attore

La loro scomparsa segnò la fine di un’epoca, dominata dalla figura del `grande attore’, protagonista assoluto delle scene europee ottocentesche. A renderlo `grande’ non erano soltanto le straordinarie qualità istrioniche, ma la personalità che si serviva di interi repertori (molto Shakespeare ma anche moltissimi melodrammi), come di occasioni per esprimere soprattutto se stesso, preoccupandosi in genere più del personaggio che stimolava la sua immaginazione che dell’eventuale complessità del testo. Furono per il loro tempo e per i luoghi nei quali si esibirono (l’Europa e le Americhe) degli autentici divi, che univano al magnetismo personale un’impressionante capacità di comunicare, anche oltre le barriere linguistiche, sentimenti forti e passioni squassanti. Della loro lezione, soprattutto di alta professionalità e di perfetta padronanza tecnica ed espressiva, avrebbero fatto tesoro nel XX secolo gli innovatori che affrontarono come mai in passato la figura dell’a. in tutte le sue implicazioni. Il primo, e il più significativo, fu Stanislavskij, le cui idee rimasero, anche per chi le contestava, l’inevitabile punto di riferimento di ogni riflessione sull’arte istrionica. Di quest’arte l’a. e regista russo scrisse insieme la grammatica e la sintassi, elaborando le esperienze fatte sul palcoscenico in quello che, non per caso, definì un `sistema’. Prima di lui c’erano stati i trattatisti della Commedia dell’Arte, il discorso ai comici di Amleto, le Regole per gli attori di Goethe, e poco altro, se si eccettua il geniale e provocatorio Il paradosso dell’attore di Diderot che apriva un dibattito destinato a durare: deve il commediante far prevalere la propria emotività o non piuttosto la tecnica, deve insomma immedesimarsi nel personaggio o fingerne le emozioni? Stanislavskij fece qualcosa di assolutamente nuovo, elaborando la prima e più compiuta analisi del processo creativo dell’a. Studiò dapprima «il lavoro dell’attore su se stesso», fondato sull’esplorazione, attraverso esercizi d’improvvisazione, delle proprie risorse psicologiche e immaginative (fu poi questa la base della versione americana del `sistema’, il cosiddetto `metodo’), poi «il lavoro dell’attore sul personaggio» nel quale assumeva particolare importanza la scoperta e l’espressione del `sottotesto’ cioè di quanto di significativo si nasconde sotto la superficie di un’opera drammatica, e concluse la sua indagine, iniziata intorno al 1906 e interrotta soltanto dalla morte, teorizzando l’importanza determinante delle azioni fisiche. La lezione di Stanislavskij, tuttora fondamentale per quanto concerne la didattica della recitazione, era soprattutto valida per un repertorio di tipo realistico, quale era venuto a svilupparsi a partire dalla metà dell’Ottocento. L’a. era visto come un interprete che doveva dar corpo ai personaggi ideati da un drammaturgo identificandosi in loro. Ma non lo facevano, per esempio, gli attori di varietà, e neppure i mimi, riportati sulle scene, un secolo dopo i trionfi di Deburau, dall’appassionata predicazione di Decroux. Non lo facevano insomma quei teatranti che, estranei per cultura e tradizioni ai canoni del realismo, consideravano il corpo e i suoi gesti, e anche la voce e le sue tonalità, non soltanto strumenti espressivi, ma l’essenza stessa della loro professione. Come i comici dell’arte e come gli a. dei teatri orientali che cominciavano a farsi conoscere anche in Occidente, esercitando un’influenza determinante sui teorici e sugli artisti che cercavano di trasferire sui palcoscenici il messaggio di quella rivoluzione antinaturalistica già avvenuta nelle altre arti. Il primo fu Gordon Craig, che elaborò il concetto di Übermarionette , auspicando un a. che non imitasse ma indicasse e una recitazione impersonale e simbolica, con l’impiego di maschere e con gesti e movimenti fortemente stilizzati. Le sue idee influirono sulla `biomeccanica’ di Mejerchol’d (una tecnica per suscitare emozioni attraverso l’attività fisica) e, indirettamente, sulla teoria brechtiana dell’a. epico che, rifacendosi esplicitamente alle idee di Diderot oltre che alle tecniche del teatro cinese, doveva approdare a uno stile freddo e oggettivo in grado di isolare e comunicare determinati comportamenti sociali senza coinvolgimenti emotivi. Tutti questi innovatori, da Stanislavskij in avanti, continuavano sostanzialmente a vedere nell’a. soprattutto un interprete di testi. Un’alternativa radicale venne proposta da Artaud, in scritti teorici redatti negli anni Trenta e considerati stimolanti ma fondamentalmente utopistici fin oltre la metà del secolo. Il teatro da lui auspicato non si basava sul testo ma sulla messinscena, e richiedeva che l’a. si servisse della propria corporeità e dei propri fantasmi per recuperare quella violenta e sconvolgente verità metafisica che il mondo moderno aveva perduto e per entrare in comunicazione non con la razionalità dello spettatore ma con i suoi nervi e il suo cuore. In questi teorici, ma anche negli apporti delle arti figurative e della danza, si possono trovare le radici delle esperienze teatrali più avanzate degli ultimi decenni del secolo. Con Grotowski e con Kantor, con Barba e con Wilson, col Living Theatre e con Brook, per citare soltanto alcuni nomi, un certo tipo di a. occidentale si staccò completamente dai modelli precedenti per diventare autore a pieno titolo dello spettacolo, la cui creazione passava per la sua fisicità, divenuta espressiva attraverso un lungo lavoro di improvvisazione e approdava a un teatro la cui ragione d’essere si esauriva in se stesso, cancellando il testo scritto o riducendolo a un mero punto di partenza da elaborare autonomamente per suscitare nello spettatore turbamenti ed emozioni.