Lucignani

Diplomatosi in regia all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ nel 1948, Luciano Lucignani assunse la direzione del primo Teatro stabile di Firenze nel 1949, che inaugurò con la prima edizione italiana di Peccato che sia una sgualdrina di J. Ford (con F. Mammi, R. Grassilli e G. Albertazzi al suo debutto). Successivamente affiancò all’attività di regista quella di critico e studioso. Dal 1946 al ’56 fu critico del “l’Unità” di Roma. Fra gli altri suoi spettacoli si ricordano: Madre Coraggio e i suoi figli (1952, primo allestimento italiano di un testo di Brecht), La mandragola di Machiavelli (1953), Kean di Dumas nella riduzione di Sartre (1955, in collaborazione con V. Gassman), Orestiade di Eschilo nella versione di Pasolini al Teatro greco di Siracusa (interprete Gassman), Girotondo di Schnitzler e Un amore a Roma di E. Patti (1959), Elettra e Clitennestra di F. Mannino. Per il cinema ha diretto quattro film: L’amore difficile (1962), Le piacevoli notti (1966), L’alibi (in cui apparve anche come attore) e Una su tredici (1968 e 1970). Molto attivo alla Rai (come conduttore di rubriche radiofoniche e collaboratore dei programmi culturali della tv), ha insegnato recitazione al Centro sperimentale di cinematografia e, dal 1998, all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’.

Ripellino

Fra i più accreditati slavisti italiani, Angelo Maria Ripellino fu anche il curatore di una riduzione per il palcoscenico del Processo di Kafka, per la regia di M. Missiroli (1975). Il suo contributo più importante resta comunque quello dato allo studio e alla comprensione del teatro russo dei primi del secolo e subito posteriore alla rivoluzione d’ottobre. Vanno in particolar modo ricordati testi come Majakovskij e il teatro dell’avanguardia (1959), Il trucco e l’anima (1965) – in cui il filo della rievocazione della grande stagione primonovecentesca dello spettacolo russo è sviluppato a partire da un ricco corredo di documenti e testimonianze dell’epoca – e Praga magica (1973).

Tani

Come pubblicista Gino Tani ha collaborato con “Il Messaggero”, dove negli anni ’50 ha istituito la prima critica italiana di danza, e curato la sezione danza dell’ Enciclopedia dello Spettacolo . Decano della critica nazionale, si è dedicato anche alla saggistica, pubblicando numerosi testi di analisi critica e storica: Cinquant’anni di opera e balletto in Italia (1954), Il Balletto del Maggio Musicale Fiorentino e l’opera di Aurel Milloss (1977) e la completa e poderosa Storia della Danza dalle origini ai giorni nostri (1983). Postumo è uscito il suo Compendio storico estetico su la Danza e il Balletto (1995).

Pensa

Tra le opere teatrali di Carlo Maria Pensa si ricordano: Il fratello (1955), La figlia 1957), I falsi (1959), Riconoscenti posero e Gli altri uccidono (entrambe hanno vinto il Premio Riccione), Gli innocenti (1966), LSD, Lei scusi divorzierebbe ? (1970), Miladieci (rappresentata diverse volte e vincitrice del premio nazionale Vallecorsi), La piscina nel cortile con cui si aggiudica il premio Flaiano. Si è occupato di regia teatrale: sue sono l’allestimento e la riduzione del Successore di C. Bertolazzi, Una famiglia di Cilapponi di C. Dossi, Trilogia di Ludro F.A.Bon. Importante il suo contributo nell’ambito della letteratura drammatica milanese, alla quale ha contribuito con cinque commedie dialettali fra le quali Dammatrà ripreso recentemente al Franco Parenti nell’interpretazione di Piero Mazzarella. Ha diretto la sezione prosa della Rai.

Jacobbi

Giovanissimo collaboratore di riviste d’avanguardia, legate in particolare all’ermetismo (“Campo di Marte”, “Corrente”, “Letteratura”, “Circoli”), Ruggero Jacobbi divide la sua vita tra Italia e Brasile (dove vive dal 1946 al 1960 svolgendo attività di regista e studioso). Intellettuale eclettico e appassionato, debutta nella regia teatrale nel 1940 allestendo, tra l’altro, Minnie la candida di M. Bontempelli, con l’esordiente Anna Proclemer. Attivo non solo nella critica letteraria e teatrale, ma anche in televisione e nel cinema, è autore di numerosissime opere, antologie poetiche e letterarie, traduzioni, articoli: sul teatro si segnalano A espressão dramàtica (1956), O espectador apaixonado (1960), Teatro in Brasile (1961), Teatro da ieri a domani (1972), Ibsen (1972), Guida per lo spettatore di teatro (1973), Le rondini di Spoleto (1977) e l’edizione in tre volumi delle opere teatrali di Rosso di San Secondo. Collaboratore del Piccolo Teatro di Milano, dirige “Ridotto” e scrive su “Rivista italiana di drammaturgia”, “l’Avanti” e “Sipario”; è autore di O outro lado do rio (1959), Il porto degli addii (1965), Il cobra alle caviglie (1969), Edipo senza sfinge (1973). La sua intensa attività di docente (cattedra di Letteratura brasiliana all’università di Roma) lo porta alla direzione della Scuola d’arte drammatica del Piccolo di Milano e, negli anni ’70, dell’Accademia d’arte drammatica di Roma.

Mann

Thomas Mann nasce da una famiglia agiata, fratello di Heinrich con il quale intrattiene per tutta la vita un rapporto intenso e conflittuale; riceve nel 1929 il premio Nobel per la letteratura. Dal 1933 costretto all’esilio, si rifugia negli Stati Uniti. Per il teatro scrisse una sola opera, il dramma Fiorenza, pubblicato nel 1905. Fu portato sulle scene in ritardo e raramente: nel 1907 per la prima volta a Francoforte, nel 1908 a Monaco, nel 1913 a Berlino da Reinhardt, nel 1918 a Vienna. Ambientato nella Firenze di Savonarola, sviluppa il tema della lotta tra spirito e arte, del valore etico della concezione etica. Stroncata dal critico teatrale Alfred Kerr, nel complesso ebbe un limitato successo. M. scrisse inoltre numerosi saggi critici sul teatro, pronunciò un discorso sul teatro in occasione del festival di Heidelberg (1929) e fu autore di studi dedicati ad autori teatrali, specialmente a Schiller e a Wagner.

