coreografia

Esiste infatti una coreografia del teatro musicale colto e leggero, una coreografia cinematografica e televisiva, una video-coreografia per quei prodotti di danza pensati per lo schermo e persino una coreografia delle sfilate di moda. Ma si è diffusa soprattutto una pratica coreografica sottintesa e desunta dai modelli più alti della coreografia del secolo, a disposizione di più discipline dello spettacolo e fatta propria, specie nell’ultimo quarto del secolo, da registi, drammaturghi, artisti a vario titolo dello spettacolo dal vivo. Ciò significa che l’arte di creare e strutturare balletti e danze nello spazio, o più semplicemente di muovere corpi danzanti (o semplicemente agenti) nello spazio teatrale o in qualsiasi altro ambiente adibito allo spettacolo, ha esteso e decuplicato le sue funzioni originarie. Tale fenomeno dipende dalla crescente importanza attribuita al movimento e all’immagine in movimento, ma anche da una sopravvenuta consapevolezza: chi conosce le regole dell’organizzazione della danza nello spazio e nel tempo (tempo scandito o dettato da una musica, anche se quest’ultima, a differenza di quanto si pensa, non è necessaria alla coreografia, come non lo è ormai neppure alla danza) è molto più che un artigiano o un maître de ballet – che sa mettere in sequenza dei passi di danza o di balletto (o una loro commistione, come capita nella danza contemporanea). È invece e a tutti gli effetti un artista, un pensatore, talvolta un filosofo del movimento che nella scrittura coreografica (il termine `scrittura’ ci rimanda direttamente all’etimologia del termine, dal greco choréia : scrivere la danza) rivela la propria estetica e Weltanschauung . Al pari del regista nell’ambito teatrale, il coreografo ha assunto un ruolo preminente nel teatro della danza. Al punto che se l’Ottocento si può a buon diritto definire il secolo dei grandi ballerini e soprattutto delle grandi ballerine (romantiche), il Novecento – e ancora più nella sua seconda metà -coincide con l’affermazione dei coreografi. Ciò non significa che nei secoli precedenti l’arte d’impaginare balletti nello spazio fosse poco sviluppata, artigianale, o marginale rispetto alla cultura del proprio tempo, al contrario. Basti pensare, per il Settecento, ai balletti d’azione di Jean-Georges Noverre, considerato `lo Shakespeare della danza’ oppure, tra Sette e Ottocento, ai coreodrammi del `sommo’ Salvatore Viganò, stimato come artista massimo della sua epoca. E ancora alla geniale novità dei balletti tardoromantici di Marius Petipa, vero deus-ex-machina della coreografia del secolo scorso. Ma è nel Novecento che questa si libera, per così dire, del suo dialogo privilegiato con la danza e il balletto e della necessità di metterne in luce le conquiste e i traguardi tecnici per diventare un pensiero progressivamente autonomo dalla danza stessa, cioè dalla materia prima di cui si compone. Ed è per questo che il primo saggio coreografico davvero `nuovo’ del Novecento non può che coincidere con il Sacre di Vaslav Nijinskij (1913), ispirato dalla musica di Stravinskij, dalla rievocazione di una Russia tribale e feroce, guidato dalla necessità di una trasfigurazione estetica dei ballerini e di conseguenza della loro danza. Senza contare che Nijinskij affrontò la partitura musicale in modo affatto nuovo – quasi dalcroziano – riuscendo a produrre una propria partitura gestuale e dinamica a dialogo con quella musicale, cosa che, come noto, non piacque a Stravinskij stesso che alla rivoluzionaria coreografia di Nijinskij preferì la più tranquilla e `musicale’ versione di Léonide Massine (1920), sino a riconoscere l’iniziale errore di valutazione ma solo in tarda età. Quanto all’organizzazione spaziale dei vari gruppi di danzatori del Sacre , è interessante notare come cerchi e file, in una geometria neo-primitiva che rimanda alle danze tribali (poi descritte da Curt Sachs) non si discosta troppo dalla semplicità compositiva adottata dai pionieri della danza libera e moderna (Isadora Duncan, Loie Fuller, le Wiesenthal sino a Martha Graham). Ma a questo genere di semplicità – eletta a paradigma di una coreografia che impagina nello spazio una danza per lo più solistica (è l’individuo danzante con il suo carico psicofisico e autobiografico a dominare la scena del primo Novecento, in netta contrapposizione ai numerosi gruppi di ballerini accademici)- va detto che dà un suo contributo forse non ancora del tutto esplorato