Varley

Figura di primo piano dell’Odin Teatret, sensibile e delicata interprete della volontà creativa di Barba, Julia Varley inizia a lavorare con la compagnia di Holstebro nel 1976. Da allora partecipa, tra gli altri, a Anabasis (1977), Brechts Aske (1979), Il vangelo di Oxyrhincus (1985), Talabot (1988), Kaosmos (1993). Estremamente significative e di indiscutibile rilievo artistico sono anche le sue dimostrazioni di lavoro sul metodo barbiano, che pur avendo un valore autonomo di spettacoli-peformance rientrano in un più ampio progetto di condivisione e divulgazione pedagogica dei principi e delle tecniche elaborate dall’Odin Teatret. È inoltre editrice di “The Open Page”, una rivista dedicata all’apporto artistico e creativo delle donne in ambito teatrale.

Odin Teatret

Odin Teatret è un gruppo teatrale fondato dal regista Eugenio Barba e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal nel 1964 a Oslo, e successivamente stabilitosi a Holstebro in Danimarca, dove ancora risiede dal 1966. Seguendo le indicazioni teoriche di Barba, il gruppo inizia da subito a porsi verso l’esterno come una identità del teatro anomala; una comunità di non professionisti che, sulla scia del Teatro-Laboratorio di Grotowski, comincia a lavorare sull’autoformazione attraverso il training, visto come un processo di consapevolezza e di esperienza individuale dell’attore, costruendo un preciso linguaggio estetico influenzato dal teatro orientale come dal teatro di strada. Il lavoro scenico e i temi affrontati dall’O.T. non hanno una tradizione nazionale alla quale fare riferimento, ma si mettono in collegamento con un più vasto panorama di culture minoritarie o diverse rispetto ai modelli imposti dalla società contemporanea: le stesse incontrate nei lunghi viaggi in Europa o nei paesi latinoamericani o a Carpignano (Lecce), dove nel 1974 l’O.T. ha soggiornato per cinque mesi. La scenografia essenziale, fatta di pochi e poveri elementi, la centralità evocativa del corpo dell’attore, il grottesco e la violenza che arricchiscono di altre simbologie l’azione e una aperta dialettica con lo spazio e lo spettatore ne hanno delineato il carattere degli spettacoli: dallo scavo nell’ipocrisia della civiltà in Ornitofilene alla superba rilettura di Dostoevskij in Min fars hus, alla metafora della conquista del selvaggio di Come! And the Day Will Be Ours (1976) , al rapporto fra speranza e ferocia nell’idolatria della religione che parla la lingua copta, yiddish e greca in Il vangelo di Oxyrhincus (1985).

ISTA

L’ISTA, fondata e diretta da Eugenio Barba nel 1979, ha sede a Holstebro, Danimarca. E’ un insieme multiculturale di artisti, operatori e studiosi, una sorta di università itinerante impegnata ad approfondire la conoscenza dei risvolti e delle valenze antropologiche dell’arte teatrale. L’ISTA tiene sessioni di lavoro periodiche su invito di istituzioni culturali nazionali e internazionali che provvedono anche al finanziamento dei lavori. Attraverso analisi comparative e dimostrazioni pratiche di lavoro, attori, danzatori, registi, coreografi, accademici, critici e studenti universitari, provenienti da tutto il mondo, affrontano lo studio di aspetti e temi particolari dell’arte scenica. L’istituzione rimane attiva anche tra una sessione e l’altra, attraverso contatti, scambi, iniziative e pubblicazioni. Nei suoi diciannove anni di vita l’I. è stata un laboratorio empirico, ecumenico e interdisciplinare di ricerca sui principi, i linguaggi e le tecniche teatrali, in una prospettiva transculturale.