Arbasino

Autore di racconti (L’anonimo lombardo , 1959), di romanzi (SuperEliogabalo, 1969; La bella di Lodi , 1972; Specchio delle mie brame , 1974), di saggi (Certi romanzi , 1964; Sessanta posizioni , 1971), di reportage (Trans-Pacific Express , 1981; Mekong , 1994), di polemica civile e politica (In questo stato , 1978; Un paese senza , 1980), nella sua opera più importante, Fratelli d’Italia, una sorta di viaggio iniziatico di giovani intellettuali un po’ snob e un po’ emblemi dell’Italia degli anni ’60 – più volte riscritta e ampliata, 1963/1976/1993 – Alberto Arbasino ha disegnato una mappa delle istanze culturali di quell’epoca e ha affrescato una società con tocchi di satira acre e irridente, alternando parti narrative ad altre dialogiche e saggistiche, dove tra l’altro molto si discorre di argomenti teatrali. E Alberto Arbasino si è sempre occupato di teatro, anche se non come drammaturgo, ma come regista e critico.

Come regista, ha messo in scena al Cairo una Traviata di Verdi (1965) ed una Carmen di Bizet al Comunale di Bologna (1967) con le scene di Vittorio Gregotti, i costumi di Giosetta Fioroni e la consulenza di Roland Barthes, di uno sperimentalismo troppo antelitteram per essere apprezzato, con Micaela in succinto impermeabilino bianco e Don José in veste di Uomo mascherato. Nello stesso anno, a Roma, ha diretto la commedia di J. Osborne Prova inammissibile con T. Carraro. Con M. Missiroli ha composto agli inizi degli anni ’60 un musical sui generis, Amate sponde , con `partitura di rumori’ di E. Morricone. Ma è soprattutto come critico e attento frequentatore degli eventi di teatro più importanti del mondo intero che A., da oltre quarant’anni – sulle pagine di quotidiani e settimanali e con grande divertimento di chi riesce a seguire i mirabolanti corto-circuiti di agnizioni e riferimenti – racconta gli spettacoli teatrali e lirici che più lo hanno sollecitato; pagine poi raccolte in volumi fittissimi o che lo saranno in futuro (Grazie per le magnifiche rose , 1965; La maleducazione teatrale , 1966), venendo così a costituire veri e propri repertori critici in cui tutte le principali avventure della drammaturgia contemporanea risulteranno documentate.

Lunacarskij

Fin dalla giovinezza vicino alle correnti progressiste e ai gruppi rivoluzionari bolscevichi, Anatolij Vasil’evic Lunacarskij vive fino al 1917 in esilio in Occidente, dove, oltre a svolgere attività politica, perfeziona la formazione culturale a contatto con i più significativi fenomeni artistici europei, si occupa di critica teatrale e di filosofia. Comincia la sua attività di drammaturgo con Il barbiere del re (1906). Terminato il periodo di clandestinità con la Rivoluzione d’ottobre, diventa subito uno dei maggiori esponenti della politica culturale bolscevica. Amico personale di Lenin, come Commissario per l’Istruzione (1917-1929) sostiene le più coraggiose iniziative in campo teatrale, i nuovi autori come Majakovskij, i registi d’avanguardia come Mejerchol’d e Vachtangov, prende decisioni fondamentali per l’assetto amministrativo del teatro, come la nazionalizzazione dei teatri, le sovvenzioni. Sollecita la partecipazione dei principali rappresentanti di simbolismo e futurismo agli organi del nuovo governo: difende dagli attacchi del pubblico impreparato e perplesso gli spettacoli d’avanguardia, partecipa personalmente a incontri e dibattiti, protegge il Teatro d’Arte, incapace di rinnovare il proprio repertorio negli anni immediatamente postrivoluzionari. Riprende, a partire dal 1918, l’attività di drammaturgo, con una serie di lavori soprattutto storici, con grande pathos rivoluzionario ( Faust e la Città , 1918; Oliver Cromwell , 1920; Vasilisa Premudraja , 1920; Tomaso Campanella , 1921; Don Chisciotte liberato , 1922; La bomba , 1923).

Tieri

Profondo conoscitore del mondo dei sentimenti, che indagò con freddo distacco, Vincenzo Tieri fu però anche il creatore di alcuni sorprendenti personaggi femminili, giudicati con durezza e crudeltà. Si ricordano in questo senso Giovanna, protagonista di Taide (1932), Barbara de L’ape regina (1941) e Giulia de La battaglia del Trasimeno (1942). Nel dopoguerra si dedicò alla regia di gialli sentimentali: Processo a porte chiuse, Interno 14 e Domani parte mia moglie.

Lari

Dopo varie esperienze giornalistiche in diversi quotidiani, dal 1924 al ’42 Carlo Lari fu critico teatrale della “Sera” di Milano. Ha pubblicato libri sul teatro di D’Annunzio (1927), Sem Benelli (1928) e sulla Duse (1929). Negli anni ’50 tentò l’avventura registica, creando a Milano insieme a Lida Ferro il teatro Sant’Erasmo a scena centrale, convinto che in tale spazio si potessero rappresentare lavori di disparata natura, contando sul particolare contatto dell’attore con il pubblico. Gli spettacoli da lui diretti (ricordiamo: La calzolaia ammirevole di García Lorca; L’altro figlio e Come prima, meglio di prima di Pirandello; L’annuncio a Maria e Le père humilié di Claudel; Nora seconda di C.G. Viola; Suo fratello di C.M. Pensa; La moglie saggia di Goldoni; Isa dove vai? di C.V. Lodovici) suscitarono reazioni diverse, ma sempre con vivo interesse di pubblico. Nel 1953 vinse il premio Idi per la miglior regia di un testo italiano.

Veneziani

Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita a Napoli, Carlo Veneziani si trasferì a Milano, dove compose strofe satiriche di successo per l’attore N. Maldacea. Attento conoscitore dei lati comici della vita, fu autore apprezzato di commedie grottesche. Tra i suoi titoli vanno ricordati: Il braccialetto al piede (1917), Finestra sul mondo (1918), Colline filosofo (1920), L’antenato (1922, scritto per A. Gandusio) e Alga Marina che nel 1924 fece scalpore al Teatro Filodrammatici di Milano per il primo seno nudo delle scene, offerto da P. Borboni, giovane e disinibita interprete accanto a A. Falconi. Nonostante il dissenso dei moralisti la commedia ottenne grandi favori del pubblico.