soprattutto Mary Wigman. Dai suoi assoli – a partire dalla Hexentanz (1914) – trapela una complessità compositiva nel rapporto tra spazio, gesto, dinamica a cui neppure la Graham dei pur nitidi assolo d’inizio carriera può ancora aspirare. Tuttavia, non è certo nell’ambito di quella che potremmo definire la `micro-coreografia’ solistica delle avanguardie storiche dominate da grandi, grandissimi danzatori più che da coreografi – che si rintracciano le prove di un pensiero coreografico affrancato dal passato, cioè dalla danza stessa. Ecco perchè è grande l’importanza storica della coreografia citazionista e al tempo stesso liberty di Michail Fokine: l’autore della Morte del cigno (1907), prima, e delle Sylphides (1909) poi, dimostra come la storia possa divenire oggetto di analisi e recupero in una presa di distanza dalla danza del passato che contempla al tempo stesso una sua rivalutazione. Basti pensare ai disegni floreali nello spazio delle Sylphides, e a come, sulla musica di Chopin, le creature alate, che ricordano la Silfide romantica, vi acquistino lo spessore di un sogno amorevolmente ridestato. Come è noto sia Fokine che Nijinskij appartennero alla cerchia artistica di Diaghilev e dei Ballets Russes: le operazioni sinergetiche del grande impresario teatrale, attorno al quale si radunano i maggiori artisti europei e provenienti dalla Russia degli anni anni Dieci e Venti stabiliscono nuovi primati. Innanzitutto sono coreografie brevi (accostate in serate a due o tre balletti: i cosiddetti programmi mix-bill come vengono definiti oggi), destinate spesso a pochi interpreti e nelle quali l’importanza del movimento è commisurata al valore delle musiche, delle scenografie e dei costumi. Proprio le scene e i costumi, che talvolta occupano in modo voluminoso lo spazio (come in Parade , 1917, scene e costumi di Picasso), condizionano il movimento e la danza più di quanto non fosse accaduto in passato. Certo questo condizionamento è possibile e soprattutto riuscito, quando la danza esce dalla prigione del codice accademico e accetta di arricchirsi o confrontarsi con altre tipologie coreutiche (il folklore, il ballo di sala) o con gesti e movimenti di tipo quotidiano, atletico, teatrale e così via. È proprio a questa necessaria apertura di orizzonti che dà il suo contributo fondamentale la cosiddetta coreografia neoclassica, espressione dell’ultima fase creativa dei Ballets Russes (Nijinska e soprattutto Balanchine). Un genere che dagli anni Trenta in poi perderà progressivamente i requisiti sinergetici originali – eredità e sigla diaghileviana – per privilegiare soprattutto il rapporto tra musica e danza, tra coreografo e compositore. Tutta la coreografia neoclassica – a partire dalla paradigmatica produzione americana del suo principale fautore, George Balanchine – si distingue dall’immagine: spoglia e essenziale. Scene e costumi quasi scompaiono o tornano a valorizzare solo il corpo (con calzamaglie o costumi di balletto) in uno spazio che assume una valenza virtuale. Non a caso è proprio da Balanchine che il regista Robert Wilson assicura di aver ricevuto le suggestioni più forti in merito all’invenzione di uno spazio insieme fisico e mentale. Nella mutata prospettiva psicologica, drammatica, simbolica o semplicemente narrativa della coreografia cosiddetta moderna, l’impaginazione del movimento nello spazio subisce nuove trasformazioni. Come tipologia legata alla danza moderna (Graham, Humphrey, ma anche Limón, Ailey) può essere considerata sviluppo, precisazione ed estensione di quella che abbiamo definito la micro-coreografia dei pionieri d’inizio secolo. Ogni coreografo mantiene una propria individuale scrittura scenica anche se in linea generale si rintracciano dei comuni denominatori: come lo spazio, che acquista un peso specifico e una solidità plastica, e in esso l’uso di taluni `punti forti’ (precisati ad esempio da Doris Humphrey: in The Art of Making Dances l’artista americana detta il manifesto della coreografia moderna) che valorizzano i personaggi e concentrano l’attenzione dello spettatore. Di conseguenza lo spazio perde il suo carattere `neutro’ per diventare un campo di forze contrastanti entro il quale deve evidenziarsi il carattere oppositivo della danza con le sue spinte e tensioni in conflitto ( contraction e release per la Graham, fall e recovery per la Humphrey). Non sarà dunque casuale il ricorso alla scultura, più che non alla bidimensionale pittura, come elemento