Béjart

Berger; Marsiglia 1927), ballerino e coreografo francese. Figlio di Gaston Berger, filosofo e seguace, inoltre, del sistema brahamano Vedanta, B. ha una formazione umanistica e frequenta la facoltà di filosofia. Studia danza a Marsiglia presso il Teatro dell’Opera, si perfeziona a Parigi con Léo Staats e a Londra con Vera Volkova. Come ballerino debutta a Marsiglia, come coreografo si impone agli inizi del ’50, epoca della fondazione di Les Ballets de l’etoile (1953) poi divenuti Le Ballet-Théâtre de Paris (1957): la sua prima compagnia. In questo periodo nella Parigi della sperimentazione, degli chansonniers e dell’esistenzialismo nascono Symphonie pour un homme seul (1955) sulla musica dei due Pierre del `concreto’, Henry e Schaeffer, Le teck (1956) in collaborazione con Jacques Prévert e Sonate à trois (1957) da Sartre. Se fin qui B. si limita ad afferrare gli umori del suo tempo, nel 1959 diventa improvvisamente se stesso con una coreografia di rottura che presenta in nuce molti elementi della sua poetica ed è destinata a rimanere nei decenni il biglietto da visita più significativo. È Le sacre du printemps che accosta ai possenti blocchi sonori delle partiture di Stravinskij la prepotenza di una danza maschile contrapposta alla fragilità calligrafica del disegno femminile. Nasce una nuova compagnia, il mitico Ballet du XXème siècle appoggiato al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles (1960). Alla coralità del Sacre si accosta, già nel 1960, lo sconvolgente individualismo di Bolero , la creazione più famosa, corteggiata anche dalla cinematografia proposta dapprima in versione femminile con coro maschile, poi in veste maschile con coro femminile, poi ancora modello omosex e finalmente nell’ecumenismo che consegna l’eros del protagonista a maschi e femmine assemblati attorno al famoso tavolo rosso. Tra esaltazione, gioia e commozione nascono quegli affreschi inimitabili che B. propone al mondo alla guida dell’esercito vittorioso dei suoi. Danzatori da subito béjartiani per una disciplina che ne plasma i corpi e condiziona le menti. Particolare attenzione è riservata agli uomini, che sono i fulgidi Touron e Lommel, Donn e Gascard; i Capitani di ventura. B., romantico Wanderer, ama un cosmo senza confini né discriminazioni da esplorare con gli occhi della musica e della mitologia, della storia e della letteratura, del pensiero filosofico, politico, psicologico e sociale suo e altrui. E da raccontare con la danza: «perché la danza è l’arte del ventesimo secolo». Le parole per dirlo sono un lessico classico-moderno solidamente impiantato sull’accademia e un teatro totale che sa di Europa e di Oriente e oscilla tra enfasi barocca e ascetici silenzi. Alter ego musicale di B. è Wagner il cui oscillante leitmotive è specchio del continuo fluttuare degli stati di coscienza del buddhismo e la cui totalità drammaturgica corrisponde alla identica aspirazione béjartiana. Nei titoli che si inseguono senza posa il musicista è costantemente presente: da Mathilde ou l’amour fou (1965) a Baudelaire (1968) e a Les vainqueurs (1969). Via via sino a quel Ring um den Rings del 1990 che è una miracolosa sintesi onnicomprensiva della Tetralogia . Sul versante filosofico il più amato è Nietzsche ( Dionysos , 1984). Se Petrarca torna in Per la dolce memoria di quel giorno (1974, su musiche di Berio), Goethe in Notre Faust (1975, su musiche di Bach e tanghi argentini), Artaud in Heliogabale ou L’anarchiste couronné (1976, su musiche di Verdi/Rota/Henry e musica tradizionale africana) e Molière in Le Molière imaginaire (1976, su Rota), vasto spazio è dedicato alle religioni, dove B., con sensibilità postmoderna, avverte la crisi che mina il dogma e il monoteismo, indirizzando molti verso fonti di religioni più cosmiche e immanenti. Il sincretismo filosofico-religioso di B., che manipola rosari di religioni lontane, sono i sufi di Golestan (1973), i dervisci di Thalassa Mare Nostrum (1982), la `rosa del deserto’ di El Nour (1990). Mentre l’hassidismo è Dibbuk (1988), il tantrismo La tour (1991), il cristianesimo ortodosso Souvenir de Léningrad del 1987. Che è anche l’anno del clamoroso abbandono della Monnaie e del trasferimento a Losanna. Dove nascono il nuovo Béjart Ballet Lausanne e la scuola multidisciplinare Rudra speculare a quello che era stato il Mudra di Bruxelles. Da questo momento in poi si manifestano in B. momenti di inquietudine e stanchezza. Soprattutto riflessi, i secondi, in alcuni balletti celebrativi. Souvenir è un inno alla perestrojka, A force de partir je suis resté chez moi , dello stesso periodo, un omaggio al cantore del Vaud, Ramuz. Se da un lato i ragazzi del Lausanne diventano a loro volta rapidamente e miracolosamente béjartiani, il panorama tematico si amplia con – Mr. C. – su Chaplin e Episodes su Pasolini, entrambi del 1992, e si intensifica la bellissima collaborazione Béjart-Versace, dall’altro si accentuano autocitazione e autocelebrazione. E anche se B. continua a richiamare nei vasti spazi del Théâtre de Beaulieu folle deliranti di giovani, i tempi del XXème siècle e dei suoi dei sono irrimediabilmente perduti: nella loro puntualità culturale come nella teatralità a tratti troppo istrionica. Ma i fatti dimostrano come più che di crisi di vocazione sia giusto parlare di `altra’ vocazione. Nel 1992 infatti il complesso cameristico Rudra prende il posto del grande Lausanne. B. concede per l’ultima volta alle platee i suoi capolavori e poi ne ritira i diritti. Fa terra bruciata alle sue spalle e scompare inghiottito dalla mistica passione di sempre: l’Oriente. In Giappone `adotta’ il Tokio Ballet e crea ancora per quelle fisicità d’impatto e quella spiritualità profonda. A The Kabuki del 1986 e Bagaku dell’88 aggiunge M (1993), emme come Mishima. Quindi, all’improvviso, torna a casa, ricompatta il Lausanne e scrive ancora. Le Presbytère n’a rien perdu de son charme, ni le jardin de son éclat è del 1997; Mutations dell’inverno ’98. Schiaccianoci e L’heure exquise dell’ottobre ’98, per Torino Danza, festival del quale B. è il neo-direttore. Tra le riprese quella IX Symphonie (proprio Beethoven, nota su nota) che nel 1964 era riuscita ad ottenere l’imprimatur della critica musicale più diffidente. Come avverrà nel 1981 per la limpida lettura in chiave massonica del Flauto mozartiano: nota su nota, parola su parola. E triangolo su triangolo.