Raboni

Poeta raffinato, di forte tensione morale e di personalissime tensioni stilistiche (Le case della Vetra ; 1966; Cadenza d’inganno, 1975; Nel grave sogno, 1982; Canzonette mortali, 1986; Ogni terzo pensiero, 1993; Quare tristis, 1988), Giovanni Raboni è una delle personalità più autorevoli dell’odierno panorama letterario italiano. Ha lavorato nell’editoria, è stato critico cinematografico e direttore della rivista “L’Illustrazione italiana”, negli anni ’70. È traduttore abilissimo dal francese: Flaubert ( L’educazione sentimentale ), Baudelaire (I Fiori del male), Apollinaire (Bestiario) e la versione intera di Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Per quanto concerne il teatro, ha tenuto la critica teatrale del “Corriere della Sera” dal 1987 al 1998 e ha tradotto finora tre testi, tutti rappresentati: Fedra di Racine (regia di L. Ronconi, 1985, con Anna Maria Guarnieri; Torino 1984); Partage de midi di Claudel (regia di A. R. Shammah, Milano 1987-88), Ruy Blas di Victor Hugo (regia di L. Ronconi; Torino 1996) e Le false confidenze di Marivaux (regia di M. Sciaccaluga; Genova 1997).

Sanguineti

Professore universitario di letteratura italiana dal 1970 (a Salerno e Genova), l’opera di Edoardo Sanguineti nasce e si sviluppa sotto il segno della nuova avanguardia a cui partecipa collaborando al “Verri” e al Gruppo 63. Le raccolte poetiche Laborintus (1959), Erotopaegnia (1961), Purgatorio de l’inferno (1964), T.A.T . (1968), Winwarr (1972), Bisbidis (1987), Senza Titolo (1992) testimoniano l’ossessione filologica, il pluriliguismo in funzione onirica e grottesca, la contaminazione tra ricerca scenica, musicale, pittorica. Rilevante nella sua opera la produzione di testi per il teatro (per il quale ha tradotto anche numerosi classici): K e altre cose (1962), Teatro (1969), in cui giunge a una totale desemantizzazione della parola, usata in maniera strumentale sul modello di una partitura musicale. La collaborazione di Sanguineti con musicisti, in modo privilegiato con L. Berio (Passaggio, Laborintus Due) data dai primi anni ’60. Prosegue fino ad accostare il linguaggio poetico alla musica di largo consumo e legata alla cultura giovanile, come nel lavoro sul rap con A. Liberovici (le sceneggiature-partiture Rap, Sonetto, Macbeth Remix , Festival di Spoleto 1998), dove il rap è tecnica ritmica, musicale e del discorso verbale, «modo paradossale per recitar cantando». Sono inoltre di Sanguineti le sceneggiature-drammaturgie-testi di Orlando furioso per la regia di L. Ronconi, di Commedia dell’inferno per i Magazzini Criminali, con la regia di Tiezzi.

Flaiano

Scrisse romanzi (Tempo di uccidere, 1947), racconti (Una e una notte, 1959) e raccolte d’aforismi, svolse in diversi periodi attività di critico drammatico (le sue recensioni furono in parte raccolte nel volume dal titolo: Lo spettatore addormentato) e tentò occasionalmente il teatro. Ennio Flaiano esordì nel 1946 con l’atto unico La guerra spiegata ai poveri che, attraverso uno scoppiettante susseguirsi di battute, spesso azzeccate, raccontava i meccanismi alle origini dei conflitti, ironizzando sulle figure dei potenti e solidarizzando, con pudica amarezza, su quelle delle vittime. Seguirono due farse di scarso spessore (La donna nell’armadio, 1957; Il caso Papaleo, 1960) e l’opera teatrale più impegnativa, Un marziano a Roma (1960), tratta da un breve racconto e travolta dai fischi alla prima rappresentazione al Lirico di Milano, anche a causa di una messinscena di V. Gassman, inutilmente faraonica. Vi si riproponeva, nelle vesti di una storiella fantascientifica, il tema non nuovo di come una tensione ideale poteva essere assorbita e svuotata da una realtà cinica e vischiosa. L’insuccesso portò l’autore ad affermare che «scrivere per il teatro è come scrivere in ottava rima. Una forma che non ci riguarda più». Ma ci provò ancora una volta, con La conversazione continuamente interrotta (1972), dove tre intellettuali, stancamente impegnati nello stendere una sceneggiatura, parlavano delle loro nevrosi e vivevano, quasi distrattamente, piccoli drammi non certo sufficienti a riempire il loro vuoto. E anche qui osservazioni graffianti s’innestavano in una struttura programmaticamente fragile. Come critico, ebbe soprattutto il merito di segnalare, fra i primi, il talento di C. Bene; ed è stato, come sceneggiatore cinematografico, il più importante collaboratore di Fellini (I vitelloni, La dolce vita ).

Macchia

Le benemerenze teatrali dello studioso e docente di letteratura francese Giovanni Macchia sono numerose. A lui si deve, tra l’altro, l’introduzione dell’insegnamento di Storia del teatro nell’università italiana, con la conseguente istituzione di molte cattedre. È autore di numerosissimi saggi, tutti contraddistinti da una prosa limpida, elegante e narrativa, oltre che dalla profondità e ricchezza degli argomenti trattati. Che riguardano naturalmente la letteratura francese ( Baudelaire e la poetica della malinconia , 1946; Il paradiso della ragione, 1960; L’angelo della notte , 1979; Le rovine di Parigi , 1985) e quella italiana ( Saggi italiani , 1983), mentre altri saggi coinvolgono una comparazione culturale più vasta, come I fantasmi dell’opera (1971) incentrato intorno a un celebre quadro di Watteau o Il principe di Palagonia (1978) sui mostri mitici di villa Bagheria. Per quanto riguarda il teatro, fondamentali sono i suoi apporti critici, tra cui mirabili quelli su Pirandello ( Pirandello o la stanza della tortura , 1981) e su Molière ( Vita, avventure e morte di Don Giovanni , 1966; Il silenzio di Molière , 1975). A quest’ultimo è ispirata una sua pièce teatrale, Mademoiselle Molière , rappresentata nel 1992 al Festival di Spoleto, per la regia di E. Siciliano, le scene di Giosetta Fioroni e l’interpretazione di Anna Maria Guarnieri. La pièce è stata poi rappresentata anche all’estero: in Francia, a Parigi, e poi in Canada. Nel 1993 a M. è stato assegnato il premio Balzan per la sua attività di critico e di studioso.

Spadaro

Laureatosi in giurisprudenza, Ottavio Spadaro fondò nel 1942 il Teatro universitario di Bolzano. Nel 1948 si diplomò all’Accademia nazionale d’arte drammatica con un allestimento del Cane del giardiniere di Lope de Vega. Tra le sue molte regie vanno ricordate quelle legate al teatro pirandelliano, quella di Corruzione al Palazzo di Giustizia di U. Betti (1956) e quelle di testi contemporanei. Nei suoi spettacoli dedicò un’attenzione particolare alla cura della recitazione, considerandola l’elemento primo e fondante di ogni messa in scena. Scrisse anche alcuni importanti saggi sul teatro di Betti.

