, e della vicenda non s’intravvede la fine.