Cervi

Attraverso il padre, critico teatrale, Gino Cervi entrò fin da bambino a contatto con il mondo delle scene. Dopo un breve intermezzo da filodrammatico, esordì a ventitré anni come attor giovane ne La vergine folle di H. Bataille a fianco di Alda Borelli. L’anno successivo si trasferì al Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello e iniziò un tirocinio che si concluse nel 1935 quando, oltre a interpretare il suo primo film (Aldebaran di A. Blasetti), diventò primattore nella compagnia Tofano-Maltagliati. Fu il momento in cui, affrontando personaggi quali Memmo del pirandelliano Ma non è una cosa seria o Paolo di La maschera e il volto di Chiarelli, si dimostrò più che mai attento a quanto di più stimolante offrisse il repertorio contemporaneo; e questo muovendosi nella direzione di una recitazione asciutta, stringata, moderna, nell’ambito di una scena italiana ancora incline a subire fascini mattatoriali. Fu proprio questa scelta espressiva che più avanti gli permise di affrontare, con esiti non trascurabili, alcuni grandi testi shakespeariani, fra i quali un Otello lontano dalla tradizione di commossa drammaticità, nonché Le allegre comari di Windsor , dove diede al personaggio di Falstaff la sua calda comunicativa; il tutto con quella saporita dizione d’impronta emiliana e quella larghezza di gesto che furono sue prerogative.

Gli anni dell’immediato dopoguerra, quando si era già ampiamente affermato anche al cinema (basti pensare al successo di Quattro passi fra le nuvole , regia di Blasetti, 1942), lo videro proseguire su una strada pronta a cogliere i fermenti, le indicazioni del `nuovo’ teatro; fra i lavori di cui fu protagonista, I parenti terribili di Cocteau (regia di Visconti), La guerra di Troia non si farà di Giraudoux (regia di Salvini), Brava gente di Shaw. Nel 1953 apparve in Cyrano di Rostand, rimasto forse il suo risultato più compiuto: proprio i suoi toni pacati, uniti a una sapiente tecnica, riuscirono a spogliare il personaggio di quell’aureola di retorica in cui la tradizione lo aveva fissato, restituendolo in maniera più viva e autenticamente sofferta. Toni pacati che riaffioreranno ne Il cardinal Lambertini di Testoni, che portò anche al cinema e in Tv. Nel frattempo era arrivato anche il grande successo popolare con Don Camillo (1952), film tratto dal romanzo di Guareschi in cui, in coppia con Fernandel, interpretava il personaggio di Peppone, la cui bonarietà ringhiante gli calzava a pennello. Più tardi, a partire dal 1968, cominciò per la televisione la lunga serie del Commissario Maigret di Simenon (41 puntate), affiancato da Andreina Pagnani. Era un Maigret di socchiuso umorismo, piuttosto in pantofole e con un eccesso di pipa, al quale C. non faceva altro che portare il suo alto mestiere, quella carica di simpatia che spontaneamente emanava; la stessa che sempre era riuscito a creare intorno ai suoi personaggi, in maniera tale che gli riusciva difficile, anche se non impossibile, assumere ruoli di cattivo.