Jouvet

È paradossale che quello che per molti è il prototipo dell’attore francese – per la dizione disincantata, l’ironia, l’eleganza un po’ esangue della recitazione, la risata inquietante – sia arrivato a recitare senza aver frequentato alcuna scuola, ma direttamente dalla scena, anche in senso non metaforico, dal momento che la carriera teatrale di Louis Jouvet inizia prima come costruttore di scene, poi come scenografo (sua è l’ideazione del celebre dispositivo fisso del Vieux-Colombier) accanto a Copeau. Quando abbandonerà Copeau, di cui è stato anche assistente, fondando un suo teatro in cui è attore principale ma anche regista, Louis Jouvet non dimentica mai la sua formazione e spesso firma le scene anche per i suoi spettacoli cercando, in sintonia con le idee del Cartel, di cui fanno parte anche Dullin, Pitoëff, Baty, di creare un contenitore che sia un equivalente visibile del testo. È possibile racchiudere la sua storia d’attore nella sintonia totale che lo avvicina a due autori: il classico Molière e il contemporaneo Giraudoux. Del primo è stato un interprete impareggiabile, lasciandoci una sbalorditiva galleria di personaggi: da Don Giovanni all’Arnolfo della Scuola delle mogli , da Tartufo ad Alcesti del Malato immaginario, iniziando quella che verrà chiamata la ‘via’ critica all’interpretazione di Molière. Con Giraudoux crede di avere trovato il suo Cechov, l’autore della sua generazione: dopo l’allestimento di Siegfried nel 1928, mette in scena praticamente tutti i testi, da Anfitrione ’38 (1929) a Judith (1931), da La guerra di Troia non si farà (1935) a Elettra (1937), da Ondine (1939) a La pazza di Chaillot (1945). Insegnante di recitazione al Conservatoire, ma anche grande attore di cinema, in alcuni libri ancora oggi fondamentali come Riflessioni di un attore (1939) e, soprattutto, Ascolta amico mio (1951), Louis Jouvet indaga quello che continua a sembrargli il mistero del teatro: il lavoro dell’attore, «quest’incredibile avventura di possesso e di spossessamento di sé», la cui meta non deve essere né il totale artificio né la totale spontaneità. Perché l’attore può solo testimoniare il suo personaggio, al quale offre la propria tecnica, la propria voce, il proprio viso.