Apollinaire

Personaggio chiave della Belle Epoque, Apollinaire Guillaume fu tra gli animatori del rinnovamento estetico che coivolse tutti gli ambiti dell’arte nel primo ventennio del Novecento. Sperimentatore di linguaggi, contribuì al superamento dell’eredità del simbolismo in poesia e all’avvento della modernità intesa come concetto formale e come forza rivoluzionaria, provocatoriamente sperimentale. Vicino agli ambienti del dadaismo, amico di Picasso – con cui condivise gli anni del Bateau Lavoir – di Léger, Maria Laurencin, Picabia, Braque, Derain, Apollinaire Guillaume visse intensamente la fase delle avanguardie artistiche e letterarie. La commistione dei linguaggi visivo e verbale pare trovare perfetta esemplificazione nel suo teatro. Di fatto la tentazione per un teatro comico e simbolico ha fatto parte di tutta la sua carriera, e dunque frammenti dialogici si alternano alle poesie e testi in prosa consentendogli di far convergere le diverse istanze espressive della sua personalità composita. In collaborazione con André Salmon, Apollinaire scrive nel 1906 due opere La Temperature e Le Marchand d’anchois, un libretto di operetta.

Di tutt’altra importanza rispetto a questi tentativi iniziali, Les mamelles de Tirésias , dramma surrealista in due atti e un prologo, messo in scena con grande scandalo nel 1917. Esempio di ‘spettacolo-provocazione’, il testo racconta con estrema forza, anche visiva, una lettura aristofanesca e stralunata di un provvedimento governativo coevo, quello della `natalisation’, vera e propria campagna bellica per l’incremento della natalità. L’altra opera di Apollinaire esplicitamente destinata al teatro è Couleur du temps , messa in scena a Parigi dopo la morte in guerra dell’autore (1918): associa il gusto per l’esaltazione della tecnologia (il volo, il fascino doloroso del conflitto) che fu proprio dell’autore negli ultimi anni della sua attività con l’impiego di marionette, quale supporto drammaturgico funzionale al sovrapporsi di frammenti lirici su grandi luoghi comuni come l’amore, la guerra, il futuro, la vita e la morte, ulteriore segno dell’eclettismo di Apollinaire, del suo debito verso il teatro dada, ma anche della sua straordinaria plurivocità d’espressione.

