Ruggeri

Figlio di un professore di lettere, Ruggero Ruggeri debuttò a diciassette anni nella compagnia Benincasa in Agnese di F. Cavallotti, per poi formarsi con A. Tessero, E. Novelli, C. Leigheb. Nel 1900 divenne primattore della Talli – I. Gramatica-Calabresi, con cui affrontò testi di Giacosa, Ferrari, Bracco, Rovetta, Sudermann, ma soprattutto s’impose come il primo Aligi nella Figlia di Jorio , rivelandosi attore dannunziano per eccellenza. La musicalità e l’incanto crepuscolare della sua voce, il portamento signorile, l’ombra di disdegno che traspariva da gesti controllati o da un semplice corrugar di ciglia concorsero a farne il modello estetico di un’intera generazione, come confermò nel dannunziano Più che l’amore e nei vari Bernstein, Bataille, De Curel, affrontati con E. Gramatica, e nei Wilde, Sardou, Brison, Guitry proposti avendo accanto L. Borelli (1910) e poi E. Paoli, T. Teldi, V. Vergani, A. Borelli con le quali passò da Shakespeare (Amleto e Macbeth ) a Bracco, da Lavedan a Forzano.

La problematica pirandelliana lo impegnò per tutta la rigogliosa maturità da Il giuoco delle parti (1918) a Non si sa come (1935), passando per Tutto per bene , Il piacere dell’onestà , Sei personaggi in cerca d’autore . Tra le due guerre ebbe come primattrici P. Borboni, A. Pagnani, M. Bagni, L. Carli, I. Gramatica, allargando il suo repertorio a Giraudoux, Nozière, Andreev e concedendo largo spazio alla drammaturgia italiana contemporanea (C.G. Villa, E. Possenti, G. Gherardi, V. Tieri) cui rimase fedele anche nel secondo dopoguerra, quando riprese molti dei precedenti successi dando credito anche a Betti e a Giannini. Straziante Martino Lori e loico Baldovino nei pirandelliani Tutto per bene e Il piacere dell’onestà – suoi antichi cavalli di battaglia cui aggiunse l’ Enrico IV – ebbe per ultima primadonna G. Paolieri, insistendo su autori e testi complessivamente inferiori rispetto alle sue eccezionali possibilità interpretative. Prima di uscire dalla scena e dalla vita ebbe la consolazione di una trionfale tournée a Parigi e a Londra. Da grande attore del teatro italiano all’antica, guardò con sospetto al teatro italiano di regia, cosa che non gli impedì di lavorare, ormai settantenne con gli allora giovanissimi Strehler, Pandolfi, Jacobbi, Brissoni e, ormai quasi ottuagenario, con Visconti, nell’alfieriano Oreste (1949). Con il cinema, muto e parlato, ebbe saltuari e insoddisfacenti rapporti.