Costa

Allievo della Scuola d’arte drammatica di Roma fin dalla fondazione (1933), diplomatosi in regia con T. Pavlova, Orazio Costa era stato poi assistente di Simoni, Salvini, Sharoff, senza perciò rinunciare all’impegno d’attore, shakespeariano principe di Aragona in Molto rumore per nulla, cechoviano Leonid nel Giardino dei ciliegi, Petrucchio nel Don Giovanni di Molière, Tiresia in Edipo re , Morrell in Candida di Shaw. Direttore della compagnia Zacconi-Bagni-Cortese e poi della Borboni-Randone-Carnabuci-Cei, s’impose come regista nel 1941 inscenando Il poeta fanatico di Goldoni alla Biennale di Venezia. Nell’immediato dopoguerra assunse la direzione artistica del Quirino di Roma, per poi fondare il Piccolo Teatro Città di Roma, un anno dopo la nascita del Piccolo di Milano. Fin dall’esordio registico impose una concezione vagamente messianica della sacralità del teatro, sollecitata da un’autentica ansia religiosa. Decisive furono le suggestioni del cattolico D’Amico e del cattolicissimo Copeau, dai quali prese rispettivamente le mosse per gli allestimenti giovanili del Mistero della Natività, Passione e Morte e di Il poverello (San Miniato 1950). Ma i suoi interessi non potevano essere conclusi nel recinto del teatro liturgico, anche se un afflato di spiritualità permea tutte le sue regie, sia che volga l’attenzione a Ibsen o all’ancor più problematico Strindberg, indugi su Cechov o affronti l’Alfieri, sia che venga tentato da Diego Fabbri o dal prediletto Ugo Betti. Non gli riuscì – lasciatosi alle spalle il Piccolo di Roma, a metà degli anni ’50 – di accasarsi stabilmente in uno ‘spazio’ tutto suo, confacente alla peculiarità della sua monacale visione di fare teatro, costretto a operare con le più disparate compagnie private o come ospite di qualche teatro stabile. Particolarmente significativi restano taluni suoi esiti al Teatro romano di Verona, a San Miniato, al milanese Castello Sforzesco, al fiorentino Palazzo Vecchio, quando svariò dallo Shakespeare delle Allegre comari di Windsor , di Romeo e Giulietta , di La dodicesima notte al Goldoni della La famiglia dell’antiquario e di Una delle ultime sere di carnovale , dal Molière del Don Giovanni e dell’ Avaro all’ Edipo re di Sofocle (Vicenza, Teatro Olimpico 1980). Ancora Alfieri, Ibsen, Betti sono ritornati a infittire un carnet registico arricchitosi negli ultimi anni con gli allestimenti di Rosales di M. Luzi (1983), La ragazza di campagna di C. Odets (1984), La vita è sogno di Calderón (1988), La beffa del grasso legnaiuolo di A. Manetti (1988). Con Visconti e Strehler tra i massimi esponenti della regia teatrale in Italia, C. ha contrassegnato con la sua schiva e severa presenza un fervido, appassionato, inquietante itinerario artistico, convalidato anche da mezzo secolo di insegnamento, prima a Roma e poi a Firenze. Alla sua scuola si sono formati attori come Buazzelli, Sbragia, Tedeschi, la Falk, la Miserocchi, la Bonfigli, e registi come Ferrero, Spadaro, Lucignani, a ciascuno avendo trasmesso il suo credo in una `coscienza dello spettacolo’ da penetrare tutti insieme, sacerdoti dello stesso rito.