Dada

Dada nasce nel 1916 a Zurigo dove, nel pieno del conflitto mondiale, trovano rifugio scrittori, poeti, pittori e intellettuali. I suoi inizi risalgono all’apertura del Cabaret Voltaire fondato dal tedesco Hugo Ball che, già assistente di Max Reinhardt, organizza qui una serie di serate ispirate alle formule spettacolari di Berlino. L’attività del cabaret richiama la partecipazione di personaggi come T. Tzara, E. Hennings, H. Arp, M. Janco, R. Huelsenbeck, H. Richter, che in breve tempo danno vita all’esplosione d. Il movimento si pone da subito contro i valori e le strutture della cultura tradizionale. Avverso a ogni sorta di dogmatismo e di rigidità programmatica, prende le distanze dalle teorie artistiche circostanti e precedenti, e si caratterizza per l’assenza di un’estetica di base, facendo piuttosto della caoticità, della spontaneità e dell’improvvisazione i presupposti di una nuova visione del mondo. Nel rifiuto di quella concezione borghese che pone l’arte al di sopra e al di fuori dei valori contingenti dell’esistenza, d. intende abbracciare totalmente l’espressione vitalistica dell’individuo svelandone la sua natura intima, di norma celata dai condizionamenti imposti dalla società. «Dada non è follia né saggezza né ironia guardami, gentile borghese. L’arte era un giuoco, i bambini riunivano le parole che hanno una soneria alla fine, poi gridavano e piangevano la strofa, e le mettevano gli stivaletti delle bambole, e la strofa divenne regina per morire un poco, e la regina divenne balena e i bambini correvano a perdifiato…»: con affermazioni di questo tipo, Tzara proclamava un ritorno dell’arte alle origini dell’umanità e indicava nella spontaneità e nell’immediatezza i termini di un fare poetico che fosse espressione della vita stessa (da qui l’interesse per l’arte africana e oceanica). Le idee di Tzara e degli altri esponenti d. trovano diffusione attraverso la nascita di diverse pubblicazioni: la rivista “Cabaret Voltaire” (1916; raccoglie le prime espressioni della nuova avanguardia); la rivista “Dada” (1917-20; riassume l’imperativo anarchico dell’impresa d. nella caoticità della sua veste editoriale); il Manifesto dada, proposto da Tzara (presentato nel 1918; afferma la volontà dissacratoria del movimento imponendo il suo rifiuto perentorio di ogni scuola e corrente artistico-letteraria). Ma è soprattutto attraverso le sue esibizioni esplosive che d. si impone all’attenzione pubblica. Nonostante le sue premesse anarchiche e antiprogrammatiche dà vita, infatti, a una particolare forma di spettacolo che viene definendosi nel corso delle celebri `serate’ che si susseguono a Zurigo tra il 1916 e il 1919. Queste manifestazioni prevedevano l’improvvisazione di spettacoli movimentati dove letture di poemi d., presentazioni di quadri, composizioni musicali, balli, sketch si succedevano in una kermesse di creazioni fantasiose e irriverenti che terminavano nella baraonda più totale provocata dal pubblico e dagli stessi autori. Lo spirito di queste serate è conservato nei ricordi di Tzara che nella sua Cronique Zurichoise così descrive la prima manifestazione d.: «si grida nella sala, si batte, prima fila approva seconda fila si dichiara incompetente il resto grida, chi è più forte si porta la grancassa, Huelsenbeck contro 200, Ho osenlatz accentuato dalla enorme grancassa e i sonagli al piede sinistro – si protesta si grida si rompono i vetri ci si uccide si demolisce ci si batte la polizia interruzione…..».

Con la sua carica sovversiva e distruttiva la rappresentazione dada abolisce i principi dell’estetica teatrale convenzionale. Elimina la presenza di un testo e di una trama coerente, proponendo un insieme di giochi di parole e divertimenti linguistici all’insegna dell’illogicità e della dissacrazione. Svincolando così la parola dal suo significante restituisce al linguaggio la sua forza ritmica ed evocativa e opera, come voleva Tzara, nel recupero della poesia vista appunto come gioco e spontanea creazione. Insieme al testo la drammaturgia d. annulla la funzione del personaggio: il dadaista non interpreta un ruolo ma porta sulla scena se stesso, con il proprio nome, presentando al pubblico invece del prodotto artistico il processo creativo stesso e realizzando così nella rappresentazione il proposito di una totale fusione tra arte e vita. Come abolisce ogni distanza tra arte e vita così annulla la separazione fra la scena e la sala coinvolgendo il pubblico alla partecipazione attiva dei suoi spettacoli: le rappresentazioni d. sono solite scatenare la reazione violenta dello spettatore che si sente offeso dall’assurdità e incomprensibilità dei contenuti proposti e hanno tanta più presa laddove agiscono davanti ad un pubblico intellettuale, esperto di arte moderna che, in quanto tale, oppone una maggiore resistenza alle provocazioni lanciate. Il coinvolgimento del pubblico avviene anche attraverso la diffusione di false notizie e messaggi sbalorditivi sui giornali che allargano l’azione dello spettacolo portandola all’interno del vissuto quotidiano. Il gruppo zurighese, a cui si aggiunge in un secondo momento F. Picabia, si trasferisce poi a Parigi (1919) dove viene accolto dai membri della rivista “Littérature”. Qui dà vita ad un altro fervido periodo di manifestazioni ed esposizioni a cui partecipano poeti e scrittori come A. Breton, L. Aragon, P. Eluard, P. Soupault, G. Ribemont-Dessaignes. Con il sopraggiungere di disaccordi e polemiche all’interno del gruppo parigino d. dichiara la sua fine nel 1922, ma l’eco della sua azione si protrae nello spirito di cui sono improntate le avanguardie successive, a partire dal surrealismo. Il fenomeno d. si estende in varie città europee dove, data la sua antiprogrammaticità di fondo, prende diverse forme di espressione assumendo a Berlino un carattere più violentemente politico (R. Huelsenbeck, R. Haussman, J. Baader, J. Heartfield, G. Grosz sono fra i suoi maggiori esponenti), mentre a Hannover (con K. Schwitters) e a Colonia (con Arp, M. Ernst, J.T. Baargeld) manifesta un’atteggiamento ironico e umoristico. A New York d. si sviluppa soprattutto nell’ambito delle arti plastiche e pittoriche per opera di M. Duchamp (ricordiamo i `ready made’), F. Picabia e Man Ray. Storicamente va annoverato tra i dadaisti `ante litteram’ Apollinaire che, pur non avendo esplicitamente aderito al movimento, ne ha precorso la drammaturgia nelle sue esperienze artistiche: già nel 1912 partecipa infatti alla messinscena di Impressions d’Afrique , sorta di divertimento linguistico e nel 1914 è protagonista di A quelle heure un train partira-t-il pour Paris? (1914), pantomima con un personaggio senza volto; dimostrerà poi un palese contatto con l’avanguardia nella sua creazione Les mamelles de Tirésias (1917).

