regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

Weiss

Figlio di ebrei (il padre era un industriale cecoslovacco, la madre una colta vedova svizzera che in gioventù era stata attrice), dopo l’infanzia berlinese Peter Weiss fu costretto a seguire i genitori in fuga dalla montante follia nazista (emigrarono nel 1934). Prima due anni in Inghilterra, poi due in Cecoslovacchia – dove si formò all’Accademia artistica di Praga (1936-37), poi uno in Svizzera; infine, dal 1939 in Svezia, dove Weiss si stabilì prendendo la cittadinanza (1945). La giovanile vocazione per la pittura fu subito ridimensionata dalla necessità di far fronte ai bisogni materiali di chi, abbandonata la patria, aveva perso gli agi borghesi. Costretto a mantenersi, trovò lavoro nelle arti applicate (disegnatore nell’industria tessile e grafico), continuando per molti anni a dipingere, a creare collage, a occuparsi di cinema (fu consulente per l’Accademia del film svedese fino alla morte) e, naturalmente, a scrivere.

Se la pittura non gli diede mai grandi soddisfazioni (fece la prima mostra alla galleria Springer di Berlino nel 1963, quando era ormai uno scrittore famoso), così come il cinema (nel 1960, al festival di Locarno, passò inosservato il suo primo lungometraggio, Lo sperduto ), con la letteratura e il teatro, se pur tardivamente, si impose a livello internazionale, diventando il primo grande autore di lingua tedesca dopo Brecht. Alle prose d’esordio in lingua svedese (scritte tra il 1947 e il 1953) Weiss alternò i suoi primi due drammi in tedesco – La torre, 1948 e L’assicurazione, 1952 – che risentono da una parte dell’influsso del teatro dell’assurdo, dall’altra dell’opera di Strindberg, di cui in seguito tradurrà La signorina Julie (1961) e Il sogno (1963). La svolta avvenne nel 1960, quando con il microromanzo L’ombra del corpo del cocchiere (Der Schatten des Körpers des Kutschers) si impose all’attenzione della critica per l’originalità di una scrittura capace di creare forti suggestioni visive. Il plauso della critica fu ribadito e accompagnato dall’interesse del pubblico anche in occasione dell’uscita dei due successivi testi autobiografici Congedo dai genitori (Abschied von den Eltern, 1961) e Punto di fuga (Fluchtpunkt, 1962), in cui lo sradicamento esistenziale e linguistico degli esuli del nazismo provoca una profonda crisi di coscienza che sfocia in un pessimismo critico e si manifesta nella condizione dell’apolide.

La piena maturità artistica di Weiss coincide con la sua attività di drammaturgo. Nel 1963 l’atto unico Notte con ospiti riassume tutte le esperienze linguistiche precedenti in un testo grandguignolesco, in cui due bambini assistono all’autodistruzione del mondo adulto. È il preludio al primo dei suoi capolavori: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade (Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade), solitamente abbreviato in Marat/Sade . Weiss utilizzò il dramma storico e il gioco di specchi del teatro nel teatro per mettere in risalto il conflitto tra Marat, l’uomo più radicale della Rivoluzione francese, intransigente difensore della giustizia e della ragione, e Sade, interprete di un anarchismo istintivo e di un nihilismo aristocratico che lo porta a profetizzare la sconfitta della Rivoluzione (il marchese de Sade era stato realmente ricoverato in quell’ospizio). Lo scontro tra le due istanze rimane aperto – Marat può essere un eroe come un pazzo e Sade un pazzo come un saggio – e lo stesso autore nel corso del tempo non esplicitò mai definitivamente le sue propensioni. Weiss stese quattro redazioni successive alla prima, che andò in scena nel 1964 allo Schiller Theater di Berlino con scene disegnate da lui stesso, costumi creati dalla moglie, Gunilla Palmstierna, e la regia di Konrad Swinarski. Degli allestimenti successivi vanno citati almeno quello di Peter Brook (Londra 1964, che poi diventò anche un film) e, più recentemente, quello di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza (198?).

