body art

L’artista sceglie il proprio corpo (o quello di modelli) come medium o strumento di un processo di performance dove regnano il caso e la desacralizzazione dell’opera d’arte in quanto fine ultimo e incarnazione di valori assoluti. Si va al di là del semplice manufatto artistico come prodotto vendibile a mercanti e collezionisti e si trae forza dal carattere specificamente effimero e scevro da valutazioni di tipo economico della performance (anche se nel circuito artistico si vendono foto firmate dall’artista che documentano la sua azione). Il corpo nella b.a. diventa materia plasmabile e teatralizzata su cui si focalizza lo sguardo dello spettatore-fruitore (del quale il body-artist non può fare a meno). Per convenzione la storia della b.a. si fa partire con l’azionismo viennese, ma essa prende l’abbrivo dalle avanguardie storiche come il futurismo, il dadaismo, il surrealismo e dall’opera di uno scrittore e teorico lucido e violento come Antonin Artaud. Ricordiamo la battaglia antipassatista e vitalistica dei futuristi italiani e, in primis, di Filippo Tommaso Marinetti che propugna L’abbandono della tradizione e la glorificazione della guerra sola igiene del mondo. E, al culmine della Grande guerra, lo scrittore Hugo Ball che fonda il Cabaret Voltaire a Zurigo (1917), luogo di rifugiati politici, disertori e anarchici che danno vita a soirées di musica, teatro e danza. Nello stesso anno con Tristan Tzara, Hans Richter e Arp, nasce il gruppo dada, che è per l’espressione libera, irrazionale e dissacratrice del caso. Marcel Duchamp espone i ready-mades dando valore a oggetti trovati e decontestualizzati come un orinatorio ( Fontaine , 1917) o un portabottiglie. In questa geniale operazione concettuale duchampiana di rifiuto del convenzionale e istituzionalizzato oggetto d’arte c’è una impasse metodologica che è anche nella b. a.: «non si può tradurre in monumento artistico il rifiuto del monumento» (Robert Klein). Altra grande corrente artistica che nutre la b.a. è il surrealismo di André Breton che dichiara: «la nuova forma d’arte è un automatismo psichico in cui il pensiero è nell’assenza assoluta di ogni controllo esercitato dalla ragione e al di fuori di ogni preoccupazione estetica». Questa idea di una istintualità liberata è, come vedremo, di estrema importanza nella b.a. La mediazione di Freud e del marchese de Sade saranno altri punti di riferimento. All’inizio degli anni ’60, il corpo umano occupa decisamente la scena artistica con notevoli anticipazioni di Ives Klein con le sue Anthropometrie e di Piero Manzoni che appone la sua firma su modelle nude Sculpture Vivante (1961). Interessanti anche le fotografie di Hans Bellmer di corpi femminili legati come insaccati di carne (1958) e gli happening della corrente Fluxus (a partire dal 1951 con il concerto di John Cage al Black Mountain College) con Allan Kaprow, Maciunas, John Cage, Wolf Vostell, Naum June Paik, Daniel Spoerri e Terry Riley in quanto affermazioni della performance come linguaggio artistico autonomo. Ovvero la riappropriazione del corpo nell’arte con l’esibizione della nevrosi, della dimensione aggressiva ed egocentrica, masochistica e sacrificale e il bisogno di liberazione degli istinti repressi. La prima grande espressione di tutto questo la troviamo Azionismo Viennese. L’eccesso purificatorio dei corpi e paramenti religiosi insanguinati nei riti di Hermann Nitsch. I corpi avvolti da bende nelle fotografie di Rudolf Schwarzkogler. Gunter Brus completamente imbrattato di vernice bianca che passeggia tranquillamente per il centro di Vienna o che si autolacera con un coltello. Rasoi, lacci, garze, autocastrazione, gorghi di sangue, ingestione di urina, carne sventrata, escrementi, sudore, sodomizzazione e autoerotismo in una sensorialità totale e attiva. Il rischio corporale, il cortocircuito psicologico e l’autolesionismo sono centri nodali nelle performance degli anni Settanta. Chris Burden che si fa sparare offrendosi come bersaglio in Shoot (1971). Gina Pane che si `autopunisce’ con una lametta da barba o si conficca delle spine di rosa sul braccio ( Azione Sentimentale , 1973). Vito Acconci che si masturba per ore su una piattaforma in una galleria d’arte in Seedbed (1972). Genesis P-Orridge e Cosey Fanni tutti di COUM Transmission che si martoriano i genitali o bevono urina. Il corpo nudo, unto e coperto da ogni specie di fluidi organici di Carolee Schneemann in Meat Joy . Gilbert & George che si autodefiniscono «Living-Sculptures» come Corpo-Arte simbiotico. Urs Luthi, Michel Journiac, Jurgen Klauke, Zoe Leonard e Annette Messager che lavorano sul travestitismo, il fascino ambiguo dell’androgino, sull’inversione dei ruoli sessuali (anche qui Duchamp è grande anticipatore con Rose Sèlavy del 1921). Nel milieu politico, culturale e sociale di questi anni in cui operano il teatro di avanguardia (Living Theatre, The Bread & Puppet), i cineasti del cinema Underground (Andy Warhol, Michael Snow, Stan Brackhage, John Cassavetes), gruppi rock e punk (Frank Zappa, The Stooges, Sex Pistols e Velvet Underground) si muovono le angry women con le loro performances crudeli: Valie Export, Ana Mendieta, Karen Finley e Hannah Wilke. Il corpo nella b.a. degli anni ’80 e ’90 è un progressivo dislocamento, continua manipolazione, smaterializzazione e rapporto con l’inorganico. La dimensione soggettiva e intimistica della performance è quasi del tutto sparita in una nuova fenomenologia estetica. Quindi corpo ibridato, amplificato, immerso nell’elettronica neuronale, clonato dalla ingegneria genetica, trafitto da microtecnologie, obsoleto, piagato da nuovi virus come l’Aids, desessualizzato, cyborg e carne videodromatica tecnomutante. Stelarc e le sue performances interattive con la protesi Third Hand e il computer. Marcel.li Antunez Roca ricoperto di tubi ad aria compressa `violentato’ dal pubblico in Epizoo (1994). I cadaveri di animali con innesti artificiali dei Survival Research Laboratories di Mark Pauline. La mutante Orlan che metamorfizza il suo volto con interventi di chirurgia plastica. Le maschere psicotroniche di Paul McCarthy o quella mitologica di Mathew Barney ( Cremaster , 1995). Le installazioni reiterative e i corpi-vittime incastrati e immobili di Jana Sterbak ( La Robe , Sisifo e Defence ). Con l’avvento apocalittico e pervasivo delle nuove tecnologie (`trascritte’ nel nostro sistema nervoso, parafrasando James G. Ballard) non c’è, come taluni credono, una totale negazione del corpo da parte del suo simulacro elettronico, ma un radicale processo di ridefinizione antropologica che, senza ombra di dubbio, gli artisti della b.a. hanno saputo e sanno eccezionalmente incarnare più di altri.