Appia

Musica, tridimensionalità, spazi ritmici, luce sono le vere e proprie scoperte che fanno di Adolphe Appia uno dei padri del teatro novecentesco e uno dei più tenaci assertori della necessità del primato di uno spazio scenico che sfugga alle secche del naturalismo. L’approccio al teatro di questo grande teorico che in palcoscenico ha lavorato pochissimo a causa di una gravissima nevrosi che lo rendeva balbuziente, e che lo farà morire alcolizzato in una clinica per malattie nervose, avviene attraverso l’esperienza musicale. Che per Adolphe Appia prende corpo soprattutto in quella forma di `teatro totale’ che l’opera di Wagner suggerisce. Proprio la visione de L’anello dei Nibelunghi gli fa comprendere come una realizzazazione piattamente realistica rischi di impoverire la straordinaria forza della musica wagneriana. Ma l’antipatia di Cosima Wagner, vedova del compositore, gli impedisce di vedere realizzate le scene create per L’oro del Reno e per La Valchiria. Partendo da queste scenografie e dalla necessità che la musica si rispecchi in uno spazio che ne esalti la forte caratteristica di Wort-Ton-Drama, A. scrive La messinscena del dramma wagneriano (1895) in cui si gettano le basi di una visione del teatro che verrà compiutamente espressa in L’opera d’arte vivente (1921).

La novità del suo modo di intendere il teatro musicale si realizza dal vivo ben poche volte e con scarso successo: in due regie, per Manfred e Carmen e nelle scenografie di Tristano e Isotta per la Scala nel 1923 e de L’oro del Reno e La valchiria al Teatro di Basilea. In questi stessi anni conosce e collabora con Jean Jaques Dalcroze, fondatore della danza ritmica. Insieme a lui, anche in spettacoli studiati per la `città sperimentale’ di Hellerau, analizza il rapporto fra la tridimensionalità del corpo umano e quella dello spazio in cui il corpo si muove. Anzi è proprio la plasticità corporale a suggerirgli l’importanza dell’uso di un’illuminazione in grado di esaltarla. Il legame musica-forma, plastica-luce, lo spinge a creare i celebri `spazi ritmici’: progetti di scene scandite da pilastri e da gradinate, da luce e da buio, di una rara e classica purezza (racconterà, in proposito, di essere stato folgorato dall’affresco di Puvis de Chavannes Santa Genevieve veglia su Parigi addormentata). Questi spazi ritmici costituiranno la base per studi sul movimento ma si ritroveranno anche nell’invenzione di scenografie per testi scespiriani come Re Lear e come Sogno di una notte di mezza estate . Con la sua idea di un’illuminazione atemporale e di una realtà vista attraverso gli occhi dell’eroe, si confronteranno più tardi il teatro espressionista e le avanguardie futuriste e costruttiviste, ma anche registi come Max Reinhardt e musicisti come Gustav Mahler.