Barba

Eugenio Barba è una delle figure fondamentali del teatro contemporaneo, regista, autore, ma soprattutto teorico di una pratica teatrale che mette l’attore direttamente in relazione con la propria ricerca interiore. Uno dei punti nodali per una tale vocazione che sembra avere radici spirituali, è la costante pratica di esercizi corporei alla quale sottoporre la volontà dell’attore, una disciplina che esige l’assoluta consapevolezza del suo comportamento scenico, quella lucidità, come la definisce Eugenio Barba, che rivela la dimensione di sovversione e la portata etica di questa esperienza. Eugenio Barba si avventura giovanissimo verso il Nord Europa interrompendo quella che doveva diventare una carriera militare, e a Oslo si divide tra l’apprendistato di un’officina e gli studi serali per diventare saldatore; nel 1956 e l’anno successivo si imbarca come marinaio su navi norvegesi dirette in Oriente. Tornato in Norvegia si iscrive all’università nel corso di laurea in Storia delle religioni, ma è il viaggio ad Opole, in Polonia, a mutare il carattere di un mestiere, quello del teatro, fino a quel momento vissuto come un’aspirazione rivoluzionaria di stampo brechtiana. Qui incontra per la prima volta Jerzy Grotowski, di qualche anno più anziano di lui e da poco fuoriuscito dalla politica attiva.

Con Grotowski dal 1961 al ’64 seguirà le fasi di lavoro del Teatr-Laboratorium di Opole nelle vesti di testimone (non parteciperà mai alle attività fisiche del laboratorio) e di accorto cronista di un evento che lo segna profondamente, come documenta il testo Alla ricerca del teatro perduto del 1965. L’idea di un laboratorio come di un luogo appartato di creazione artistica e di formazione svincolato dai processi economico-burocratici dello spettacolo, diviene allora una prospettiva di vita, radicalizzata da motivazioni di indipendenza e dalla necessità di creare «nuove relazioni tra gli attori e con il pubblico». Nel 1964 a Oslo, Barba fonda l’Odin Teatret nella totale mancanza di mezzi e di finanziamenti, riunendo sotto la sua guida un gruppo di ragazzi e ragazze attori non professionisti che cominciano ad allenarsi per molte ore al giorno, quello che poi diventa il rigido training di un’autodisciplina che fa dell’attore una sorta di iniziando monacale, al quale si chiede la disponibilità al sacrifico per dedicarsi alla propria crescita individuale. Scrive a ventotto anni: «Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono». Al nucleo norvegese originario con Marie Laukvik e Torgeir Wethal (gli spettacoli sono Ornitofilene e Kaspariana ) si aggiungono attori straordinari provenienti da altre nazioni, tra i quali Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri, César Brie e Julia Varley. Rispondendo all’invito della municipalità di Holstebro nel 1966, e in particolare al suo sindaco Kaj K. Nielsen, l’Odin trasferisce la propria attività in Danimarca, dove gli viene riconosciuto lo statuto di teatro cittadino, permettendogli comunque di mantenere quel carattere di autoformazione chiusa per lunghi periodi ai contatti con l’esterno. L’attività non si limita ovviamente alla preparazione degli spettacoli ( Ferai è del ’69), ma inventaria una serie di iniziative legate alla pedagogia, al lavoro nelle scuole e alla produzione di film, come quello girato nel ’72 da Torgeir Wethal per la Rai Servizi Sperimentali e dedicato agli allenamenti fisici dell’Odin Teatret. L’apprendistato del laboratorio forma una capacità fisica attraverso la tecnica, ma in effetti si pone lo scopo di trasmettere una maggiore consapevolezza etica dell’agire umano: il passaggio dal laboratorio al teatro-scuola è contrassegnato dalla fondazione nel 1979 delle sessioni pubbliche dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), dove studiosi e uomini di teatro si confrontano sulla pratica e la pedagogia inerenti alla performance e alla sua trasmissibilità come esperienza. Nel lavoro «è naturale che tecnica ed estetica siano le conseguenze di un’attitudine etica determinata», e l’equilibrio tra energia interna e azione del corpo, in una dialettica di opposte reazioni, che non tiene conto solo del ritmo o della perfezione di un dato esercizio, ma riguarda lo stato di affinità tra gli attori in scena, e tra questi e il pubblico (con Min fars hus del ’72, Barba pone definitivamente il suo teatro oltre il confine della rappresentazione).