Garboli

Cesare Garboli è uno dei personaggi più influenti e importanti del panorama letterario italiano, sia per l’ampiezza e la profondità dei suoi interessi che per il fascino di una scrittura proteiforme, inventiva e sensibilissima. Si è occupato di classici, tra cui Dante, Leopardi, Chateaubriand e Pascoli; di molti autori contemporanei, tra cui Montale, Penna, Longhi, Soldati, N. Ginzburg; ha insegnato all’università di Roma, Macerata e Zurigo; dirige la rivista “Paragone”. Da sempre coltiva interessi teatrali. Anzi il suo esordio professionale, agli inizi degli anni ’50, è come redattore dell’allora nascente Enciclopedia dello spettacolo. Fra il 1972 e il 1977 è stato uno straordinario ed eccentrico critico teatrale militante, per “Il Mondo”, “Corriere della Sera” e “l’Unità”: molti dei suoi articoli sono stati raccolti recentemente (1998) nel volume Un po’ prima del piombo. Ma è come traduttore in cui si dispiega tutta la sua capacità creativa e mimetica, soprattutto con il prediletto Molière, prefigurato come una sorta di psicanalista ante-litteram e con il quale avviene una sorta di simbiosi mutualistica unica nel suo genere, come si può leggere nel volume che raccoglie le traduzioni. Delle quali molte sono state anche messe in scena: Il malato immaginario (Festival di Spoleto, 1974; regia di De Lullo e Romolo Valli interprete); Il borghese gentiluomo (Genova, 1975, regia di C. Cecchi); Le intellettuali (Les femmes savantes; Genova, 1978; regia di M. Sciaccaluga); da non dimenticare, inoltre, nel 1974, il Tartufo radiofonico, per la regia di Giorgio Pressburger, con, in veste di attore, O. Costa. Nel 1976 ha tradotto H. Pinter, Terra di nessuno (Prato; regia di De Lullo). Tre sono per ora le sue notevoli teatralissime traduzioni scespiriane, tutte rappresentate: Amleto (Spoleto, 1987; regista e interprete C. Cecchi); Misura per misura (Torino, 1992; regia di L. Ronconi) e Re Lear (Roma, teatro Argentina, 1995; ancora per la regia di Ronconi. Si ricordano inoltre Il Filottete di André Gide, rappresentato al Piccolo Teatro di Milano, nel 1988, con Gianni Santuccio in una delle sue ultime apparizioni; un curiosissimo quanto poco conosciuto Victor Hugo, Mille franchi di ricompensa , messo in scena a Genova (1990), per la regia di Benno Besson; infine, Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1997) per la regia di Ronconi. Nel 1997, ancora in territorio molieriano, ha curato e tradotto La famosa attrice , anomimo pamphlet secentesco rivolto contro la moglie del grande commediografo e attore.

Antonicelli

Antonicelli Franco collaborò alla rivista einaudiana “La cultura”, punto di riferimento degli intellettuali antifascisti nella Torino degli anni ’30. Fu eletto senatore come indipendente di sinistra nel 1968 nelle liste del Pci e confermato in questa carica nel 1972. Nel 1981 a Livorno è stata costituita una fondazione a lui intitolata. È ricordato soprattutto come intellettuale, vivace organizzatore di centri di cultura, storico e letterato. Al teatro ha dato un unico testo, Festa grande d’aprile (1965), caratterizzato dall’ispirazione politica e dalla ricerca di una dimensione scenica vicina alla sagra e alla forma dell’oratorio. La voce di Matteotti, che denuncia alta nel Parlamento le violenze e gli attentati alla libertà del fascismo, precorre l’inizio della Resistenza, di quel vivere civile che attraverso una serie di testimonianze, condurrà alla Liberazione.

Baker

Professore di letteratura drammatica a Harvard (il primo in un’università degli Stati Uniti), George Pierce Baker istituì nel 1912 il 47 Workshop, un teatro laboratorio per rappresentare i testi scritti dagli allievi. Erano tra loro, e trassero tesoro dai suoi insegnamenti, molti degli autori che avrebbero dominato la scena americana negli anni ’20 e ’30: O’Neill soprattutto, ma anche S. Howard, E. Sheldon, P. Barry, S.N. Behrman, G. Abbott. Lasciata Harvard, diresse dal 1925 al 1933 il nuovo dipartimento di teatro di Yale. Pubblicò alcuni saggi, fra i quali un manuale teorico e pratico (Dramatic Technique, 1919) per aspiranti drammaturghi.

Gramsci

Antonio Gramsci inizia la sua collaborazione alla “Guida del Popolo” e all'”Avanti” nel 1915 attraverso articoli culturali e note politiche. Le sue Critiche teatrali torinesi (poi raccolte in volume) cominciano a essere pubblicate il 13 gennaio 1916 sull’edizione piemontese dell’Avanti e si interrompono il 16 dicembre 1920 alla vigilia dell’uscita dell’Ordine Nuovo; esse costituiscono un esauriente panorama critico della vita teatrale, non soltanto torinese, ma in buona parte italiana. Nei suoi articoli Antonio Gramsci denuncia la situazione dei maggiori teatri italiani del tempo, quelli di Torino, Milano, Genova, Bologna, Roma che venivano controllati solamente da due o tre potenti organizzatori che successivamente si sarebbero potuti unire in trust. Sempre all’interno degli articoli di critica teatrale Antonio Gramsci continua la sua violenta polemica antiborghese: egli sottolinea come sia necessario che in quegli anni anche il proletariato, gli strati popolari più maturi, partecipino alle opere teatrali andando a formare quello che lui chiama il «pubblico nuovo»: il teatro per Antonio Gramsci può essere un importante strumento di scuola sociale. Di pregevole interesse sono i suoi articoli sull’opera di Pirandello. Questa iniziale esperienza di critico teatrale influenza anche gli scritti successivi, e riemerge nello scritto Quaderni del carcere.