L’anno successivo il clamore fu ripetuto dalla messa in scena de L’istruttoria (Die Ermittlung). Questa volta Weiss scrisse il testo più riuscito del cosiddetto `dramma documentario’ – che aveva avuto due precedenti di grande successo con Il vicario di Hochhuth e Sul caso J. Robert Oppenheimer di Kipphardt – montando in versi gli atti del processo (Francoforte 1963-64) contro i responsabili del lager di Auschwitz. Il poema, raccontando minuziosamente la barbarie, fu uno shock; snodandosi come un oratorio, scandito dalle testimonianze delle vittime e dalla difesa degli aguzzini, si chiude senza verdetto: un finale senza catarsi che diventa un ineludibile monito per il futuro. Lo spettacolo debuttò contemporaneamente in diversi teatri tedeschi: alla Freie Volksbühne di Berlino Ovest, Erwin Piscator ne fece una rappresentazione scarna, essenziale, con i ventidue quadri introdotti dai preludi composti da Luigi Nono (ripresi poi in una geniale messa in scena di Virginio Puecher al Piccolo Teatro, con l’uso inedito di telecamere a circuito chiuso, 1967); a Colonia fu messo in scena davanti a uno specchio che rifletteva il pubblico, esplicito richiamo a considerare quella tragedia il frutto della propria storia; a Berlino Est, Helene Weigel ne diede una semplice lettura, poiché nulla si poteva aggiungere a quelle parole. Un’edizione particolarmente riuscita – che concilia la forza emotiva e il rigore – è tuttora nel repertorio della Compagnia del Collettivo di Parma (regia di Gigi Dall’Aglio, 197?).

L’eco de L’istruttoria fu anche amplificato dalle polemiche suscitate dall’autore, che ne diede una lettura politica: l’orrore dei lager era il frutto del capitalismo. La sua adesione al comunismo militante influì fortemente sulle opere successive: la Cantata del fantoccio lusitano (Gesang vom lusitanischen Popanz, 1967; messa in scena nel ’69 da Strehler con il gruppo Teatro Azione, quando lasciò il Piccolo Teatro) sul feroce imperialismo portoghese in Angola, Come il signor M. fu liberato dai suoi tormenti, `stationendrama’ su un proletario sfruttato dalla società e il programmatico Discorso sulla preistoria e il decorso della lunga guerra di liberazione nel Vietnam quale esempio della necessità della lotta armata degli oppressi contro i loro oppressori come sui tentativi degli Stati Uniti di distruggere le basi della rivoluzione , di solito abbreviato in Discorso sul Vietnam (Diskurs über Viet Nam; entrambi del 1968). Si tratta di testi dichiaratamente di propaganda, in cui si intrecciano pantomime, scenette, canzoni e danze montate come spettacoli di teatro spontaneo, con trovate divertenti e efficaci intuizioni (ad esempio, i diversi registri linguistici in Discorso sul Vietnam ) ma che, per loro stessa natura, risultano grezzi nella drammaturgia e, inevitabilmente, superficiali nei contenuti.

La prospettiva fortemente ideologica di Weiss non gli impedisce di attaccare l’Urss subito dopo l’invasione di Praga e, conseguentemente, di essere messo al bando dai comunisti. Con il collage documentario Trockij in esilio (Trotzki im Exil, 1970) ritorna sul tema della rivoluzione tradita, senza ripetere lo straordinario risultato del Marat/Sade, ma anticipando temi tuttora attuali, come la necessità di un riscatto del Terzo mondo. Segue una parabola discendente con il criticato Hölderlin (1971), una biografia del poeta come l’artista capace di combattere la tradizione culturale dominante miseramente asservita al potere (rappresentata da Goethe e Schiller), e un faticoso adattamento del Processo di Kafka (1975), ridotto alla dialettica servo-padrone. Gli insuccessi degli ultimi due testi lo spinsero a ritornare alla letteratura, ma non ad abbandonare le sue idee; il suo testamento filosofico è L’estetica della resistenza (Die &Aulm;sthetik des Widerstands, 1975-1981), biografia del movimento operaio e dell’antifascismo attraverso la vita di un proletario.