Manfredini

Danio Manfredini si forma negli anni ’70 partecipando al lavoro di Cesar Brie, Dominic De Fazio e Iben Rasmussen dell’Odin Teatret, presso il Laboratorio del centro sociale Isola di Milano e poi al centro Leoncavallo. Con La crociata dei bambini di Brecht (1984), Notturno (1985) e soprattutto con Miracolo della rosa (1988) definisce un’immagine solitaria di attore estraneo a percorsi codificati, autore di un teatro personale e anarchico, interessato a situazioni di marginalità sociale ed estraneo ai compromessi con il mercato. Seguono il recital Misty (1989), La vergogna (1990) e i Tre studi per una crocifissione, nei quali viene ancora più approfondito il rapporto con la realtà psichiatrica (M. è anche operatore dei servizi territoriali) e con la pittura, quella di Francis Bacon in particolare, come visione interna da riportare all’attenzione emotiva dello spettatore. Nel 1996 collabora alla drammaturgia degli spettacoli di danza di Raffaella Giordano, cui fa seguire la lunga elaborazione di Al presente (1998).

handicap

La fenomenologia dell’incontro tra teatro e handicap si presenta variegata e complessa. L’utilizzo stesso del termine h. porta con sé una equivalenza nata nel linguaggio comune, che confonde il deficit con l’h., vale a dire l’origine con le conseguenze, dovute alle risposte al deficit date dall’ambiente fisico e sociale e dalla psicologia della persona. Accogliendo questa precisazione, è evidente come l’esperienza di teatro handicap non si riassuma nella presenza di attori portatori di una disabilità fisica o mentale, ma coinvolga profondamente le istituzioni socio-educative, culturali, artistiche e politiche, gli operatori che in esse intervengono e, soprattutto, le rappresentazioni sociali e i vissuti collettivi che accompagnano e spesso originano l’handicap. L’orizzonte dell’esperienza di teatro handicap, nella situazione italiana degli anni ’90, si estende tra i due estremi della produzione artistica professionale e della teatroterapia. I ritmi dilatati, l’iper/ipotonicità muscolare, la naturalezza di azioni che coniugano profondità arcaiche e comportamenti socialmente denotati come devianti, le azioni in bilico tra ludico e gioco, e il corpo segnato da una mancanza che diviene ineludibile presenza, sono i segni delle disabilità che ci con-muovono nell’universo sospeso e delirante di Pippo Delbono, o che si fanno icone delle istanze di crisi profonda che attraversano la società, come per gli interpreti tracheotomizzati del coro della Socìetas Raffaello Sanzio, o che rappresentano la poetica del regista Enzo Toma.

In altri casi, come per Danio Manfredini, l’esito teatrale diviene il precipitato personale di intensi processi laboratoriali dove l’artista, nell’incontro con l’altro, ritrova un dialogo profondo con sé e con l’uomo. Sul confine che unisce l’esperienza teatrale alle sue matrici sociali e pedagogiche si colloca il lavoro di alcuni educatori che, nella quotidianità rigorosa e preordinata dei Centri diurni che ospitano disabili adulti, stanno introducendo, coadiuvati dall’esperienza teatrale di artisti come Giuseppe Badolato e Piera Principe, le metodiche laboratoriali del teatro; consapevoli della necessità del teatro, essi ricreano l’esperienza nell’incontro con il gruppo e il contesto, senza snaturare le metodiche per realizzare obiettivi terapeutici o riabilitativi. Sono, invece, proprio questi gli obiettivi di alcune esperienze teatrali, caratterizzate da una decisa impronta educativa o terapeutica. Per quanto compete le prime è, tra le istituzioni, soprattutto la scuola dell’obbligo a intuire le valenze `integrative’ dell’esperienza teatrale, situazione in cui esplorare e apprendere la diversità come componente fondativa dell’esistenza. Da un punto di vista terapeutico, vari servizi sociosanitari propongono attività di psicodramma, mentre sono rare le esperienze di dramatherapy, che stimolano la dinamica rappresentativa e ludico-immaginativa (Teatro Reginald di Torino).