Kirstein

Lincoln Kirstein fu fondatore e direttore del Ballet Caravan; fondatore e direttore, con Balanchine, della School of American Ballet (1934) e del Dance Archives Museum of Modern Art di New York; cofondatore della Ballet Society (1946, poi New York City Ballet); fondatore ed editore di “Dance Index”. Sempre in stretto rapporto con Balanchine, ha svolto un ruolo fondamentale per il balletto americano. `Ghost writer’ per la biografia di Nijinskij scritta dalla moglie Romola Nijinskij, ha pubblicato: Dance (1935), Blast at the Ballet: A Corrective for the American Audience (1938), The Classical Ballet: Basic Technique and Terminology (con Muriel Stuart, 1952), Movement and Metaphor (1970), The New York City Ballet (1974), Nijinskij Dancing (1975). Mecenate e attivo sostenitore dell’arte del balletto, è stato anche critico, acuto e sensibile, di pittura e di teatro, come testimonia la raccolta di scritti By, With, To & From (1991).

Tadini

Emilio Tadini attualmente dirige l’Accademia di Brera. Per il teatro ha scritto il dramma La tempesta (messo in scena nel 1995), tratto dall’omonimo suo romanzo per la regia di Andrée Ruth Shammah. Il folle Prospero si barrica nella sua palazzina per opporsi allo sfratto, aiutato da un immigrato e assediato da un commissario. Un giornalista, che funge da narratore dell’intera vicenda, riesce ad avvicinare Prospero intraprendendo così un viaggio nel suo stravagante mondo, ma non riesce a evitarne il suicidio. La deposizione (rappresentato nel 1997) mette sulla scena una donna che, accusata di omicidio, nella sala d’attesa del tribunale spiega i suoi punti di vista e le sue ragioni aspettando la sentenza finale. Tadini ha infine curato una traduzione del Re Lear di Shakespeare.

Marcel

Profondamente legato all’esistenzialismo di Kierkegaard, il cui pensiero introdusse in Francia, trasferì i temi della sua ricerca filosofica anche nelle opere di carattere letterario. Gabriel Marcel porta sulla scena il conflitto interiore che agita l’uomo moderno: in Un uomo di Dio (Un Homme de Dieu, 1932) affronta il problema del matrimonio cristiano; in Le monde cassé (1936) quello dell’angoscia umana; in La grâce (1941) rappresenta la disperazione di una donna che, di fronte al marito morente, non riesce a condividerne la fede; Rome n’est plus dans Rome (1950) diventa l’occasione per riflettere sull’ondata di panico che, con l’invasione della Corea, nel clima teso della guerra fredda, agita l’Europa.

Meano

Laureato in giurisprudenza, Cesare Meano collaborò al “Corriere della Sera” e alla “Fiera letteraria”. Nel 1926 fondò a Torino il Teatro del Nuovo Spirito, dove mise in scena Gogol’. Privilegiò il repertorio del `teatro d’arte’ (Strindberg, Joyce, Zorilla). I suoi lavori sono caratterizzati da una rivisitazione in chiave moderna di fatti storici e antichi miti, influenzati dal teatro del grottesco. Scrisse, tra l’altro, Nascita di Salomè (1937), Avventure con Don Chisciotte (1940, il copione meglio riuscito), Melisenda per me (1941), Ventiquattr’ore felici (1943), Incontri nella notte (1952), Diana non vuole amore (1953) e Bella (1956). Nell’immediato dopoguerra diresse a Roma il Teatrino La Scena, proponendo Danza di morte di Strindberg con Maria Fabbri, Come tu vuoi di Pirandello e Mississipi di Kaiser con P. Borboni. Il suo teatro ebbe grande successo all’estero, soprattutto in Germania, dove alcuni suoi testi, in traduzione tedesca, vennero messi in scena per la prima volta. Per quanto riguarda l’attività cinematografica, va ricordato il film a sfondo sperimentale Frontiere (1934), che M. scrisse e diresse, non trovando però riscontro positivo nel giudizio del pubblico.

Pepe

Interprete dalle notevoli doti mimiche, Nico Pepe ha offerto nel corso della sua carriera ottime interpretazioni di personaggi comici. Debutta nel 1930 nella compagnia Lupi-Borboni-Pescatori. Lavora anche con Ruggeri, Gandusio, P. De Filippo, De Sica. Dal 1947 passò al Piccolo Teatro. Di talento versatile si è distinto anche nella recitazione di autori classici, Molière (L’avaro) e Gozzi (Re Cervo), sia di autori napoletani: P. De Filippo  (Don Felice Imparato), A. Curcio (I casi sono due). Da segnalare una sua memorabile interpretazione goldoniana, nel ruolo di di Pantalone in un’edizione dell’ Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, uno spettacolo in cui recita per vent’anni (viaggiava con un baule pieno di maschere di commedia dell’arte, tanto da meritarsi il titolo di `commesso viaggiatore del teatro’). Sempre con Strehler interpreta il direttore ne Sei personaggi in cerca d’autore (1952) al fianco di T. Buazzelli e L. Brignone. Nel 1961 è diretto da L. Squarzina in Ciascuno a suo modo di Pirandello presentato allo Stabile di Genova, e da Macedonio ne La commedia dell’arte , per lo Stabile Friuli Venezia Giulia. Ha diretto lo Stabile di Torino, l’Ateneo di Roma e lo Stabile di Palermo. Negli ultimi anni ha portato in giro con successo alcune lezioni-spettacolo (Pirandello visto da un attore e I secoli gloriosi della Commedia dell’Arte) con Ada Prato.

D’Amico

Figlio di un grande musicologo, Fedele D’Amico, e della più celebre sceneggiatrice del cinema italiano, Suso Cecchi D’Amico, Masolino D’Amico ha da sempre respirato l’aria dello spettacolo. Per questo, la sua attività di anglista, ricca di numerosi studi, traduzioni di romanzi (tra cui i fluviali Pamela e Clarissa di Richardson), di epistolari (Byron) e di altro, rileva dall’universo del teatro la sua vena più felice. È infatti come traduttore uno tra i più apprezzati da registi e produttori, non soltanto per la competenza linguistica, ma anche per la resa scenica delle sue traduzioni teatrali. Che sono numerosissime, una quarantina circa, la più parte rappresentate. E svariano da Shakespeare a Ayckbourn, a parte Tennessee Williams e Arthur Miller, dei quali diventa l’interprete ideale e autorizzato. Un equilibro delicato di E. Albee, rappresentata da Zeffirelli nel 1968, è la sua prima pièce tradotta. Da allora molte ne sono seguite: sempre di Albee, Tre donne alte (regia di Squarzina, 1996); Una bomba in ambasciata (Don’t Drink the Water) di Woody Allen (regia di Monicelli, 1997); Les liaisons dangereuses di C. Hampton, da Laclos, messe in scena una prima volta da Calenda, nel 1989, poi da Monicelli, con D. Sanda, nel 1994. Per Lavia ha tradotto Il servo di scena di Ronald Harwood e Il sottoscala di C. Dyer. Importanti sono le sue traduzioni shakespeariane: Molto rumore per nulla , per la regia di S. Sequi; La bisbetica domata, con M. Melato e Come vi piace , entrambe per la regia di M. Sciaccaluga; Il mercante di Venezia , con la regia di O. Costa; Antonio e Cleopatra , diretto da Missiroli. Di T. Williams rammentiamo Un tram che si chiama desiderio , nell’edizione di De Capitani; La dolce ala della giovinezza , diretto da G. Patroni Griffi; La rosa tatuata , di Vacis con V. Moriconi (1996); Estate e fumo di Pugliese e Zoo di vetro di Bordon; di A. Miller, Erano tutti miei figli e Broken Glass , entrambi per Missiroli, e La discesa da Monte Morgan , per M. Sciaccaluga. E sempre per Sciaccaluga, nel 1998, traduce una commedia classica, Il ventaglio di Lady Windermere di Oscar Wilde.