scenografico privilegiato; si pensi alle nobilissime invenzioni del giapponese Isamu Noguchi per il teatro di danza della Graham. Quanto alla coreografia moderna che si avvale del linguaggio ballettistico, è in genere assai più `bidimensionale’, anche se spesso non si organizza più solo nello spazio teatrale: palasport, arene e stadi accolgono, in una rinnovata festa danzata a carattere rituale, grandi masse di ballerini (Béjart) che si muovono per lo più all’unisono. La coralità è il requisito di maggiore attrattiva, oltre alla presenza e bellezza dei corpi danzanti e, come nel balletto tardoromantico, i protagonisti/solisti vi si riservano uno spazio centrale. Comune a tutta la coreografia anni Cinquanta e Sessanta, il problema dello spazio viene affrontato in modi affatto nuovi dai coreografi della cosiddetta New Dance americana (Nikolais, Taylor, soprattutto Cunningham): un’era che polverizza le certezze della danza moderna, proietta l’individuo danzante nel cosmo, alle prese con la tecnologia, la scienza e il necessario ripensamento del suo stesso cammino nell’arte del movimento. Rompere la prospettiva rinascimentale, disperdere i corpi dei ballerini in uno spazio senza più poli d’attrazione, spezzare il rapporto frontale tra danzatori e pubblico (Cunningham), sono però esigenze che non nascono solo dalla necessità di portare lo spettacolo coreutico fuori dei teatri, in gallerie d’arte, strade, piazze e musei. La coreografia si rinnova acquisendo dei nuovi strumenti concettuali e operativi tali da sospendere non solo il normale rapporto d’intesa tra musica e danza (come accade in Cunningham) ma anche tra il coreografo e la sua opera (nell’utilizzo delle chance operations o operazioni casuali che Cuinningham mutua da John Cage). Si avvicina l’epoca della collaborazione tra il coreografo e il computer (che ancora Cunningham sarà il primo ad utilizzare) e nel frattempo anche la coreografia, come un tempo era stato per la danza (“ogni uomo è un danzatore”, aveva detto Rudolf von Laban), si accinge a diventare accessibile. Il merito delle innovazioni coreografiche che hanno inaugurato la seconda metà del nostro secolo (inclusa la trasformazione del coreografo in demiurgo della scena, come Nikolais, autore anche delle sue musiche tecnologiche e delle sue luci) è di aver iniziato un processo, tuttora in corso, di divulgazione della materia, per fornire gli strumenti atti a trasformare (almeno idealmente) ogni uomo in un coreografo. Non stupisce dunque che la successiva coreografia postmoderna abbia mosso i suoi primi passi (anni Sessanta) in un ambito di radicale sperimentazione. È ancora l’America a dominare la scena: performance, improvvisazioni, azioni motorie persino pericolose (le scalate ai grattacieli di New York di Trisha Brown), esercizi dinamici talvolta troppo semplici per essere definiti danze (e men che meno coreografie) vivificano un panorama in cui si tenta di azzerare ogni possibile conoscenza e ogni qualità coreutica (per esempio il virtuosismo dei danzatori) per ridefinire in primo luogo lo status del danzatore. Ma alle prese con la necessità di comporre nello spazio anche i postmoderni torneranno a ricollegare la danza alla musica (sia pure con nuove modalità, come nel caso dei minimalisti) e entrambe alla scenografia (tanto spesso affidata a illustri artisti visivi). Le maggiori novità nell’ultimo quarto del secolo giungono pertanto dalle modalità compositive della coreografia neoespressionista (`Tanztheater’) in cui la deflagrazione cunninghamiana dello spazio coincide con una lacerazione e frammentazione di gesti, azioni, musiche, parole e danza a cui solo il montaggio (coreografico) riesce a dare ritmo, forma e struttura. Indispensabile a questo genere di coreografia totalizzante è l’apporto delle improvvisazioni degli stessi danzatori. Una materia viva, instabile, provocatoria, capace di mutare il corso di una coreografia predefinita, di cui serviranno sia i coreografi dell’espressione (Bausch) che quelli della forma (Forsythe) nella piena consapevolezza che l’arte di comporre danze nello spazio è una scrittura significativa e trasparente, leggibile (dallo spettatore) come un racconto nello spazio, a patto che il coreografo vi riversi un pensiero, non necessariamente il suo pensiero. Anche perché a differenza della danza, la coreografia può mentire, illudere, valorizzare o screditare la danza, in un rapporto con quest’ultima che non è mai davvero simbiotico.