Talli

Virgilio Talli studiò recitazione all’Accademia dei Fidenti, a Firenze. Debuttò nel 1881 con la Tessero. Fece parte poi di altri complessi di valore e lavorò con Novelli, Reinach, Di Lorenzo, Andò. Nel 1900 vestì i panni di Massimo nella prima rappresentazione di Come le foglie di Giacosa. Nello stesso anno divenne direttore della prestigiosa Talli-Gramatica-Calabresi, compagnia di cui fecero parte anche Ruggeri, Giovannini, la Franchini e L. Borelli. Nel 1909 formò un altro gruppo importante, la Talli-Melato, con Giovannini, V. Vergani, A. Betrone e, successivamente, R. Lupi (è del 1917 la prima milanese di Così è (se vi pare). Dal 1918 al ’21 diresse, in collaborazione con L. Chiarelli, la semistabile del Teatro Argentina. Dal 1921 al ’23 fu a capo della compagnia Nazionale (con A. Borelli, Ruggeri, Calò, Tofano, Olivieri e la Sammarco).

Diresse M. Abba nel 1924, quando guidava la Capodaglio-Calò-Olivieri-Campa, e si occupò della tournée della Duse. Fu il primo a mettere in scena il teatro di H. Becque in Italia con La parigina (1890) e I corvi (1891). Le sue compagnie produssero circa trecento allestimenti, tra i quali vanno ricordati gli storici La figlia di Iorio di D’Annunzio (1904), Dal tuo al mio di Verga (1904), ed Enrico IV (1922) oltre a La vita che ti diedi entrambi di Pirandello (1923) e Marionette, che passione! di Rosso di San Secondo (1918). T., che smise di recitare nel 1912, ha raccolto le sue memorie nell’interessante volume La mia vita di teatro (Milano 1927).

Martoglio

Nino Martoglio si impegnò affinché il teatro siciliano avesse uguale dignità degli altri teatri dialettali d’Italia. Nel 1903, insieme agli attori Grasso e Musco, fondò una compagnia, che mise in scena con successo al Teatro Manzoni di Milano La zolfara di Giusti Sinopoli. Sempre per questa formazione scrisse le sue opere più riuscite: Nica (1903), San Giuvanni decullatu (1908, che Musco ogni sera colorì di battute nuove e improvvisate), L’aria del continente (1915, in cui emergono in modo forte le tematiche pirandelliane essendo stata scritta in collaborazione con l’amico siciliano), Il marchese di Ruvolito (1920). Sono questi lavori nei quali a una comicità travolgente fa da sfondo una desolante tristezza, in un contesto dove a trame colorite non corrisponde un adeguato approfondimento dei personaggi. Nel 1910 al Metastasio di Roma fondò il Teatro Minimo, dove gruppi di attori mettevano in scena una serie di atti unici, tra i quali si segnalarono le prime produzioni di Rosso di San Secondo e alcuni testi di Pirandello. Proprio con quest’ultimo Martoglio scrisse ‘A vilanza (1917) e Capiddazzu paga tuttu (1922).

Fanfulla

Luigi Fanfulla, figlio di Mercedes Mendlesi, detta `Diavolina’ sulle locande del varietà, considerato il più dotato della sua epoca. Eppure, curiosamente per scelta personale, rimase confinato in quel genere minore che ad altri comici era invece servito come palestra d’apprendimento e trampolino di lancio per la rivista vera e propria: da Totò a Rascel, da Fabrizi a Dapporto, da Tognazzi a Bramieri, da Taranto a Billi e Riva, tutti militarono per anni in avanspettacolo prima del salto in alto verso ribalte più prestigiose. Accanto a Fanfulla, vanno nominati altri talentuosi comici d’avanspettacolo rimasti tali: Fredo Pistoni, Vanni Romigioli, Mario Ferrero, Renato Maddalena, e una serie di fratelli: i Martana, i Bonos, i Maggio, i De Rege. Fanfulla, in un’intervista a Oreste del Buono del 1970, a proposito della sua carriera, ebbe a dire: «Io, che alla fine della guerra godevo di una popolarità immensa, mi sono visto superare da tanti in fama e guadagni. E allora qual è stato lo sbaglio? Per cominciare, credo che un qualche sbaglio ci sia stato nel nome. Lo conoscono tutti, d’accordo, ma forse è riduttivo. A Roma avevo zii, parenti vari in posti importanti. Mi occorreva uno pseudonimo. Restai incerto tra Fanfulla e Attila. E poi decisi per Fanfulla. Chissà, Attila avrebbe funzionato meglio. Va a sapere…». Nonostante il cognome non aveva nessun legame con i Visconti di Modrone lombardi, questo coincidenza, però suggerì uno scherzo all’autore di riviste Ruggero Maccari. Intervistato da un giovane e inesperto giornalista, rivelò che era in quel periodo intento alla stesura di un copione importante, commissionatogli nientemeno che da Visconti. Si trattava, ovviamente, di Fanfulla, ma il giornalista abboccò e attribuì al già famoso regista Luchino il proposito d’esordire in rivista.