Ridenti

Lucio Ridenti iniziò la carriera come `generico’, insieme a Memo Benassi, nella compagnia diretta da Ermete Novelli; dopo una breve esperienza con la compagnia della Bondi, si fece notare come `brillante’ nella compagnia Ferrero-Palmarini-Celli-Pieri, ruolo che interpretò anche nella compagnia Galli-Guasti-Bracci (1916-19). Iniziò una breve carriera cinematografica: Il figlio o l’atroce accusa, Senza pietà (1920). Nel 1924 fu prim’attore comico con Alda Borelli e nel 1925 nella compagnia di T. Pavlova. Una menomazione all’udito gli impedì di continuare la carriera teatrale, così dal 1925 si impegnò nel giornalismo, dapprima come redattore alla “Gazzetta del popolo” di Torino, quindi come vicecritico drammatico. Nel 1925 fondò la rivista “Il dramma”, che diresse fino al giugno 1968, dove ospitò moltissime commedie italiane e straniere, facendo diventare la rivista anche luogo di discussioni critiche, oltre che di recensioni. A lui si deve la pubblicazione, in cinque volumi, delle Cronache drammatiche di Renato Simoni, nonché alcuni libri di teatro: Palcoscenico (1923), La vita gaia di Dina Galli (1928). Scrisse come commediografo Il malinconico , che andò in scena nel 1924 con protagonista Alda Borelli; insieme a Falconi, scrisse Cento donne nude (1927). Fu anche riduttore di romanzi di Tolstoj, Resurrezione (1925), e di Dostoevskij, Delitto e castigo (1927).

Ferrieri

Ancor giovane, a soli venticinque anni, Enzo Ferrieri diede vita a Milano a un Centro di incontri con letterati e artisti italiani e stranieri di rinomanza nazionale, presto affiancato da una rivista, “Il Convegno”, che durò fino al 1940. A queste iniziative nel 1924 si aggiunse la nascita di un piccolo ma estremamente alacre teatro d’arte (Teatro del Convegno) di carattere preminentemente sperimentale, al quale peraltro si dovette la conoscenza di innumerevoli testi di qualità italiani e stranieri, di autori contemporanei o del passato. L’esperienza teatrale nella sala di via Carducci fu di breve durata, ma Ferrieri proseguì nel suo impegno di proporre lavori sconosciuti attraverso letture registiche antispettacolari. Due titoli importanti per tutti: L’uragano di Ostrovskij e Esuli di Joyce. Conclusa la fervida avventura del teatro del Convegno, Ferrieri continuò a dedicarsi al teatro curando regie per varie compagnie, poi, nel 1955, fondando la Compagnia delle Novità. Nel 1956, in altra sede e per cinque stagioni, diede vita al Nuovo Teatro del Convegno dove presentò fra l’altro Amleto di Bacchelli. Fu anche regista radiofonico e attraverso l’etere fece conoscere centinaia di lavori teatrali. Durante la sua innovativa parabola artistica, esercitò anche ampio esercizio critico. Molte delle sue recensioni vennero raccolte in Novità di teatro (1941). La sua esperienza di regista è riflessa invece nel volume Regia teatrale (1956). Si avvicinò anche alla televisione, presentando lavori di Saroyan e Géraldy. Fu tra i primi a far conoscere in Italia H. Pinter (Una notte fuori , Milano, 1959, protagonista P. Borboni).

Buzzati

Dino Buzzati inizia la sua attività come giornalista al “Corriere della sera”, dove è assunto nel 1928, per diventare l’anno successivo redattore interno e vice-critico musicale per il Teatro alla Scala. Quindi diventerà inviato speciale. Intanto comincia a scrivere romanzi; nel 1940 esce Il deserto dei Tartari, primo grande successo. Il 14 maggio 1953, Giorgio Strehler mette in scena, al Piccolo Teatro, Un caso clinico, che verrà anche presentato a Parigi in una versione di Albert Camus. Ma la sua vera carriera di drammaturgo era iniziata nel 1942, quando, al Teatro Nuovo di Milano, viene rappresentata Piccola passeggiata, con la regia di Fulchignoni; continua con La rivolta contro i poveri, realizzata da Strehler, al Teatro Excelsior di Milano nel 1946.

Tra atti unici e commedie regolari, Buzzati ha scritto ben quindici testi teatrali, più due libretti d’opera: Ferrovia sopraelevata e Procedura penale , per le musiche di Luciano Chailly (Bergamo, 1955; Como, 1959). Altri testi sono: Il mantello (Teatro Convegno, 1960, regia Ferrieri), Drammatica fine di un noto musicista (Teatro Olympia, 1955, regia Brissoni), Sola in casa, 1958, e L’orologio , 1959, ambedue scritti per Paola Borboni e da lei rappresentati al Teatro Gerolamo. Le finestre (Teatro Gerolamo, 1958, regia Zeffirelli); Un verme al Ministero (Teatro S. Erasmo, 1960, regia di Blasi); I suggeritori (Teatro Lirico, 1960, regia D’Anza); L’uomo che andrà in America (Teatro Mercadante, 1962, regia di Colli); La colonna infame (Teatro S. Erasmo, 1966, regia di Lualdi). Scrisse anche La telefonista, non rappresentato, per Laura Adani e il soggetto per un balletto, oltre che disegnarne le scene e i costumi: Fantasmi al Grand Hotel , in collaborazione con Luciana Navaro, con le musiche di Chailly, rappresentato al Teatro alla Scala nel 1960, con Carla Fracci.