È degli anni in cui l’Odin intraprende i suoi viaggi nel Sud d’Italia e in America Latina, la riflessione di B. intorno ai processi creativi dell’azione teatrale aperti ai `baratti’ con le altre culture non finalizzati ad un sistema di produzione, cioè l’idea è quella di un teatro che possa essere considerato `oggetto’ da scambiare, da condividere come esperienza. Siamo nel 1974, l’Odin prende forma e si riconosce in quanto gruppo, trascorre alcuni mesi all’estero in quelle `regioni senza teatro’ cercando di cambiare il proprio percorso in uno «strumento di trasformazione di sé e degli altri», alterando in definitiva il rapporto asfittico tra lo spettatore e lo spettacolo verso uno scambio reciproco di interessi e aspettative. Tra i numerosi scritti di Eugenio Barba, uno in particolare dà voce a quelle realtà teatrali sommerse e marginali che ricercano nel lavoro un’autonomia dalla tradizione e dalle sperimentazioni avanguardistiche: è il Terzo Teatro (pubblicato per la prima volta nel 1976 a Parigi in occasione dell’International Thèâtre Information dell’Unesco), ovvero un «ponte – sempre minacciato – fra l’affermazione dei propri bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda». Anche negli ultimi anni il teatro di B. mantiene intatta la sua dimensione di laboratorio di ricerca teatrale (Talabot del 1988, Itsi-Bitsi del ’91 e Kaosmos del ’93), un luogo dei valori per eccellenza, un `santuario’ o `spazio sacro’ in cui l’agire scenico manifesta sempre con più evidenza il rifiuto dei paradossi della società. Trent’anni di vita contrassegnati da circa venti spettacoli che non appartengono ad uno specifico geografico e dove si mescolano lingue e nazionalità diverse.

Terzo Teatro

Pubblicato nel 1976 in “International Theatre Information” (Unesco), Terzo Teatro è un documento scritto da Eugenio Barba in occasione dell’Incontro internazionale di ricerca teatrale (Bitef / Teatro delle nazioni, Belgrado). Lo scritto assume valenza di manifesto di un teatro etico e vocazionale proposto da gruppi che vivono la marginalità e che non si ricollegano al teatro di tradizione, tanto meno a quello dell’avanguardia.

Scrive Barba: «Esiste, in molti Paesi del mondo, un arcipelago teatrale che si è formato in questi ultimi anni, pressoché ignorato, sul quale poco o nulla si riflette, per il quale non si organizzano festival né si scrivono recensioni. Esso sembra costituire l’estremità anonima dei teatri che il mondo della cultura riconosce (…) Il Terzo Teatro vive ai margini, spesso fuori o alla periferia dei centri e delle capitali della cultura, un teatro di persone che si definiscono attori, registi, uomini di teatro, quasi sempre senza essere passati per le scuole tradizionali di formazione o per il tradizionale apprendistato teatrale, e che quindi non vengono neppure riconosciuti come professionisti. Ma non sono dilettanti. L’intero giorno è per loro marcato dall’esperienza teatrale, a volte attraverso ciò che chiamo il training, o attraverso spettacoli che debbono lottare per trovare il loro pubblico Isole senza contatto l’una con l’altra, in tutta Europa, in America del Sud, in America del Nord, in Australia, in Giappone, dei giovani si riuniscono e formano dei gruppi teatrali che si ostinano a resistere Diversi uomini, in diverse parti del mondo, sperimentano il teatro come un ponte – sempre minacciato – fra l’affermazione dei propri bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda Non si può sognare soltanto al futuro, attendendo un mutamento totale che sembra allontanarsi a ogni passo che facciamo, e che intanto lascia tutti gli alibi, i compromessi, l’impotenza dell’attesa. Si desidera che subito una nuova cellula si formi, ma non ci si vuole isolare in essa. Questo paradosso è il Terzo Teatro: immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione per trovare il coraggio di non fingere».