Fanfulla comico d’una comicità surreale (come Rascel), che si presentava indossando giacche di colori impossibili, citava battute sapide prese a prestito dalle riviste d’umorismo “Marc’Aurelio” e “Bertoldo”, arricchiva i suoi spettacoli con ospiti a sorpresa: se attore di prosa, impegnato in un monologo; se cantante, nell’esecuzione di alcuni motivi di successo. Nel 1942, in compagnia ebbe Alberto Sordi nel ruolo di presentatore. E Sordi ricorda: «Ogni settimana un ospite. Una volta venne la Magnani, un’altra Fabrizi. Una sera presentai Federico Fellini e Giulietta Masina che, appena sposati, erano in viaggio di nozze. Li feci salire sul palcoscenico e invitai il pubblico a regalare loro, come dono di nozze, un bell’applauso. E gli spettatori si pelarono le mani a furia di batterle». Il settimanale di spettacolo “Otto” così giudicò Fanfulla: «Questa del cambiar vestito ad ogni quadro è una trovata che indubbiamente rende molto sul piano dello spettacolo: appena Fanfulla va fuori scena con il suo vestito celestrino, il pubblico resta lì ad aspettarlo al varco chiedendosi come riapparirà dopo; e dopo c’è il vestito rosa e poi quello verde smeraldo e quindi quello rosso fuoco, e arancione, e giallo, e indaco, e violetto. Una trovata spettacolare, come quella del passo addormentato, degli occhi socchiusi, del viso immobile, del lievissimo sorriso, della grattatina alla suola della scarpa, del sudore al gomito, dell’indice ribelle da ripiegare con mansuetudine. Mille trovate che fanno di Fanfulla un attore comico». Un attore consapevole del suo talento. Stava per fare compagnia con Wanda Osiris, e quindi stava per compiere il salto di categoria. Non accettò l’ordine di apparizione sul manifesto. Voleva: «Fanfulla presenta Wanda Osiris». Gli fu ribattuto: «Wanda Osiris presenta Fanfulla». Rifiutò. Al suo posto, venne chiamato Renato Rascel. Mai banale, neppure nei titoli degli spettacoli: Il romanzo di due orfanelle povere e due sergenti miserabili padroni delle ferriere: misteri di Parigi , un bigino di feuilleton firmato da Amendola e Mac (Ruggero Maccari), stagione 1946-47 al Valle di Roma. Nel cast, Mara Landi e il cantante Achille Togliani; scene di Onorato.