Buzzatti arriva al teatro negli anni ’40-50 portandovi le sue emozioni personali, oltre che le sue curiosità; ma soprattutto un senso di libertà, che nasce da una felice commistione di stile e di linguaggio e dalla sapienza con cui riesce ad alternare l’impianto realistico con quello simbolico. Egli ha cercato di guardare la realtà in faccia e di raccontarla allo spettatore con una scelta drammaturgica personale, con una lingua alquanto vicina alla quotidianità e, nello stesso tempo, sperimentale, che sa dar voce ai fantasmi presenti dentro ogni uomo. Per Buzzati, il teatro era un’evasione, una specie di transfert che né il romanzo, né altra forma d’arte potevano dare. Martin Esslin, dopo aver analizzato Un caso clinico , che considerò un moderno miracle-play, nella tradizione di Everyman , lo pose tra gli autori del `teatro dell’assurdo’, formula un po’ ambigua, ma certamente calzante.

Schiller

Leon Schiller debutta come critico in “The Mask”, rivista di E.G. Craig nel 1908. Nel 1913 organizza a Varsavia una mostra di pittura e bozzetti scenici. Direttore letterario e regista del Teatr Polski (1917-21), della Towarzystwo Teatrow Stolecznych (Compagnia dei Teatri della Capitale) a Varsavia (1920-21), regista dei teatri Reduta e Ateneum a Varsavia, Miejski a Lodz, dei teatri cittadini di Leopoli prima della guerra, è fatto prigioniero ad Auschwitz nel 1940 e a Murnau nel 1944. Dopo la guerra ha diretto i teatri Wojska Polskiego (dell’esercito polacco) a Lodz e Polski a Varsavia, ha fondato e diretto la rivista “Pamietnik Teatralny” (Memorie teatrali) è stato tra i fondatori dell’Istituto internazionale di teatro e ha fatto parte del comitato di redazione di “La Revue Théâtrale”. Nella sua attività è possibile distinguere un primo periodo, legato alle messe in scena dei drammi monumentali del romanticismo (Mickiewicz, Slowacki) e del modernismo polacco (Wyspianski, Micinski), nonché dei classici del repertorio internazionale (Shakespeare, Hasek), un altro, più legato all’attualità politica e sociale (Zeittheater) e un terzo incentrato sulla messa in scena di opere (Moniuszko) e sulla composizione di rappresentazioni musicali basate su testi e spartiti della letteratura popolare o antico-polacca. Definito `poeta della scena’, Schiller – che introdusse in Polonia le teorie sceniche e le tecniche di recitazione di Craig, Appia e Mejerchol’d – si è distinto per la varietà e l’espressività delle sue messe in scena, capaci di unire con armonia parola, gesto (celebre la sua direzione delle scene di massa), musica, luci e scenografia.

D’Amico

Silvio D’Amico rappresenta uno dei cardini attorno al quale è nato il nuovo teatro italiano del Novecento. Critico attivissimo, inizia come ‘vice’ di D. Oliva nell’ottobre del 1914 alla redazione di “Idea Nazionale”; scrive, poi, su “La Tribuna”, il “Giornale d’Italia” e, dal 1945 al 1955, su “Il Tempo”. Tiene anche rubriche teatrali su diversi periodici: “La festa” (1923-28), “La fiera letteraria” (1925-26), “L’illustrazione italiana” (1947-48 e 1952-55), “L’approdo” (1952-54). Dal 1945 è titolare delle cronache drammatiche alla Rai, per la rubrica “Chi è di scena”, poi raccolte nel volume Palcoscenico del dopoguerra (1953). Figura completa di critico, Silvio D’Amico oltre che cronista è storico di raro acume, firmando un’imponente Storia del teatro drammatico (1939-40), e grande organizzatore culturale: a lui si deve, infatti, la fondazione della Accademia d’arte drammatica di Roma, prima scuola di recitazione e regia in Italia, che porta ora il suo nome (1935-38), e l’ideazione e direzione dell’ Enciclopedia dello Spettacolo , pubblicata in nove volumi tra il 1954 e il 1962 (con un decimo volume di aggiornamento, impresa ancora unica in ambito europeo. Particolarmente attento a quanto avveniva all’estero, in particolare Germania e Francia, Silvio D’Amico sin dagli inizi della carriera prende posizione per un rinnovamento radicale della scena italiana, che doveva porsi al livello delle altre arti e del resto d’Europa, introducendo, per la prima volta, l’idea di un ‘teatro di regia’. Dopo Il teatro dei fantocci (1920) in cui esamina i maggiori contemporanei, Shaw e Benavente, chiarisce la sua idea di teatro in Tramonto del grande attore (1929), dove si schiera apertamente contro la figura del mattatore, contro il nomadismo e il dilettantismo del teatro. Una riforma che concerne, quindi, soprattutto la scena, gli attori e i capocomici: già nel 1914 indica in Ermete Novelli la figura paradigmatica dei pregi e dei difetti degli attori italiani, mentre inneggia alla compagnia di Benini quale modello artistico e organizzativo, o a Ruggeri come attore di stile moderno. Con Silvio D’Amico si profilano, dunque, l’idea di regista e di teatro d’arte (come già in Pirandello e nel suo lavoro di capocomico dal 1925 al 1928), in scritti come La crisi del teatro (1931), Invito a teatro (1935, sui rapporti tra Stato e teatro), Il teatro non deve morire (1945) e Mettere in scena (1954). Capostipite di una famiglia di studiosi e critici, D’A., di profonda fede cattolica, è stato caloroso polemista: celebri le dispute con M. Praga sul teatro borghese e con A.G. Bragaglia, giudicato eccessivamente avanguardista.

De Monticelli

Figlio di attori, Roberto De Monticelli era cresciuto – non solo metaforicamente – nei camerini dei teatri, acquisendo con la passione per il palcoscenico un orecchio eccezionalmente sensibile alle intonazioni della voce e alle sfumature dell’interpretazione. Formatosi come cronista a “Italia libera” e al “Tempo di Milano” e come redattore di costume e di cultura a “Epoca” – dove era approdato alla critica drammatica sostituendo, dapprima temporaneamente poi stabilmente, Ferdinando Palmieri – era quindi divenuto titolare della rubrica teatrale su “La patria”, dal 1956 su “Il giorno” e infine, dal 1974, sul “Corriere della Sera”, in quella che ancora era vista come la prestigiosa `cattedra’ di Renato Simoni. Dotato di una scrittura insieme incisiva e copiosamente densa di immagini, di un’innata competenza e di una inesauribile curiosità per le vicende della scena, ha saputo essere come nessun altro un autorevole punto di riferimento, un acuto e puntuale osservatore di fenomeni e tendenze testimoniati con lucida tempestività anche al di là dei singoli giudizi. Per molti anni presidente dell’Associazione nazionale dei critici di teatro, ha svolto anche in questo ruolo una fondamentale funzione trainante, avviando un approfondimento etico e professionale della categoria e fornendo un sostanziale apporto alla crescita del teatro italiano del nostro tempo, specialmente per quanto riguarda il fronte degli Stabili, al quale si sentiva costituzionalmente più vicino. Animato da una profonda e sofferta vocazione letteraria, ha lasciato un solo romanzo, L’educazione teatrale. Di fatto però le sue recensioni, sempre meditatissime e frutto di una faticosa elaborazione stilistica, si compongono in uno straordinario racconto dei gusti e dei costumi del teatro in un’epoca di decisivi mutamenti, come quella compresa fra gli anni ’50 e ’80, e in un percorso niente affatto occasionale nella storia di un paese e di una società colti attraverso il filtro peculiare del teatro. Da un suo saggio critico è stato ricavato il monologo Signori, il teatro deve essere rauco, interpretato nel 1989 da Renzo Giovampietro.

