café-chantant

Così, fra l’altro, Matilde Serao scrisse a proposito dell’inaugurazione del Salone Margherita, avvenuta la sera del 15 novembre dell’anno di grazia 1890. E potrebbe bastare quella frase, da sola, a dire del carattere addirittura emblematico subito assunto dal nuovo locale nel mondo dello spettacolo e presso la società dorata della Belle Epoque. Fu, in effetti, il primo autentico c.-c. non solo di Napoli, ma d’Italia: solo dopo, e con esiti di gran lunga inferiori, vennero il Gran Salone Eden di Milano e il Music Hall Olympia di Roma. Sicché possiamo dedurne tranquillamente che quel genere di locale e il genere di spettacolo a cui esso diede il proprio nome – l’uno e l’altro diffusi in tutta Europa tra la fine del secolo scorso e i primi quindi anni del Novecento – ebbero la loro capitale a Parigi, precisamente al Moulin Rouge, e la loro principale ambasciata per l’appunto a Napoli e al Salone Margherita. Del resto, anche un brevissimo elenco delle `chanteuses’ e dei macchiettisti che vi si esibiscono dimostra a sufficienza quanto alto fosse il livello artistico che altrettanto immediatamente si raggiunse in quel teatro a pianta circolare situato nelle viscere della Galleria Umberto I, di fronte al San Carlo: si va dalla Bella Otero a Nicola Maldacea, da Lina Cavalieri a Cléo de Mérode a Eugénie Fougère e Maria Campi, la donna che inventò la `mossa’. E corse, come un vento lieve, l’immemore euforia di un’epoca che danzava sul ciglio dell’abisso. A siglare sul piano dell’ufficialità più indiscutibile il trionfo del Salone Margherita e del genere di spettacolo che vi trionfava – un misto di musica, canto e attrazioni varie – fu, nientemeno, l’allora ventunenne Vittorio Emanuele, principe di Napoli: il 16 maggio del 1891 anche lui era fra gli spettatori che affollavano il locale. E al termine di una serata in suo onore, nel 1895, alla Fougère gli ammiratori napoletani regalarono gioielli per ventimila lire e fiori per diecimila: erano tanti, quei fiori, che strariparono fuori dei corridoi del c.-c. e invasero tutta la Galleria. Poi, dopo la prima guerra mondiale, il Salone Margherita – in uno con il tramonto della società e del tipo di spettacolo che lo avevano tenuto a battesimo – si trasformò in teatro di varietà. Ma, anche nella nuova veste, nemmeno un’ombra appannò il suo splendore: giacché ne continuano i fasti, tanto per fare appena qualche nome, `vedettes’ del calibro di Anna Fougez, Zara Prima, Elvida Donnarumma, Papaccio, Pasquariello, Vincenzo Scarpetta, Bixio, Fregolino, Armando Gill, Lina Gennari, la soubrette che con i suoi occhioni azzurri fece perdere la testa al già affermato (e ammogliato) Gino Cervi, e – last but not least – l’immenso Raffaele Viviani. Quindi, terminato pure il secondo conflitto mondiale, venne il tempo, nell’ambito della rivista, di giovani promettenti che si chiamavano, poniamo, Ugo Tognazzi ed Elena Giusti. E, ancora, passarono per il Salone Margherita Eva Nova, Franco Ricci, Amedeo Pariante per quanto riguarda la canzone napoletana e, per ciò che invece attiene alla sceneggiata, le sorelle Nunzia e Nuccia Fumo e i vari Gino Maringola, Amedeo Girard e Rino Genovese. Infine il declino: una prima chiusura il 14 gennaio del 1952, una seconda il 20 dicembre 1960 e la terza, definitiva, nei primi anni ’80, dopo che alle riviste con soubrette come Marcella Ruffini e Liliana e comici come Nino Formicola, Trottolino, Beniamino Maggio e Nino Lembo s’erano sostituiti i film porno e gli spogliarelli d’infimo ordine. Eppure, persino in quell’agonia stracciona brillò qualcosa dell’antica gloria: per esempio la sera in cui si vide un marinaio nero, venuto da chissà quali lontananze di solitudine, offrire una bottiglia `mignon’ di whisky, l’unica cosa che aveva, a una tristissima e sbrindellata spogliarellista. Lei, per un momento, l’aveva fatto sentire meno solo. Perché gli era sembrata bella com’era stata, un tempo, la Bella Otero.