La stagione successiva, sempre al Valle (F. si muoverà poco da Roma) va in scena La favola di tutti i tempi di Sullin, con satira politica «non sempre di buon gusto». Ma in scaletta c’è anche un incontro di boxe tra donne. Sempre a Roma, nella stagione 1948-49, tre assi in concorrenza: Fanfulla varietà , Rascel varietà e Bustelli varietà , il mago dai mille trucchi. In Tante piccole cose , Roma 1950-51, con Fanfullaci sono Edmea Lari, la ‘spalla’ Carlo Rizzo e il ballerino Harry Feist. In Follie di primavera di Amendola e Mac, Fanfulla sdrammatizza la discesa in serie B della squadra calcistica Roma, recitando Er fattaccio sportivo (1951-52). Dopo anni di intenso e proficuo lavoro al servizio dell’avanspettacolo, F. risente anch’egli della crisi che attraversa quel genere, sconfitto da strip-tease, cabaret e commedie musicali. Nel 1965, va in scena Che donne, ragazzi! ; nella stagione 1967-68, un `superavanspettacolo’ firmato da Dino Verde e intitolato Divertentissimo . Stile e talento di F. furono esaltati in due film di Federico Fellini. Ne I clown , 1970, ma soprattutto in Satyricon (1969), rilettura trasgressiva dell’opera di Petronio. Nella debosciata Roma imperiale, F. fu il comico Vernacchio, ricalcato sull’iconografia dei mosaici che esprimeva una desolata, ambigua e grassa comicità. Ottenne per tale incisiva interpretazione il Nastro d’argento. «Sboccato, ilare con tristezza e amaro con risvolti giocosi», chiosò l’autorevole Pietro Bianchi.

Ninchi

Annibale Ninchi frequentò la scuola di Luigi Rasi a Firenze, dietro incoraggiamento di Carducci. Fu primo attor giovane nella compagnia Stabile di Milano ed in quella dell’Argentina di Roma, con Irma Gramatica e Ruggeri. Dal 1914 fu direttore di compagnia e capocomico. Interprete di grande personalità e forza comunicativa grazie ai suoi mezzi fisici e vocali, si cimentò in un vasto repertorio, passando dai greci a Shakespeare, da Morselli (nel cui Glauco riscosse uno straordinario successo) a Shaw, da D’Annunzio (del quale fece vivere sulla scena memorabili personaggi) ad una serie di autori poco conosciuti. Come autore drammatico debuttò con Caino al Teatro della Pergola di Firenze nel 1922.Vanno ricordati poi l’ Orfeo , L’altra verità (1923), La ballata degli impiccati (1927), Il poeta malandrino (1929) e Maschera d’oro (1931). La sua carriera cinematografica cominciò nell’era del muto con una Carmen del 1909. Poi fu applaudito interprete di Scipione l’Africano (1937) e, con Fellini, girò La dolce vita (1960) e Otto e mezzo (1963).

Viviani

Raffaele Viviani esordisce giovanissimo come bambino prodigio nei teatrini popolari di Napoli, ma alla morte del padre, agiato attrezzista e impresario, è costretto ad una dura gavetta nei teatri di varietà. Si afferma nel 1904 con una personalissima interpretazione di una macchietta del repertorio di P. Villani, Lo scugnizzo di G. Capurro e F. Buongiovanni. Viviani, coniugando le sue doti acrobatiche e mimiche ad un impietoso realismo venato di amaro umorismo, crea una propria maniera che lo distingue dal bozzettismo di moda tra gli artisti di varietà e costituisce la premessa stilistica più cospicua della sua futura opera drammaturgica. L’elaborazione del repertorio macchiettistico è per il giovane analfabeta Viviani una vera e propria scuola di scrittura. Infatti quando nel 1917, in seguito alla crisi del caffè concerto, esordisce con una propria compagnia di prosa, trasforma i suoi numeri di varietà in pièce teatrali: `O vico (1917), Tuledo `e notte (1918), Scugnizzo (1918), Eden teatro (1919), La festa di Piedigrotta (1919). Sviluppa così una scrittura particolarmente sensibile alla rappresentazione dell’ambiente sociale in cui la narrazione procede coralmente attraverso un equilibrato contrappunto delle individualità di ciascun personaggio. Con Circo equestre Sgueglia (1922) Zingare (1926) e Napoli in frack (1926), si accentuano gli spetti drammatici del suo teatro d’ambiente napoletano che, nonostante l’avversione del fascismo, sono apprezzati in tutta la penisola e danno vita ad una produzione ricchissima tra cui ricordiamo: Morte di Carnevale (1928), Guappo `e cartone (1932), I vecchi di S. Gennaro (1933), L’ultimo scugnizzo (1932), La tavola dei poveri (1936-1954), Siamo tutti fratelli (1941). La attività di attore e capocomico di Viviani è particolarmente originale, si distingue infatti per una concertazione scenica accuratissima dove gesto musica e parola si fondono armonicamente.