Dursi

Tra i pochi autori autentici e significativi del dopoguerra italiano, Massimo Dursi fu ricco di estri immaginativi e umori pungenti. Scrittore nato (pur se laureato in chimica), nei suoi lavori riversò una tensione costante di ideali civili e morali, unita alle impennate di una fantasia brillante, capace di tradursi in una scrittura densa e vivace, in un fraseggiare elegante e originale. La sua drammaturgia puntò da un lato a una satira di costume legata alla contemporaneità, dall’altro a un registro definito da qualcuno `epopea degli umili’. Appartengono alla prima categoria commedie come la graffiante Caccia alla volpe (1948), La giostra (1950) e Fantasmi in cantina (1964). Del secondo gruppo fanno invece parte opere a sfondo storico come Bertoldo a corte (1957), La vita scellerata del nobile signore Gilles de Rais che fu chiamato Barbablù (1967), arrivata anche sulle scene del Piccolo Teatro di Milano, Stefano Pelloni detto il Passatore (1963) e Il tumulto dei Ciompi (1972). Fu anche autore di numerosi testi radiofonici e televisivi. Come critico (al “Resto del Carlino” dal 1945 al ’74), le sue recensioni sono da considerare vere lezioni di metodo.

Lodovici

Cesare Vico Lodovici fu tra le personalità di spicco dell’attività letteraria fra le due guerre. Il suo nome è legato soprattutto alla traduzione dell’opera scespiriana, completata negli anni ’60. Oltre che di Shakespeare, fu traduttore anche di Aristofane, Plauto, Calderon, Tirso da Molina, Cervantes, Racine, Molière, Becque, Claudel, Camus, Eliot e O’Neill. Per il teatro scrisse anche alcuni testi, tra i quali vanno segnalati La donna di nessuno (1919), Ruota (1933) e L’incrinatura (1937), attraverso i quali si rivelò un fine conoscitore dell’animo femminile. Gli allestimenti di questa trilogia ebbero un buon successo in Italia e all’estero, tanto da essere considerati alcuni tra gli esempi più significativi del repertorio italiano moderno. L. si confrontò anche con il dramma storico ( Vespro siciliano , 1940) e con il dramma sacro ( Caterina da Siena , 1950), senza però ottenere riscontri particolarmente soddisfacenti, poiché andò a toccare temi a lui non congeniali. Fu anche sceneggiatore per il cinema e autore di libretti per il teatro in musica.

Alvaro

La sua attività di drammaturgo si fa risalire al 1923, con Il paese e la città, rappresentato al Teatro degli Indipendenti di Roma. La prima notorietà, però, l’ottenne con una raccolta di racconti, cinque anni dopo: Gente d’Aspromonte. Nel 1939, la Compagnia Pagnani-Cervi portò in scena Il caffè dei naviganti , dove ritorna il tema, a lui caro, del contrasto tra la gente umile, naturale e quella artificiosa della città. Alvaro Corrado immagina una solitaria spiaggia d’Italia, dove vivono pescatori e barcaioli semplici e forti, oltre che felici, e dove arriva un gruppo inquieto di uomini nordici che turberà il loro equilibrio delicato. Renato Simoni, pur sottolineando una segreta musicalità, fece notare una «difettosa drammaturgia». Tra gli altri attori, va segnalata la presenza di Rina Morelli e Paolo Stoppa. Nel 1949, A. ottenne maggior successo con Lunga notte di Medea, con Tatiana Pavlova, scene di De Chirico, musiche di Pizzetti, ripresa nel 1966 con Laura Adani e Renzo Giovampietro, per la regia di Maurizio Scaparro. Egli spogliò il mito da ogni demonismo e crudeltà e fece di Medea una donna semplice, meridionale, offesa nel suo amore materno.

Conclusa l’attività di drammaturgo, iniziò quella di critico drammatico per “Il Popolo” (1940-41) e “Il Mondo” (1949-51), quella di riduttore per le scene: I fratelli Karamazov (1940), Celestina (1942) e quella di sceneggiatore cinematografico: Terra di nessuno (1939), Fari nella nebbia (1942), Una notte dopo l’opera (1942), Patto col diavolo (1950) e Roma ore 11 (1952). Certamente la fama teatrale di A. è legata alla trasposizione del mito di Medea in un ambiente che più si avvicina alla sua terra d’origine. Il modello è Il lutto si addice ad Elettra , di O’Neill, o forse la necessità di trasferire il mito antico nelle mitologie moderne così come avevano fatto Hofmannsthal ( Elettra ), Gide ( Edipo ), Giraudoux ( Elettra , Anfitrione ) e come faranno autori a lui contemporanei: Savinio ( Ulisse ), Anouilh, la cui Medea è scritta sei anni prima di quella di A. (1953). La drammaturgia di Alvaro Corrado può essere divisa in due momenti: quella del teatro antecedente alla guerra, inserita più nel quadro della narrativa, con riferimenti al mondo arcaico-contadino; e quella del secondo dopoguerra, più attenta a riscoprire l’oasi del mito, non disgiunta da una forte carica sociale.

Prosperi

Giorgio Prosperi ha legato per oltre quarant’anni il suo nome alla critica teatrale del quotidiano “Il Tempo”. Di profondi principi laici, trova nella storia la chiave per interpretare una realtà di mediocre profilo. Tra i suoi testi vanno ricordati La congiura (1960), sulla cospirazione di Catilina, Il re (1961), dove immagina il turbamento d’animo di Carlo Alberto nell’immediata vigilia della rinuncia al trono, e Il processo a Socrate (1983). Per il cinema ha collaborato come soggettista-sceneggiatore anche a Senso di L. Visconti.