Savinio

«La prima volta che misi piede in un teatro, avevo sì e no cinque anni. Ciò avveniva a Volo, in quell’antica Jolco che vide salpare gli Argonauti alla conquista del vello d’oro». Fu precoce la fascinazione di Alberto Savinio per il teatro: quando lasciò ancora ragazzo la patria adottiva greca, salpando per l’Italia con il fratello Giorgio De Chirico, il sognato approdo era la conquista della scena teatrale. A questa meta affinò le armi di musica e teatro; e se la sua versatilità lo indusse a cimentarsi anche nelle vesti di pittore e scrittore, ottenendo solidi riconoscimenti postumi, nell’ambito della produzione di prosa e per la danza un processo di rivalutazione critica è tuttora in corso. Gli esordi di S. compositore avvennero nella Parigi di Apollinaire e dei Ballets Russes.

Tra il 1912 e il ’13 vi scrisse tre balletti: Deux amours dans la nuit (inedito, forse la sua migliore partitura), Persée (soggetto di Fokine; rappresentato a New York, Metropolitan, nel 1924) e La morte di Niobe (allestito a Roma nel 1925, con scene di De Chirico, al Teatro d’Arte diretto da Pirandello). Poi intervenne una lunghissima pausa nella produzione ballettistica, interrotta solo da Ballata delle stagioni (Venezia, La Fenice 1925) e da un ultimo titolo su commissione di Aurelio Milloss, Vita dell’uomo (Roma 1948, Scala 1951). Agli anni ’20 risale invece la prima prova teatrale, Capitan Ulisse (1925, rappresentata nel 1938), le cui gravi difficoltà di allestimento, e l’esito alquanto contrastato della `prima’, tennero S. lontano dal teatro per un altro decennio. Seguirono Il suo nome (1948), La famiglia Mastinu (1948), Alcesti di Samuele (Milano, Piccolo Teatro 1950, regia di Strehler) e Emma B. vedova Giocasta (Roma, Teatro Valle 1952, interprete Paola Borboni che lo incluse nelle sue serate di monologhi fino al 1958).

Episodico ma denso fu il contributo di Alberto Savinio alla critica teatrale, che esercitò tra il 1937 e il ’39 sul settimanale “Omnibus” diretto da Leo Longanesi (contributo ora raccolto in volume con il titolo Palchetti romani), e concentrata in pochi anni fu l’attività di regista, scenografo e costumista per il teatro d’opera. Accanto alle scene e ai costumi per Oedipus rex di Stravinskij e I racconti di Hoffmann di Offenbach (Scala 1948 e 1949), di particolare riuscita e assai apprezzato risultò l’allestimento dell’ Armida di Rossini, di cui firmò anche la regia (Firenze, Maggio musicale 1952), che segnò una tappa non marginale nell’evoluzione del gusto della messa in scena del teatro lirico in Italia. Tanto nel teatro che nel balletto, S. aspirò a un dinamico `teatro metafisico’, di clima strettamente affine e complementare a quello suscitato da De Chirico con la spazialità sospesa della sua pittura. Egli mirò a intessere un dialogo intriso di scetticismo tra gli archetipi della mitologia greca, rivisitati con ironia assieme tagliente e affettuosa, e l’anticonformismo più iconoclasta delle avanguardie.

Ricorrente nei suoi testi è il desiderio, che lo approssima a Cocteau, di far scendere le figure degli statuari miti greci dai loro piedistalli perché affrontino, come strani angeli caduti per sbaglio sulla terra, le angustie delle banalità borghesi e quotidiane del nostro tempo. Permeato di uno spirito surrealista da lui originalmente rivisto, il suo teatro si gioca tutto sull’abile montaggio di umori eterogenei. Ora si vena di una razionalistica nostalgia del mondo classico; ora si apre a riletture in chiave psicoanalitica (come nel monologo Emma B. vedova Giocasta, in questi anni riproposto con la regia di E. Marcucci da Valeria Moriconi); o ancora, è capace delle inaspettate cadenze di un malinconico esistenzialismo, il cui sguardo si posa a scrutare con vigile distacco tra le pieghe più dolorose della quotidianità.